Le immagini di questo articolo sono tratte dal profilo Instagram di #theafricathemedianevershowsyou
Nel 2005 lo scrittore keniano Binyavanga Wainaina ha pubblicato sulla rivista Granta una sorta di manifesto satirico intitolato Come scrivere d’Africa, in cui dispensava consigli ironici per continuare a offrire un’immagine del continente ricca di stereotipi e pregiudizi.
Uno di questi consigli riguardava l’uso delle immagini: “Non mettere in copertina (ma neanche all’interno) la foto di un africano ben vestito e in salute, a meno che quell’africano non abbia vinto un Nobel”, scriveva Wainaina. Perché l’Africa, così come la raccontano i giornali occidentali, è inevitabilmente quella della povertà, delle guerre, delle malattie o, quando si vuole parlarne bene, è il continente “degli enormi spazi aperti” e del tramonto, “sempre grande e rosso”.
Dopo dieci anni è attraverso i social network che gli africani continuano a combattere contro questa visione provando a raccontare “un’altra Africa”, non solo all’occidente, ma anche a se stessi.
Diana Salah (@lunarnomad), studentessa statunitense di 22 anni di origini somale, e Rachel Markham (@westafricanne), una ragazza di 17 anni che vive tra il Ghana e gli Stati Uniti, il 23 giugno hanno lanciato l’hashtag #theafricathemedianevershowsyou, chiedendo agli utenti di diffondere foto e messaggi per mostrare l’Africa di cui i mezzi d’informazione non parlano: più di sessantamila i tweet e più di quattromila le foto pubblicate su Instagram, in cui si vedono scorci di trafficate megalopoli, deserti e montagne, vulcani e mari tropicali, passerelle delle settimane della moda da Kinshasa a Dakar. Nessuno di quei soggetti consigliati da Wainaina, come per esempio “la donna africana denutrita che vaga seminuda nel campo profughi aspettando la carità dell’occidente”.
“Abbiamo lanciato l’hashtag per incoraggiare gli africani a combattere gli stereotipi dei mezzi d’informazione e l’immagine negativa dell’Africa”, mi spiega Rachel, che è orgogliosa della risposta ricevuta e con Diana ora pensa a come poter allargare la raccolta di contenuti ai suoni, “perché per esempio anche l’hip-hop africano vale la pena di essere ascoltato”.
L’idea non è nuova: sulla piattaforma Tumblr il blog “Africa they never show you”, nato nel luglio del 2010, è una collezione di immagini e di articoli con lo stesso obiettivo, ovvero mostrare quell’Africa che “loro” non vi mostrano. Loro, in questo caso, sono soprattutto le organizzazioni non governative e le agenzie umanitarie, accusate di “pornografia della povertà” e sfruttamento dell’immagine dell’Africa per alimentare il modello economico degli aiuti allo sviluppo. Quel modello criticato dall’economista Dambisa Moyo, autrice del libro La carità che uccide, di cui nel blog viene ospitata una citazione.
“Oggi c’è una comunità online molto forte che cerca costantemente di resistere a questo racconto del continente ‘oscuro’, pieno di povertà, guerre e malattie”, spiega Jepchumba, su Twitter @digitalafrican, fondatrice di Africandigitalart, segnalata dal Guardian e da Forbes per i risultati raggiunti nel promuovere il ruolo della creatività nell’economia africana. “Speravamo che nel 2015 questa visione fosse superata, ma il modo in cui i mezzi d’informazione hanno raccontato la crisi dell’ebola o il terrorismo in Nigeria e in Kenya dimostra quanto poco sia cambiato”.
Qualcuno lo dica alla Cnn
A luglio i keniani hanno coinvolto direttamente l’emittente statunitense Cnn su Twitter con l’hashtag #someonetellcnn, già usato nel 2013 quando l’emittente aveva diffuso immagini di alcuni scontri nell’area della Rift Valley parlando di “violenza generalizzata” in tutto il paese. Ancora una volta, in più di 168mila tweet, i keniani hanno provato a dimostrare che il Kenya non era “un focolaio di terrorismo”, così come descritto in un servizio che parlava dell’imminente visita del presidente Barack Obama.
Secondo Jepchumba la presenza attiva degli africani online si deve anche “al nuovo ruolo della diaspora, che grazie a internet si sente più vicina alle questioni che riguardano il proprio paese d’origine”. “Ma”, aggiunge, “c’è anche una corrispondenza con quello che succede negli Stati Uniti con il movimento #Blacklivesmatter”, nato per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle violenze della polizia contro i cittadini neri.
“C’è una frustrazione condivisa rispetto al razzismo in generale. I social media sono diventati un posto per confrontarsi e per sfogarsi”, spiega Jepchumba. L’hahstag #blacklivesmatter è stato di ispirazione per #africanlivematters durante le stragi di Boko haram in Nigeria e l’attacco terroristico a Garissa. E quando l’attenzione dei mezzi di comunicazione statunitensi quest’estate si è spostata sull’uccisione del leone Cecil in Zimbabwe, gli utenti hanno lanciato lo slogan “tutte le vite dei leoni contano”, riadattando ai leoni la formula usata dalla polizia americana per parlare delle violenze degli ultimi mesi: “Se collaborassero con i cacciatori non rischierebbero di essere uccisi”, si legge in un tweet.
Se l’Africa fosse un bar
Gli africani, che hanno visto il loro continente definito senza speranza dall’Economist nel 2000, e poi elogiato sempre dallo stesso settimanale come nuova terra della crescita nel 2011, adesso sentono il bisogno di riappropriarsi di nuove definizioni, per se stessi prima ancora che in opposizione all’occidente.
Il successo dell’hashstag #theafricathemediatheynevershowsyou è soprattutto quello che ha permesso di far conoscere un’Africa diversa agli africani, come conferma Rachel.
È “panafricanismo online”, secondo Siyanda Moutsiwe, 22 anni, che dal Botswana a fine luglio ha chiesto su Twitter di immaginare cosa succederebbe se l’Africa fosse un bar. Da quel tweet è nata una conversazione con più di sessantamila messaggi in cui gli utenti hanno ironizzato sulla geopolitica, sull’economia e sui fenomeni sociali e culturali con allusioni all’attualità, “che soltanto chi conosce bene il continente e le sue dinamiche può apprezzare”, scrive un utente su Twitter.
“Nel 2015 non accorgersi che il continente africano è diverso rispetto a quello che ci hanno sempre raccontato è questione di pigrizia”, sostiene Jepchumba.
Per superarla, basta anche un solo tweet: se l’Africa fosse un bar, il Kenya sarebbe “quel tipo che in una conversazione continua a cambiare argomento per parlare delle sue scarpe nuove. Comprate online, dagli Stati Uniti”.
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