Attivisti digitali al lavoro dopo i terremoti
Dalla notte del 24 agosto 2016 il telefono di decine persone sparse in tutta Italia continua a ricevere notifiche a qualsiasi ora del giorno e della notte. Sono i messaggi delle chat di coordinamento di terremotocentroitalia.info (Tci), un progetto nato per verificare e condividere le informazioni sul terremoto che ad agosto ha colpito l’Italia centrale, e in particolare i territori delle province di Rieti e Ascoli Piceno. I volontari di Tci tengono sotto controllo le richieste inviate sui social network dai cittadini in difficoltà, ma anche da chi vuole aiutare mettendo a disposizione beni e servizi, dalle roulotte dove passare la notte ai cavi di rete per garantire la connessione internet.
Nel gruppo ci sono informatici, giornalisti, studenti, esperti di mappe, operatori di organizzazioni non governative: si definiscono attivisti digitali o civic hacker, un termine che in italiano è difficile tradurre perché la parola hacker viene di solito associata a una connotazione negativa. Deriva dal verbo inglese “hack” che invece è una parola neutra e significa “alterare, modificare” la realtà, non necessariamente quella digitale. Nel caso degli hacker civici la realtà che viene modificata, per migliorarla, è quella dei dati e delle informazioni contenute in siti internet istituzionali in formati “chiusi” come i documenti pdf oppure frammentati come i post dei social network. Le informazioni vengono poi elaborate e diffuse in formati aperti, riutilizzabili e funzionali alle esigenze della comunità.
La diffusione degli smartphone ha prodotto un’enorme quantità di dati utili per i progetti umanitari
Per le organizzazioni umanitarie che si occupano di gestire le emergenze le competenze informatiche di questa nuova forma di volontariato sono sempre più preziose. È una forma nuova perché si è diffusa e strutturata a livello internazionale solo pochi anni fa. Lo racconta bene Paul Conneally in una Ted del 2011: in passato gli aiuti umanitari erano appannaggio di una élite, mancavano di coordinamento e i cittadini venivano a conoscenza delle crisi umanitarie molto tardi e con notizie frammentate diffuse da chi si trovava sul campo e le comunicava ai giornalisti. Per aiutare le ong non si poteva fare altro che aderire agli appelli per donare soldi o beni utili alle popolazioni in difficoltà. Cosa è cambiato da allora? La diffusione degli smartphone, delle connessioni mobili e fisse anche nei paesi in via di sviluppo ha prodotto un’enorme quantità di dati disponibili e utili alla gestione di progetti umanitari.
Secondo Conneally, che oggi è responsabile della comunicazione dell’Itu (Unione internazionale delle telecomunicazioni), ma in passato ha ricoperto lo stesso incarico per la Croce rossa internazionale, la rivoluzione digitale degli aiuti umanitari è avvenuta durante il terremoto di Haiti nel 2010: “A causa della devastazione urbana a Port-au-Prince è partito un fiume di sms – persone che chiedevano aiuto, implorando assistenza, condividendo informazioni, offrendo supporto, in cerca dei loro cari. Eravamo in uno dei paesi più poveri del pianeta, ma l’80 per cento delle persone aveva un cellulare in mano. Eravamo impreparati, ma loro davano forma ai soccorsi”.
Il volontariato digitale
È una versione dei fatti confermata anche da Patrick Meier, autore del blog iRevolution, e del libro Digital humanitarians, in cui descrive l’evoluzione del “volontariato digitale” vissuto in prima persona la notte dopo il sisma ad Haiti. Sua moglie stava lavorando come ricercatrice a Port-au-Prince quando una scossa di magnitudo 7 colpì il paese, provocando almeno 220mila vittime e lasciando tre milioni di persone senza casa. Prima di ricevere l’sms che gli confermava che sua moglie era salva, Meier cominciò a costruire una mappa della crisi usando le informazioni a sua disposizione: quelle pubblicate dagli haitiani sui social network, in cui davano indicazioni fondamentali sullo stato del territorio in cui si trovavano, descrivendo i bisogni delle persone che incontravano nella devastazione di Haiti. Per creare la mappa Meier decise di sfruttare Ushahidi, una piattaforma creata da sviluppatori keniani e sudafricani per raccogliere testimonianze di episodi di violenza durante le elezioni presidenziali del 2007 in Kenya (Ushahidi vuol dire “testimone” in swahili).
Le mappe create con Ushahidi sono collaborative: vengono create automaticamente con segnalazioni inviate via sms, tweet ed email che contengono determinate parole chiave. Nel 2010 Meier attivò l’alert per “haiti” e “terremoto”. Non tutti i tweet contenevano le coordinate geografiche, in alcuni compariva solo il nome delle strutture pubbliche andate distrutte, come scuole e ospedali. Meier decise allora di coinvolgere una rete di amici dell’università di Boston, la sua “rete sociale”, attraverso una chat in cui venivano confrontati i tweet e prese in carico le segnalazioni: “A un certo punto ho guardato il mio computer e mi sono reso conto che nel nostro gruppo c’erano persone di almeno 12 nazionalità diverse, insieme formavamo una ‘mini Onu digitale’”, scrive Meier nel suo libro.
Sembra incredibile, ma non esisteva una mappa degli ospedali che stavano trattando i casi di ebola
Da quella notte il ruolo dei volontari digitali nel crisis mapping – termine con cui si identificano le attività di mappatura durante le crisi umanitarie – è cresciuto, fino a strutturarsi in associazioni, come la Stand bytaskforce, fondata dallo stesso Meier, con più di 1.800 volontari in tutto il mondo.
“Chi si vuole unire a noi può farlo compilando un modulo sul sito. Chiediamo competenze nell’uso di strumenti digitali oppure nella mappatura con il sistema Gis (Geographic information system). C’è un orientamento iniziale dei volontari, che sono sempre assistiti dai coordinatori del gruppo durante l’emergenza. Quello che raccomandiamo sempre è di fare tante domande, non dare mai nulla per scontato”, spiega Valeria Villan, unica italiana del core team della Stand by task force (Sbtf), cioè quei volontari che restano attivi tra un’emergenza e l’altra – in “stand by”, appunto – per continuare a migliorare i modi in cui si può affrontare un’emergenza unendo le forze di attivisti di diverse parti del mondo.
Alla Sbtf si può aderire in caso di emergenze e disastri naturali, come ha fatto Valeria Villan per la prima volta durante il tifone che ha colpito le Filippine nel 2013, o in caso di epidemie, come quella di ebola: “Sembra incredibile, ma non esisteva una mappa degli ospedali o degli ambulatori che stavano trattando casi di infezione”, dice Villan, quindi ai volontari è stato chiesto di creare una lista delle strutture coinvolte assegnando la geolocalizzazione. “Lì avevamo persone sul territorio che potevano verificare se erano in quel luogo là oppure no”. La Stand by task force fa parte del consorzio Digital humanitarian network, che comprende 18 organizzazioni di volontariato digitale, tra cui anche l’italiana Gnucoop.
I volontari digitali cercano di restare sempre in contatto con le organizzazioni che operano nei territori colpiti: è soprattutto a loro che la rivoluzione digitale ha cambiato il modo di lavorare durante le emergenze. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Unocha), per esempio, è tra i partner di Aidr, una piattaforma per filtrare e classificare messaggi sui social media collegati a emergenze umanitarie, disastri e crisi attraverso l’intelligenza artificiale.
Non solo crisi
Il digitale ha trasformato l’approccio delle organizzazioni umanitarie non solo durante le emergenze. Perché, sempre di più, le tecnologie sono in mano anche a coloro che prima venivano solo considerati i beneficiari dei progetti: nel 2015, su 3,2 miliardi di utenti internet nel mondo, almeno due miliardi vivono in paesi in via di sviluppo, dove la diffusione dei telefoni cellulari permette la connessione anche nelle aree rurali con meno infrastrutture.
Un esempio del coinvolgimento delle comunità locali è dato dalla diffusione di Open street map in Africa, uno strumento partecipativo che permette di modificare o aggiornare mappe, utile soprattutto nei luoghi dove non arrivano i satelliti di Google. In Burkina Faso viene usata per esempio per segnalare aree a rischio per la diffusione della malaria, le zone paludose o allagate durante la stagione delle piogge.
Conneally descrive queste attività con l’espressione “rendere visibile l’invisibile”. I dati sono lì. Le richieste dei cittadini dalle zone colpite del terremoto nell’Italia centrale anche. Il lavoro dei volontari digitali può dare loro una voce. Raccontando la loro storia, agevolando il flusso degli aiuti, usando la tecnologia per partecipare attivamente a migliorare le condizioni di vita di una comunità, oltre il “mi piace” e il “condividi” dei social network.
Donata Columbro sarà al festival di Internazionale a Ferrara dal 30 settembre al 2 ottobre 2016.