Questo articolo è uscito il 23 aprile 1994 nel numero 24 di Internazionale. L’originale era uscito sul settimanale statunitense The Village Voice, con il titolo Serial killers and the people who love them.

L’anno scorso, per festeggiare Halloween, Rick Stanton, 39 anni, nativo di Houston e direttore di un’agenzia di pompe funebri a Baton Rouge in Louisiana, è andato a far visita in prigione a Elmer Henley, uno dei suoi serial killer preferiti. Dopo essersi fermato in una cittadina del Texas orientale per raccogliere la madre di Henley, Staton ha passato quattro ore buone con lei e Henley nella casa di correzione di Tennessee Colony, alla periferia di Palestine, dove l’uomo sta scontando sette ergastoli per aver partecipato, insieme a Dean Corll e David Brooks, all’omicidio di 27 ragazzi.

Più tardi, nella stanza piena di macabri oggetti in cui la moglie e la figlia di 5 anni non possono entrare, Staton giudica positivamente la sua visita a Henley (la seconda in due anni). “È andata veramente bene ”, dice Staton. “Ci siamo divertiti molto”.

Circondato da teschi, riproduzioni di pietre tombali (quelle di Edward Gein e Corll), diversi quadri di clown di John Gacy, terra proveniente dalla tomba di Gein (un regalo scherzoso per i suoi amici geinofili), scatole e scatole di lettere, oggetti da collezione e reliquie dei più noti serial killer e omicidi di massa (“Mi interessano solo i più famigerati, i grandi nomi”), si abbandona ai ricordi. Staton ha cominciato la sua attività imprenditoriale fungendo da mercante d’arte per Gacy per diversi anni. È un vero appassionato del crimine, che ha trasformato l’ossessione di una vita per i più famigerati assassini in una fiorente industria familiare, ed è particolarmente orgoglioso di aver costretto Henley a uscire dall’oscurità e a sfruttare la propria rinnovata fama. Henley, che non era mai stato un artista, adesso crea (perché Staton possa venderli) innocui paesaggi marini e disegni di koala – testimonianze lugubri e banali, secondo Staton, della sua innocenza, o avvenuta riabilitazione, o forse solo del fatto che era troppo giovane e si è trovato con le persone sbagliate, nel posto sbagliato, al momento sbagliato. “Se c’è uno di questi uomini che dovrebbe essere liberato”, sostiene Staton con il suo strascicato accento texano, “è lui”.

Nel 1973 Henley era libero, e io e mio padre, dopo aver fatto l’autostop da Albuquerque a Montgomery per andare a far visita ai miei nonni, stavamo facendo l’autostop per tornare a Albuquerque. Avevo 10 anni. Era l’inizio di agosto e stavamo entrando nel Texas, quando a un certo punto, dalle parti di Houston, vidi in televisione un filmato della polizia che scavava buche su una spiaggia e tirava fuori sacchi della spazzatura pieni di cadaveri. Al momento non mi resi conto che gli omicidi erano finiti e che gli assassini erano stati presi. Colsi solo il terrificante fatto fondamentale: tre uomini raccoglievano autostoppisti e ragazzi che scappavano di casa – molti dei quali non erano molto più grandi di me – li violentavano, li torturavano e li uccidevano. Attraverso tutto il Texas, rimasi con il terrore che se fossimo saliti in macchina con tre uomini (cosa che successe due volte), avrebbe potuto trattarsi dei tre assassini, e che io e mio padre saremmo presto finiti a marcire in un sacco della spazzatura sepolto sotto una spiaggia piena di rifiuti.

Adesso sono passati 20 anni, e io sto salendo le sgangherate scale male illuminate di un umido edificio, che un tempo è stato una casa occupata, nella zona ovest di Filadelfia. Davanti a me arranca Randall Phillip, l’inventore di “Fuck”, un giornalaccio intenzionalmente sgradevole e semireazionario che mira a “professionalizzare (sic) l’omicidio in serie”.

Mi rendo conto che professare simpatia e ammirazione per i serial killer conferisce potere e una certa aura di sediziosità

Come quando si sale sulla macchina di uno sconosciuto, non posso fare a meno di provare un po’ di apprensione. Se le semiserie dichiarazioni criminali di Phillip non fossero sufficienti (“Io sono sincero riguardo al mio desiderio di uccidervi”, ha scritto in un numero della rivista, “e voi siete sinceri riguardo al vostro desiderio di essere uccisi da me”), è opinione comune tra alcuni dei cinquecento lettori di “Fuck” che Phillip sia o un agente federale o un serial killer. A un certo punto – credo quando Phillip ammette di aver convinto i suoi genitori che “Fuck” è una rivista comica come “Ren & Stimpy” – la mia apprensione scompare. In quel momento mi rendo conto che professare simpatia e ammirazione per i serial killer conferisce potere e una certa aura di sediziosità.

E poi, in fondo è solo un gioco.

Ma gli americani hanno sempre messo in risalto il lato affascinante di personaggi minori come Billy the Kid e John Dillinger – evidentemente cowboy assassini apolitici con il culto della frontiera – e le fiacche razionalizzazioni intellettuali di vecchi palloni gonfiati come Mailer (e Genet e Gide prima di lui) sono solo servite a tenere vivo il mito dell’assassino. Per alcuni, l’interesse per gli omicidi in serie è praticamente diventato un passatempo, e per altri una diversione come guardare la partita di baseball o le previsioni del tempo. “Se chiedete agli studenti universitari di nominare cinque vicepresidenti”, dice Jack Levin, coautore di Mass murder (Omicidi di massa) e professore di sociologia alla Northeastern University, “non sono in grado di farlo. Ma sono capaci di nominarvi cinque serial killer, senza esitazione”.

Come una pietra in uno stagno
I serial killer sembrano essere ovunque. Forniscono infinita materia di conversazione per i talk show, entrano nel meccanismo dell’intreccio di qualsiasi cosa, dalle serie televisive come Comish e Seinfeld a quasi tutti i thriller cinematografici, appaiono nelle mostre delle gallerie d’arte (le recenti mostre di un giorno di John Gacy a New York e Los Angeles), nei fumetti (“Psycho Killers” trasforma tipi come Jeffrey Dahmer o Richard Ramirez in eroi come Hulk), figurine (ne esistono almeno cinque serie diverse in cui appaiono tutti, da Albert Fish a Arthur Shawcross), canzoni (le ballate per un assassino non seriale come Charles Manson cantate dai Guns N’ Roses e dai Lemonheads), numeri telefonici speciali, e T-shirt. E a tutti (Eddie Vedder dei Pearl Jam, l’attrice Gwyneth Paltrow) piace dire che sarebbero potuti diventarlo. Tuttavia, per quanto onnipresente, il fenomeno dei serial killer rimane uno dei più incompresi e manipolati dell’era postbellica.

Immaginate il serial killer come una pietra gettata in uno stagno. Il primo cerchio che crea è quello delle sue vittime, il secondo è quello dei suoi imitatori (sembra che Joel Rifkin abbia imparato da Arthur Shawcross), e i successivi sono i suoi ammiratori – che vanno da quelli-che-vorrebbero-uccidere-ma-non-ci-riescono, agli ossessionati e ai benignamente curiosi – e tutti costoro, a diversi livelli, contribuiscono a fargli pubblicità, a crearne l’immagine e il mito.

Secondo le stime della Società americana di psichiatria, dal 3 al 5 per cento degli uomini americani sono sociopatici

Sebbene la documentazione di delitti a sfondo sessuale in serie risalga alla fine dell’Ottocento, è stato solo verso la metà di questo secolo che si è cominciato a vedere questi crimini di “autostima”, per parafrasare lo psicologo Abraham Maslow, come un fatto culturale piuttosto che come aberrazioni individuali. In base ai quattro livelli della “gerarchia dei bisogni” di Maslow, la gente inizialmente uccideva spinta dalla povertà o dalla fame; verso la metà dell’Ottocento uccideva per la propria sicurezza domestica – per avere una casa; poi gli uomini hanno ucciso per amore, per il sesso; e infine, una volta che si erano assicurati cibo, rifugio e gratificazioni emotive, hanno iniziato a uccidere per essere notati, per ottenere rispetto. I serial killer uccidono tre o più persone nell’arco di un certo periodo di tempo. E l’omicidio in serie ha sempre una componente sessuale, anche se non viene compiuto alcun atto sessuale. L’ex agente dell’Fbi Robert Ressler, autore di Whoever fights monsters (Chi combatte i mostri) e creatore del termine “serial killer” alla fine degli anni Settanta, non parla di serial killer donne perché non ne ha mai incontrata una – e Aileen Wuornos, che è nel braccio della morte in un carcere della Florida per aver ucciso sette uomini, non è un’eccezione. La Wuornos ha sostenuto che tutti i suoi omicidi erano casi di legittima difesa, e comunque non li ha commessi in sequenza e in maniera ritualistica, né ha mutilato le sue vittime – tutti requisiti necessari, secondo Ressler.

Attualmente le prigioni ospitano circa 450 serial killer e il numero di omicidi loro attribuiti si aggira sui 2.700. In qualsiasi momento, il numero di serial killer in libertà è di circa 20 (non “500” come ama sostenere “Geraldo”). “Secondo le stime della Società americana di psichiatria, dal 3 al 5 per cento degli uomini americani sono sociopatici”, dice il professor Levin. “Milioni di uomini”. E anche se quasi nessuno di loro arriverà mai a uccidere, i due ingredienti necessari per diventare un serial killer “la sociopatia e un eccessivo bisogno di potere – un altro disturbo condiviso da milioni di uomini – possono di tanto in tanto confluire in una serie di omicidi”.

L’omicidio in serie, un atto rituale compiuto prevalentemente da maschi bianchi tra i 25 e i 40 anni, è ormai considerato il crimine estremo. È così casuale ed efferato da apparire irreale, paranormale. In sostanza, tuttavia, gli uomini che diventano assassini in serie sono normalissimi, o “ipernormali”, secondo Jane Caputi, docente di studi americani all’università del New Mexico e autrice di The Age of Sex Crime (L’era dei crimini sessuali) e di Gossips, Gorgons & Crones: the Fates of the Earth (Pettegole, Gorgoni e Vecchiacce: le Parche della Terra). “L’idea che siano bestie”, dice la Caputi, “è un’idiozia: gli animali non fanno queste cose. E anche l’idea che siano ispirati da Satana è sballata, quelli giocano a sentirsi Dio, non Satana”.

Per la vera e propria sottocultura che sta rapidamente crescendo intorno a loro, i serial killer sono metafore, modelli, fanno parte del piano della natura, sono indizi dell’esistenza di un mondo migliore, di una possibilità di essere migliori, terroristi estetici, qualsiasi cosa. Gente come Randall Phillip e Rick Staton si identifica con il senso di diritto frustrato e di risentimento del serial killer, oltre che con il suo desiderio di potere, di controllo e di dominio. “Non sono loro a fare degli eroi di se stessi”, dice Staton. “Sono le persone che credono a queste idiozie e le persone che se ne interessano come me che fanno di loro degli eroi”.

“Io chiamo gli animali bambini”
Dato che aspettavano qualcuno, i Goad hanno messo ben in vista le armi – una 22 Ruger e una doppietta Mosburgh a doppio calcio – proprio sul tavolo del soggiorno tra due divani scassati. “Answer me!”, fondata da Jim e Debbie appena tre anni fa, è la più insolita delle riviste underground. Aggiornatissima riguardo alle ultime tendenze di moda e piena di spacconate, stuzzica i suoi lettori come un uomo navigato che ne sa molto di più di voi, pivelli, dilettanti della sensualità. Ha dato voce e ha fatto da calamita per gente frustrata, insoddisfatta e risentita come i Goad. Jim e Debbie si sono trasferiti a Los Angeles da Brooklyn sei anni fa e si sono sistemati in fondo alla strada dove si trova Frederick’s of Hollywood. Il loro condominio, un tempo abitato da George Raft e Jean Harlow, Mickey Rourke e Crispin Glover, fa ancora un certo effetto ma adesso ospita anche qualche svitato e parecchie coppie itineranti con bambini appena nati (Debbie li chiama creature: “Io chiamo i bambini creature”, spiegherà più tardi, con un leggero accento di Brooklyn, “e gli animali bambini”). Debbie disdegna i bambini e ama i gatti – i Goad hanno tre enormi felini; calendari e varie rappresentazioni di gatti riempiono quasi tutte le pareti della cucina.

New York, Stati Uniti, 1986. (Bruce Gilden, Magnum/Contrasto)

Nel frattempo, in lontananza, Malibu brucia (il terremoto non ha ancora colpito). “L. A. è la città ideale”, dice Jim, 32 anni e nato a Filadelfia, “se ti piacciono i disastri naturali”. Indossa una T-shirt del T&A Cafè (dove l’élite si incontra per mangiare), mentre Debbie sfoggia un paio di eleganti ballerine leopardate. Per quanto riguarda lo stile di arredamento della casa, chiamiamolo kitch perverso: dal finto vomito sul tappeto sdrucito al poster di Elvis con un buco di pallottola in fronte, dalle manette appese alla maniglia della porta della cucina al poster dei cadaveri di bambini prematuri ammucchiati in un sacco della spazzatura con la scritta “Rifiuti umani” e a cinque gigantografie in bianco e nero di un adolescente a cui hanno appena sparato tra le gambe e fatto saltare la faccia.

Le immagini che vengono dallo schermo televisivo (che è accanto a uno scanner come quelli che usa la polizia) creano lo stesso tipo di atmosfera: con due videoregistratori e pile di cassette proibite e amatoriali da cui scegliere, i Goad mi fanno vedere un montaggio in cui un rapporto sado-maso interrazziale con i protagonisti che si spruzzano di urina si trasforma in un festino a tre a base di sesso orale con accompagnamento di feci, poi la ripresa fatta in casa di un’automutilazione – con spruzzo di sangue ed eiaculazione simultanea – mandatogli da Judd e Tanya che più tardi dovrebbero passare, ma poi non arrivano, seguita dalla famigerata scena in cui Chuck Berry urina nella vasca da bagno.

Disgrazie a non finire
Dopo avermi mostrato le foto del loro viaggio alla ricerca di materiale nell’Idaho e nel Montana (hanno un bisogno disperato di muoversi), Jim, senza nessuna provocazione, inizia una litania di disgrazie personali che gli hanno fatto accumulare una rabbia infinita: è stato concepito per sbaglio; suo padre, un idraulico alcolizzato, ha preso sua madre a pugni nella pancia mentre lo aspettava; ricorda le loro liti e i vetri di posacenere rotti che gli piovevano in testa nella culla; ricorda una volta in cui suo padre, che adesso è morto, continuava a prendere a calci sui denti sua sorella mentre lei era a terra sanguinante; il fratello maggiore è stato assassinato – con 30 coltellate – a Parigi nel 1969; si vanta di essere ricercato in tre stati per aggressione.

Se non fosse per “Answer me!” e per l’influenza stabilizzante di Debbie (i due si sono incontrati a un concerto di Johnny Thunders a New York e sono stati sposati sei anni fa nel campeggio per roulotte Tropicana di Las Vegas da un certo reverendo Walker Goad – il quale ha detto loro che il clan Goad era arrivato dall’Inghilterra nel 1700), Jim ha l’impressione che potrebbe essere ancora nei guai. “Se non sei – ah – stato represso fino al punto di soffocare”, dice Goad, che tende a emettere pesanti sospiri tra una parola e l’altra, “non sai che cosa significa desiderare di non essere più represso al punto da essere disposto a tagliare la gola a qualcuno”.

Dopo essere stato un maniaco religioso per un anno e mezzo durante l’adolescenza, più tardi Goad ha trovato un nuovo sbocco per la sua rabbia, fondendola con l’ironia: alla fine dell’ultimo anno di scuola superiore, i suoi compagni cattolici di Filadelfia lo hanno eletto buffone della classe. Goad, che potrebbe passare per Aidan Quinn, ha anche tentato di fare l’attore; era riuscito a entrare nel corso di drammaturgia dell’università di New York, ma i suoi genitori non avevano i soldi per mandarcelo. Invece è finito alla Temple University della sua città natale, si è mantenuto facendo il tassista e alla fine ha preso la laurea in giornalismo.

Come scrittore, però, ha avuto dei contrasti con “Playboy” e “L. A. Weekly” che sono riusciti solo ad alimentare la sua indignazione. Fino a non molto tempo fa ha lavorato in nero come tipografo compositore a “Century City”; mentre Debbie lavora al computer per un’associazione di Hollywood che si occupa di violenza ai minori. A questo punto ha accettato la sua rabbia come “compagna di cella”. “È più sano che io riesca a convivere con la mia rabbia”, dice. “L’unica altra alternativa sarebbe quella di diventare un tipo dall’aria perbene che uccide prostitute, o qualcuno che è così distaccato dall’esperienza da vivere quasi – pff – uno psicodramma”.

“Sono divertenti”
I Goad cercano nei serial killer le stesse qualità che ammirano nelle loro rockstar preferite: onestà, emotività, passione, energia e piacere di fare il proprio lavoro. Jim rispetta chiunque si opponga ai dettami della società e agisca in base ai propri sentimenti “nel modo più scandaloso e distruttivo possibile”.

“Sono divertenti”, dice Debbie, la cui migliore amica dei tempi dell’università è rimasta uccisa tre giorni fa in uno scontro frontale, la cui madre è morta di cancro alle ovaie, il cui ex fidanzato è stato assassinato, che va in giro con una pistola a gas e pepe di cayenna per difendersi, che ha appena finito di comporre una poesia intitolata I’m a Piece of Shit (Sono un pezzo di merda). (“C’è gente che mi chiede ‘Ma non c’è proprio niente che ti piace?’”, dice. “Quella gente non mi conosce”), il cui sogno è vivere in scenari meravigliosi: montagne, sorgenti calde, aria pulita, tanti animali domestici, pace e tranquillità, e che ha compiuto 40 anni lo scorso San Valentino.

“Quando vado da McDonald’s”, dice Debbie, “immagino di poter entrare lì dentro e far fuori tutti, ma d’altra parte ho anche la sensazione che, mentre me ne sto lì seduta a mangiare il mio hamburger, qualcuno potrebbe entrare e far fuori me e allora sarei io la vittima”.

“Tu chi preferiresti essere?”, chiede Jim. “Oh, l’assassino, naturalmente”, risponde Debbie. “Ha più potere. Ma poi… a volte non uccidono abbastanza gente”.

“Se alla gente non interessassero i serial killer”, dice Jim, “andrebbero tutti a vedere Senti chi parla. C’è bisogno di varietà nella cultura. C’è bisogno anche dei pervertiti”.

“Per certi aspetti riesco a immaginare quello che hanno passato”, dice Jim degli assassini. “La rabbia che devono aver provato per arrivare a quel punto. La frustrazione. Ognuno di noi può identificarsi con loro in qualche momento della propria vita. Non può essere tutto rose e fiori. Questa società non è tutta buona, anzi è soprattutto cattiva”.

Anche se sembra che solo i tipi solitari e isolati si interessino tanto ai serial killer, questi tipi isolati stanno cominciando a entrare in comunicazione tra loro – anche il più riservato degli ammiratori dei serial killer ha bisogno di contatto. I Goad non solo sono in contatto con l’artista newyorkese Joe Coleman, ma hanno un rapporto di mutua ammirazione con Randall Phillip che risale ai tempi in cui hanno scoperto per la prima volta “Fuck”: Phillip ha già scritto un pezzo a favore dello stupro per il loro prossimo numero su questo argomento. Quando i Goad socializzano di solito lo fanno con quattro amici che la pensano come loro e alcune altre persone significative. Le donne si allontanano e si mettono a parlare di gatti, e i ragazzi – il pittore William Cooper, il musicista Boyd Rice, lo scrittore, direttore ed editore di “Feral House” Adam Parfrey, e il pittore e cineasta Nick Bougas – fanno un… salotto della morte? L’ultima volta che si sono riuniti, “Abbiamo parlato di montagne russe”, dice Jim con tono di scherno. Comunque, la rete di relazioni c’è e sta crescendo e non può essere lontano il giorno in cui questa gente comincerà anche a percorrere le autostrade dell’informazione.

Rick Staton, ad esempio, lo scorso giorno del Ringraziamento è andato in volo a Los Angeles per incontrare il suo spirito gemello Bougas, un uomo che Goad definisce il “professore emerito” degli aficionados dei serial killer (e le cui teorie razziali, secondo Jim, “farebbero tremare anche i muri”), Bougas ha rifiutato di lasciarsi intervistare per questo articolo. Anche Staton è un grande fan di “Answer me!”, ma gli editoriali pieni di odio dei Goad ( “Io sono contro di te!… Ti odio! Se provi a fregarci, noi non ti freghiamo, ti ammazziamo”) lo hanno spaventato troppo perché andasse a trovarli. Comunque i due amici, Staton e Bougas, avevano già molte cose che li avrebbero tenuti occupati. Hanno fatto il loro pellegrinaggio del Ringraziamento sui luoghi di Manson (una passeggiata sulla scena dell’omicidio di Sharon Tate, un’occhiata alla casa di La Bianca e allo Spahn Ranch), sono andati a rendere onore allo Strangolatore di Hillside, nel complesso, “proprio una bella gita”, dice Staton.

Gli ammiratori amano ritenersi così esperti in materia di serial killer che in caso di necessità potrebbero diventare uno di loro

Oltre alle gite turistiche e a espandere il proprio catalogo di opere d’arte prodotte dai serial killer, Staton ha in progetto “Skamm” (Serial killers and mass murderers), una rivista simile a “Prison life” (mensile dei carcerati per i carcerati), “solo che invece di parlare di detenuti sconosciuti”, dice Staton, “sarà il Who’s Who degli psicopatici, una tribuna per tutti i criminali celebri. I nomi di questa gente ci faranno vendere. Si occuperà degli oggetti da collezione e ci sarà tutto, dagli annunci – gente che vuole scambiare un autografo di Richard Speck con una lettera di Ted Bundy – alle interviste con uomini come Lawrence Bittaker e Henley. Non intendo operare nessun controllo, anche se si tratta di bugie o di stupidaggini. A parte l’intervista rilasciata da Richard Ramirez a ‘Hustler’, non si sente mai la voce degli stessi serial killer”.

Beh, di sicuro, non si sente più neanche la voce di quelli che hanno ammazzato. “Non nominiamo mai le vittime”, dice Catherine Yronwode, caporedattrice della serie di figurine della Eclipse, True Crime, che presentano una biografia dell’assassino e i suoi crimini da un lato e dall’altro una riproduzione a colori di un ritratto di Dahmer o di Ramirez. “Non c’è abbastanza spazio per rendere loro giustizia. Se qualcuno ha ucciso 15 persone, ciascuna di loro meriterebbe un paragrafo, perciò o si dice solo che ha ucciso 15 persone oppure bisognerebbe nominarle tutte”.

Ricordati o dimenticati
L’ipernormale Joel Rifkin, che si ritiene sia responsabile della morte di almeno 17 donne, probabilmente aveva capito tutto. Può darsi che sia terribilmente stupido (i media non sono riusciti a smascherarlo), ma almeno ha raccolto il messaggio: in questo paese ci ricordiamo solo dei vincitori. Come ha giustamente detto a “Newsday” l’estate scorsa la dottoressa Helen Morrison, che fa ricerche sui serial killer, “Joel Rifkin ha seguito la sceneggiatura di altri omicidi”. O, come scrivono Deborah Cameron e Elizabeth Frazer nel loro libro The lust to kill (La brama di uccidere), “gli uomini se vogliono possono assumere un ruolo molto chiaro. Gli omicidi a scopo sessuale hanno un repertorio di immagini e comportamenti che appartiene alla nostra cultura”. E qui sta il problema: essere ricordati o essere dimenticati. Diventare una star a livello nazionale o rimanere un semplice caratterista. E se Rifkin stava solo leggendo le sue battute e muovendosi su un palcoscenico, se stava semplicemente recitando una parte, chi ha prodotto lo spettacolo, chi lo ha scritto e diretto, e chi è il suo pubblico?

A questo livello la gente non pensa: ringrazio Dio di non trovarmi in quella situazione, ma pensa: avrei potuto essere al suo posto, potrei essere al suo posto, sono al suo posto. Come nel film Manhunter (basato sul libro in cui Thomas Harris introduce per la prima volta Hannibal Lecter), gli ammiratori amano ritenersi così esperti in materia di serial killer che in caso di necessità potrebbero diventare uno di loro.

“A vari livelli siamo tutti vittime”, dice Goad, “vittime di una qualche forma di disintegrazione sociale”. E tuttavia, Jim e Debbie, forse a causa di tutto quello che hanno passato, hanno deciso di mettersi dalla parte degli assassini, non da quella delle vittime. Per ironia della sorte, Jim si è schierato proprio con il tipo di individuo che ha ucciso suo fratello (e che non è mai stato preso). Invece di essere impaurito, Goad ha ribaltato la sua paura, l’ha sfruttata, incutendo agli altri il suo stesso terrore. È come camminare per una strada buia urlando frasi incoerenti, al folle che si nasconde nell’ombra (e a chiunque altro); meglio sembrare pazzi come lui, piuttosto che essere scambiati per persone normali, e quindi potenziali vittime.

Se è la settimana della lotteria c’è sicuramente un serial killer da qualche parte in televisione. Sì, nel corso di Inside edition c’è la prima parte dell’intervista fatta a David Berkowitz a casa dei Goad. “È stato una tale delusione”, dice Jim. “Adesso sembra un tipo come Dahmer, completamente privo di personalità, e questo è strano perché era riuscito a fare di se stesso un mito. Quello era il suo aspetto interessante”.

Berkowitz impallidisce, tuttavia, accanto all’ossequiosità dell’intervistatore (che si dice sia stato pagato 200mila dollari). A Jim fa venire in mente il professor Joel Norris (autore del quasi accademico Serial killers), che a un certo punto era entrato in contatto con Bougas e si era quasi trasferito nel condominio dei Goad. Norris e l’intervistatore di Berkowitz appartengono alla stessa categoria di moralizzatori opportunisti e ipocriti che Jim deplora. “Da una parte dichiarano che questi crimini sono orribili, ma poi non suggeriscono nessuna soluzione e sfruttano la cosa”, dice. “Per parlare di questo genere di cose è necessaria un po’ di partecipazione. Devi essere un assassino oppure aver sperimentato quel tipo di violenza”.

A proposito del proprio ruolo nel mantenere in piedi il mito dei serial killer, Goad non si scusa affatto. “Esistono tante cose malsane”, dice, “che non sapremmo dove mettere le mani se volessimo estirparle tutte”.

Allora di chi è la colpa?
Negli ultimi 12 anni John Gacy ha scritto a più di 23mila persone (soprattutto lettere di risposta) e ha raccolto fondi per poter scrivere con la vendita dei suoi quadri e disegni (tutte opere il cui valore aumenterà se a maggio, come è previsto, verrà giustiziato, e che è gia aumentato, in parte grazie al fatto che alcune celebrità – John Waters, Johnny Depp, David Letterman – hanno pensato che fosse divertente averne una). A Milwaukee una coppia si è offerta di comprare l’appartamento di Jeffrey Dahmer e di trasformarlo in un museo del crimine. Quando nel 1984 Henry Lee Lucas ha dichiarato di aver ucciso 360 persone, la trasmissione “20/20” è stata la prima a occuparsi di lui e ha avuto l’audience più alta di tutta la settimana. Alcuni complessi musicali underground giocano sull’effetto provocato da nomi come Ed Geins’s Car and the Dead Gacys.

“I giornali e le televisioni mi chiamano continuamente”, si lamenta l’ex agente dell’Fbi Ressler, “da ‘Geraldo’ a ‘Hard Copy’, e tutti vogliono che procuri loro interviste con qualche serial killer. Sono molto ingenui. Mi chiamano il giovedì e dicono: ‘Signor Ressler, abbiamo una trasmissione lunedì. Può procurarci un serial killer per quel giorno?’ Come se io fossi il loro agente”. Sembra che ognuno cerchi di sfruttare gli altri. È la forma più evoluta di sfruttamento. “La nostra cultura li ha prodotti”, dice Parfrey, curatore di Apocalypse culture (La cultura dell’Apocalisse), un libro sugli individui che vivono ai margini della società, “e adesso si nutre di loro”.

“Molto spesso”, sostiene la Caputi, “i media rappresentano questi assassini usando uno stile molto pornografico. Per gli uomini che si identificano con i serial killer, che ne fanno un mito, è un modo indiretto per condividere le loro esperienze. Si eccitano identificandosi con una fantasia”. A detta di Parfrey, è anche un modo di farsi grandi, “Come dire: mi piacciono queste porcate violente, io sì che sono un vero uomo”.

“È il tipo di cosa che unisce i maschi”, dice la Caputi. “Sono stato a corte. Ho toccato il re. Adesso godo della sua sacra aura. Possiamo anche dire che i serial killer e quelli che ne fanno degli idoli sono dei deviati, ma non è vero. Pensate al successo di Il silenzio degli innocenti e delle figurine True Crime”.

“In un certo senso”, dice Johnny Marr, che dirige “Murder can be fun” (L’omicidio può essere divertente), una rivista il cui titolo parla da solo, “bisogna banalizzare il fenomeno per comprenderlo”. O come ammette Staton, “l’unico motivo per cui mi interessa quel gruppo ristretto di persone con cui voglio avere a che fare è che i mass media li hanno resi famosi”.

A Randall Phillip, ad esempio, piace come le storie vengono confezionate. “È molto importante”, dice. “Sono sicuro che oggi la maggior parte dei serial killer se ne rendono conto, perciò devono saperne approfittare e fare in modo che le loro storie siano spettacolari”.

Elegante e ben rasato
Alto e magro, Phillip ha un’andatura dinoccolata e un modo di parlare pacato che ricordano Anthony Perkins. Vive al terzo piano, in una stanza così sudicia e mal tenuta da far sembrare l’edificio popolare in cui si trova immacolato. In cima alla porta della sua stanza c’è una striscia di nastro adesivo giallo della polizia con la scritta “Scena del crimine, vietato l’accesso”. Ammucchiati sui ripiani di uno dei suoi armadi senza sportelli si vedono vecchi tascabili dai titoli come Swamp Lust (Lussuria nella palude) e Female Flesh (Carne di donna). C’è una tavola rotonda, fatta in casa, dei sette sigilli di Mosè. Ha coperto le finestre con lenzuola di satin rosso, ha dipinto sulla parete di fronte al letto una serie di teschi color rosso vivo e, incollato su un’altra, pagine di illustrazioni tratte da un libro di medicina, avvisi del tipo: “Non lasciare che un assassino colpisca tuo figlio”, e un disegno mandatogli da una lettrice – rappresentante la morte che attraversa un cimitero – tracciato con sangue mestruale.

New York, Stati Uniti, 1986. (Bruce Gilden, Magnum/Contrasto)

Stranamente, per quanto sia sordida la stanza – il soffitto ha ceduto, il materasso macchiato e bitorzoluto appoggiato sul pavimento è circondato da una marea di giornali stracciati, rifiuti, libri, cerchioni d’auto, cassette sventrate, fotocopie, e da molti strani burattini e pupazzi spaziali che ogni tanto usa per mettere su uno spettacolo al vicino circolo anarchico. (“Pulcinella?”, gli chiedo stupidamente. “Più che altro pulci”, risponde) – Phillip siede davanti a me elegante e ben rasato, e si comporta in modo esemplare. Phillip, che ha 26 anni e soffre di insonnia, si mantiene offrendosi come volontario per vari esperimenti di tipo medico e psicologico.

In fondo al corridoio, in una cucina in sfacelo, mi legge uno stralcio da una dichiarazione che ha preparato sui serial killer (“Sono la forza che porterà alla distruzione questa civiltà… Sono spinti, in modo inequivocabile, dal bisogno di raggiungere il successo che domina questo paese… Questi grandi uomini sono imprenditori del crimine… Dato che le loro avventure sono così accessibili, i vecchi serial killer diventano modelli che i giovani possono emulare e migliorare”). Continuo a pensare all’offerta di Phillip di uccidere una vittima consenziente e alla sua convinzione: “Tu vuoi che io ti uccida”. Ma mentre la mia incertezza rispetto alla sua capacità di farmi del male svanisce, mi chiedo: come fa a sapere che sono quello che dico di essere, che non sono venuto qui per ucciderlo? “Se tu ti interessi a me”, dice, “non vorrai certo uccidermi e sei un tipo in gamba. È come se tu fossi uno di noi”.

Figlio di un militare, nato in Germania ma cresciuto a Filadelfia, Phillip spera di raggiungere il maggior numero di persone possibile con “Fuck” – persone “che, improvvisamente, come un esercito di serial killer, si abbandoneranno alla furia omicida”. I serial killer saranno la prossima tendenza di moda, dice, diventeranno popolari, come lui e la sua rivista. “Sono così moderno che i moderni non mi accettano, almeno fino a quando non ci impadroniremo dei media, cosa che i serial killer presto faranno”.

Come un qualsiasi ufologo
Il suo desiderio non nasce dalla rabbia, dice timidamente, ma dalla voglia di distruggere tutto. Se la gente vuole prenderlo sul serio, bene, sarà all’altezza della situazione. (O almeno ci proverà. Se si va a grattare un po’ sotto la sua tautologia, sembra pazzo come un qualsiasi ufologo). Per lui si tratta di esaltazione egocentrica e di un gigantesco scherzo, “e se qualcuno vuole prendere lo scherzo sul serio”, dice, “sono affari suoi. Spero che qualcuno lo prenda sul serio, e vada in giro a uccidere a suo piacimento”.

Ucciderebbe qualcuno? “Non credo”, dice Phillip. “Io sono il direttore di una rivista… uno che deve far divertire. Il mio compito è quello di offrire il necessario incoraggiamento. La gente ha bisogno di essere incoraggiata per uscire allo scoperto e asserire il proprio potere e la propria autorità dispensando morte. Ha bisogno che qualcuno gli dica che cosa fare perché non è responsabile delle proprie azioni”.

A un paio di isolati dal luogo dove Rifkin andava a caccia di prostitute si entra nel ventre caldo dell’appartamento del pittore Joe Coleman, arredato in uno stile che è un incrocio tra il circense e il medievale. “Tutto questo doveva succedere”, dice sedendosi su una vecchia poltrona a rotelle di legno. Coleman è convinto che i serial killer non sono tanto l’espressione dei desideri della nostra cultura, quanto un fenomeno naturale. “La sottocultura esiste in superficie, ma questo è un esempio di quello che succede sotto la superficie, di quello che sta succedendo a tutti noi. Esistono delle forze che fanno in modo che noi ci interessiamo all’omicidio, alla perversione sessuale. È qualcosa che la natura sta incoraggiando”.

Secondo lui, un vero serial killer è uno degli elementi più maltrattati dalla società. È un personaggio patetico che rinuncia a tutto per ottenere ben poco. Coleman ha riflettuto molto sugli omicidi in serie – più della maggior parte della gente. Ha una vasta biblioteca di letteratura criminale (in mezzo a tutte le tradizionali biografie di criminali si notano The Age of Sex Crime e The lust to Kill di Jane Caputi), e tra i molti oggetti del suo malinconico serraglio c’è una lettera incorniciata che Albert Fish – un cattolico come lui – ha scritto alla madre della sua ultima vittima. Nella lettera, Fish rassicura la donna che sua figlia, di cui lui si è nutrito, è morta intatta: vergine.

Alle spalle di Coleman incombe un manichino di Richard Speck proveniente dal museo delle cere di Coney Island, e appoggiata su un tavolo accanto alla statua c’è la placca che l’accompagnava. È scritta in spagnolo e la traduzione è più o meno quella che segue: “Speck è il prototipo di una società in completa decomposizione”. “La natura”, dice Coleman, “ha bisogno di ridurre il gregge”.

L’anticipazione dell’apocalisse
Stranamente, anche una femminista dura come la Caputi – che nel suo libro definisce l’omicidio a sfondo sessuale “terrorismo fallico” e chiama l’omicidio in serie “un crimine che esprime un tipo di dominazione sessuale e politica essenzialmente patriarcale” – accoglie il fenomeno dei serial killer con lo stesso entusiasmo di Coleman, Phillip e Goad. Ma le sue motivazioni sono meno involute e misantropiche. “Il fatto che accettino con entusiasmo il loro destino”, dice della gente affascinata dall’omicidio in serie, “fa apparire assurdi l’egualitarismo, la libertà di parola e il mito dell’individualismo americano. La gente che si appassiona agli omicidi in serie forse farà suonare un campanello di allarme”.

A suo avviso, i serial killer sono l’emblema della nostra misoginia culturale e, a livello di microcosmo, l’equivalente della tecnologia che produciamo: bombe ai neutroni che vagano per le strade in cerca di vittime. In poche parole, Jane Caputi ha la sensazione che i serial killer siano un’anticipazione dell’apocalisse.

Mentre ci avviciniamo a questa apocalisse, andiamo sempre più verso uno stato di caos. “Il caos”, dice la Caputi, “in fondo rappresenta il potere femminile. Il caos è il lato oscuro, la notte, la luna”. Armata di questa interpretazione femminista della teoria del caos, dice dei serial killer: “Quelli non rappresentano il caos”. La scrittrice ha il coraggio di immaginare un’Amazzonia del dopo olocausto, fatta di esseri illuminati e politicamente corretti che emergeranno dalle macerie dell’imminente implosione culturale della nostra società. Il problema è: che garanzia abbiamo che a sopravvivere non saranno i maschi bianchi?

“I maschi bianchi sono fottutamente alienati”, dice Goad. “Io mi ritrovo a essere odiato perché sono un bianco. Questa è la cosa che mi ha dato un’identità. Io non avevo mai riflettuto sul fatto di essere un uomo bianco fino a quando non hanno cominciato a chiamarmi così in tono dispregiativo, è un po’ come per i negri che trovano la propria identità nell’isolamento e nella separazione. Mi hanno buttato addosso tutte le colpe del mondo, e cazzo! io ho frequentato la scuola cattolica per 12 anni, sono andato all’università e poi ho lavorato. Non mi sembra di avere alcun potere o autorità. Non ho mai violentato nessuno. Non ho mai posseduto schiavi. Che diavolo di oppressione ho esercitato?”.

Forse Goad non ha una figlia da prendere a calci come faceva suo padre, ma la vellutata aggressività dei suoi pensieri diffonde di sicuro una certa garbata violenza nella nostra cultura.

Dopo una cena thailandese ordinata per telefono, Jim comincia a scartabellare in una delle sei scatole di posta ammonticchiate in un angolo della loro cucina-sala da pranzo. Tira fuori una lettera di approvazione da parte di Frank, un fan degli omicidi di massa che vive da qualche parte a Brooklyn, e mi mostra la sua riproduzione di una banconota da un dollaro con la faccia di David Berkowitz come padre della patria. Vorrebbe continuare la corrispondenza con Frank. Della maggior parte degli altri non gli importa un accidenti. I Goad sono abbastanza intolleranti nei confronti della massa dei loro fan. “Non ci piacciono molto le persone che ci leggono”, dice Jim. “Siamo arrabbiati con loro”. Hanno l’impressione che troppi lettori fraintendano il loro odio. Poi tira fuori un suo fraintendimento, un bigliettino minaccioso che per errore stava per inviare a un giornalista che pensava avesse scritto una recensione negativa di “Answer me!”. Con il suo stesso sangue Goad aveva scarabocchiato “Il piccolo Mike McP è un ragazzino invidioso. I ragazzini invidiosi fanno una brutta fine”.

Più tardi, quello stesso sabato sera, il telefono dei Goad squilla. Dopo aver riattaccato Jim mi mostra una rivista dal titolo “Second Guess”, e mi dice che era il suo direttore, uno studente universitario e musicista che si chiama Bob, e che Bob e alcuni altri che suonano con lui stanno per arrivare. Quando Bob e i suoi amici Zoinks arrivano un’ora dopo, Jim dà a tutti una copia del suo ultimo numero e fa partire il video di una prostituta di strada, quello del trio sado-maso, ecc. Bob, che tiene stretto in mano un piccolo registratore, è chiaramente venuto a inchinarsi di fronte al re dei direttori di riviste.

Bob assomiglia terribilmente a Piggy, il personaggio del Signore delle mosche, solo che ha gli occhiali quadrati e mostra un vacuo entusiasmo. (Odia le femministe! Pensa che le prostitute siano disgustose! E così via). Mentre le scene grottesche del video proseguono (adesso un ometto con un pene enorme si agita dietro a una donna estremamente obesa), Bob ridacchia, strizza l’occhio e dà gomitate ai suoi compagni. Ma poi tornano ad affondare le loro teste ottuse nella rivista.

L’unico momento di paura
Piuttosto inaspettatamente, Pete, che prima aveva accusato di ristrettezza mentale le prostitute (una di loro lo ha chiamato con disprezzo straccione a causa dei suoi lunghi riccioli sporchi, della barbetta caprina, della T-shirt marrone a maniche lunghe a brandelli, dei pantaloni color verde militare strappati a metà polpaccio e gli stivaletti alla caviglia con i calzettoni di lana al ginocchio) e che è seduto accanto a me sullo sdrucito divano dei Goad, se ne esce così: “Sì, a volte sento che potrei andare lì fuori e uccidere un po’ di gente”. Per tutta risposta, Jim scompare in cucina, da dove sento distintamente il rumore che fa mentre carica il suo grosso fucile a pallettoni, e poi torna dentro, con il fucile in mano. “Tieni”, dice porgendolo a Pete. “Datti da fare”.

Di tutto il tempo che ho passato con i Goad, questo è l’unico in cui ho avuto veramente paura. Per quanto ammiri Jim per aver messo in imbarazzo questo moccioso, non mi piace l’idea che abbia dato un’arma in mano a un completo idiota che ovviamente non ne ha mai maneggiata una. E adesso eccolo lì seduto, a non più di dieci centimetri da me, che agita il fucile avanti e indietro intimorito. Per fortuna lo tiene rivolto verso l’alto e ha l’aria mortificata, come a dire: accidenti se mi sento un coglione.

Ma quanto è diversa la leggerezza di Pete da quella di Jim quando dice di identificarsi con Ed Kemper – un uomo che non solo ha ucciso sua madre ma le ha tagliato la testa e ci si è masturbato? Quando abitava ancora con la madre c’erano volte in cui Jim aveva la sensazione che “se i miei amici non fossero venuti a prendermi per farmi uscire, l’avrei uccisa”. Può darsi che Jim sarebbe stato anche capace di uccidere sua madre, ma se un uomo che dice di non capire i violentatori perché ha bisogno del consenso della donna dichiara di poter uguagliare Ed Kemper quanto a violenza sessuale, forse la sua è una posa da macho simile a quella che ha fatto parlare quella testa vuota di Pete.

Prima di andarsene, Bob vuole sentire l’opinione del re dei direttori di riviste sui Gob, un gruppo musicale di cui è entusiasta. La canzone che ci fa sentire parla di Robert Chambers e della notte in cui ha assassinato Jennifer Levin. È divertente, dice Bob. Per me è quasi indecifrabile. Dopo che i ragazzi se ne sono andati, Jim dice: “Ho la sensazione che quello sia venuto qui col desiderio di odiarci”. “Anch’io mi aspettavo di odiarlo”, ammette Debbie, “però…”.

L’unica vera fonte di positività, dice Jim mentre si arrotola uno spinello e mette su un cd di Del Shannon, l’ha trovata in un vecchio nero che si chiama J. C. “Quell’uomo ha una specie di forza spirituale”, dice Jim. “Da J. C. potrei continuare a imparare per tutta la vita. Forse se avessi avuto un maestro nella mia famiglia…”, rimugina lasciando cadere il discorso.

Quando la settimana scorsa ha ascoltato Little Runaway, un po’ intontito e scosso, dopo che Debbie aveva temuto, come ogni tanto le capita, di avere un cancro, alla fine è scoppiato in lacrime. “Mi sono immaginato a passeggiare sotto la pioggia chiedendomi che cosa fosse successo”, dice Jim. Sembra un po’ stupido parlare seriamente di Del Shannon, dice, e passa a una cassetta di Boyd Rice del 1977. Forse per colpa della musica, in cui sembra che un branco di lupi mannari ululi sopra una sega elettrica che sta tagliando un pezzo di ferro arrugginito, o dell’erba, o dell’eccesso di rapporti sociali (stasera il totale degli ospiti dei Goad ha superato il numero magico di cinque), adesso la conversazione si fa più tesa. O io sono paranoico oppure l’accumulo di cose ha scatenato una certa aggressività in Jim. La sua voce sembra diventata più tagliente.

E poi con il sottofondo di un nastro diverso – una serie di discorsi sconclusionati di Debbie, di suo fratello maggiore e di suo padre dal 1968 al 1991 che sembra venire da una macchina del tempo, un nastro così personale che suona surreale – Jim mi racconta una storia della sua infanzia, un momento cruciale del suo rapporto con un padre violento.

“Un modo perdente di affrontare la vita”
Mentre parla, mi rendo conto che il suo dolore e la sua rabbia nei confronti dell’ambiente infelice in cui è cresciuto sono così egocentrici che non lasciano spazio per le esperienze degli altri – specialmente in questo momento. Se anche io avessi avuto un passato altrettanto brutale o ancora più orribile di quello di Jim non avrebbe avuto alcuna importanza. Riesco a sentire il suo risentimento per il semplice fatto che esisto. Anche se non gli sono antipatico, Jim sembra avere la sensazione che la sua vita sia stata più difficile e incasinata della mia; raccontandomi la sua vita disgraziata nega la mia. È una specie di rabbia lucida che manca di passione e non è senza contraddizioni. Io sono la vittima estrema, voglio che la vita degli altri sia terribile come la mia, sembra dire. La mia identità nasce da questa vita incasinata – e nessuno ha avuto una vita incasinata quanto la mia. Se improvvisamente dominassi il mio dolore e la mia rabbia e riuscissi a liberarmene, ne risulterei indebolito, sarei come te – un concetto che molti dei bambini maltrattati incamerano dai loro genitori. “Non puoi combattere il potere senza essere un nazista”, dice Goad. “Quello di porgere l’altra guancia è un modo perdente di affrontare la vita”.

La mattina dopo mi sveglio troppo presto in un Holiday Inn di Pasadena, e in tv, su un canale cristiano, ecco Theodore Bundy. Le forze del sincronismo sono sempre all’opera. Si tratta della sua famosa ultima intervista, quella in cui confessa al professor D. James Kennedy che è stata la pornografia a influenzarlo. La Coral Rich Industry mi manderà una cassetta della trasmissione sul collegamento tra violenza sessuale e pornografia al modico prezzo di 25 dollari, e lancia un avvertimento: “Mamme, non permettete che i vostri ragazzi diventino serial killer”.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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