Questo articolo è stato pubblicato il 16 febbraio 2007 sul numero 680 di Internazionale.

“Non dimenticate questo piccolo condottiero del ventesimo secolo”, scrisse Che Guevara ai genitori prima di partire per la Bolivia, tappa finale della sua avventura. La rivoluzione per cui lottò, l’utopia comunista che desiderò con tutte le sue forze senza riuscire a costruirla, i “due, tre, molti Vietnam”, le migliaia di giovani che per imitarlo andarono sulle montagne a costruire “l’uomo nuovo”, la scia di sangue e desolazione lasciata dalle guerriglie dal Messico all’Argentina: sono tutte tracce confusamente presenti nella storia già prima del 25 novembre 1956, il giorno in cui Che Guevara parte dalle coste messicane verso Cuba insieme a Fidel Castro e a un pugno di compagni.

Tutta la storia ispanoamericana annunciava – quasi nel senso religioso del termine – un personaggio come Guevara. E quel personaggio si presentò all’appuntamento, nel luogo e nel momento più opportuni. Da allora, non solo l’America ispanica ma il mondo intero avrebbero avuto ottime ragioni per ricordarlo.

In termini culturali e ideologici non è un’esagerazione affermare che la sua biografia era entrata in gestazione un secolo prima della sua nascita, con la divisione nata tra le due Americhe. Mentre diventava realtà la dottrina del destino manifesto, ovvero la giustificazione “missionaria” dell’espansionsmo statunitense, cresceva anche il germe del risentimento nazionalistico.

La politica del big stick lanciata da Roosevelt, che prevedeva il diritto di Washington di dominare nell’emisfero occidentale; l’arrogante onnipresenza degli Stati Uniti in America Centrale e nei Caraibi; la cosiddetta “penetrazione pacifica” nei settori principali dell’economia messicana, furono tutti fattori cruciali nella formazione di un profondo sentimento nazionalistico, i cui focolai andavano dal Rio Bravo alla Patagonia: dalle miniere cilene e boliviane alle compagnie petrolifere venezuelane, alle compagnie bananiere in America Centrale. La diplomazia statunitense nella regione non solo convergeva, ma addirittura combaciava con gli interessi degli uomini d’affari.

A eccezione di Puerto Rico, probabilmente nessun altro paese del mondo ispanico sentì più di Cuba l’influenza statunitense. È vero che l’atteggiamento cubano era ambiguo. I cubani ammiravano gli Stati Uniti; ma presto capirono che l’intenzione degli yankees non era favorire la libertà e l’autonomia di Cuba, bensì ridurre l’isola a una condizione di colonia economica e stabilire “speciali accordi politici” che gli garantissero un diritto di intervento militare indiscriminato, trasformandola di fatto in un protettorato. Anche se negli anni quaranta gli indici sociali ed economici di Cuba erano tra i più alti dell’America Latina, la dipendenza dagli Stati Uniti era schiacciante. Dietro un benessere apparente si nascondeva qualcosa di più del semplice risentimento: “L’odio per gli statunitensi sarà la religione dei cubani”, affermava un giornalista cubano nel 1922.

Questo sviluppo del nazionalismo nell’America di lingua spagnola trovò il suo complemento e il suo sostegno in una vasta corrente letteraria antianglosassone. “State attenti./ L’America Spagnola vive! / Ci sono mille cuccioli sciolti del Leone spagnolo”, metteva in guardia Rubén Darío in uno dei suoi Canti di vita e speranza. José Martí, l’eroe libertador di Cuba, visse a lungo dentro il “mostro”. Tra il 1889 e il 1891 scriveva: “Il popolo statunitense si autoconferisce il diritto a reggere per moralità geografica il continente e annuncia, mentre mette le mani su un’isola e cerca di comprarne un’altra, che tutto il Nordamerica dev’essere suo. Gli Stati Uniti credono nel diritto dei barbari: ‘Questo sarà nostro perché ne abbiamo bisogno’”.

All’inizio della seconda guerra mondiale i liberali latinoamericani erano praticamente una specie in via di estinzione, attaccati dalla destra e dalla sinistra, entrambe sdegnose verso quei rappresentanti della “democrazia anglosassone”. Anche se la politica del “buon vicinato” e il breve episodio del Panamericanismo, promossi da Roosevelt, si guadagnarono qualche fugace simpatia, agli albori della guerra fredda cominciò a sorgere un nuovo fenomeno di convergenza ideologica, simile a quello che era successo nel diciannovesimo secolo: la destra germanofila, vinta in guerra, si univa alla sinistra sul terreno comune del nazionalismo.

Aveva un’aria da bohémien, un umorismo provocatorio e narcisista che alternava Stalin a Baudelaire

Ma al di là dell’ideologia c’era la realtà. Non c’era bisogno di essere marxisti per capire che l’America Latina era in un ritardo disperato rispetto all’occidente, e in particolare rispetto agli Stati Uniti. La percezione di essere vittima di un abuso economico e di un disprezzo etico e culturale da parte dei vicini del nord era così generalizzata che di fronte all’alternativa tra Russia e Stati Uniti perfino i liberali avrebbero esitato. Uno di loro – Daniel Cosío Villegas –, difficilmente sospettabile di essere un comunista, nell’agosto del 1947 lanciò un’impressionante profezia: “Nell’America ispanica, oggi addormentata, c’è una spessa coltre di sospetto e di rancore verso gli Stati Uniti. Il giorno in cui non più di quattro o cinque agitatori si lanceranno all’azione nei principali paesi latinoamericani, scatenando una campagna di diffamazione e di odio verso gli Stati Uniti, tutta l’America Latina comincerà a fervere. Mossi da un profondo sconforto e da un odio acceso, questi paesi, in apparenza sottomessi, saranno capaci di qualsiasi cosa. E allora non ci sarà modo di sottometterli”.

L’assedio dell’odio si stringeva senza che gli Stati Uniti se ne rendessero davvero conto. O forse lo capirono, ma si comportarono in maniera controproducente, come in Guatemala nel 1954. Con l’appoggio della Cia, il colonnello Castillo Armas depose con la forza il governo riformatore di Jacobo Arbenz. Per le strade del Guatemala, nei sindacati e nelle scuole, si accese la miccia che anni dopo avrebbe fatto scoppiare la rivoluzione cubana.

L’inquietudine delle origini
Proprio in quei giorni un medico argentino di ventisei anni, arruolato nelle brigate di soccorso, osservava attentamente gli eventi. Era contrario al fatto che il popolo non fosse stato armato e riteneva che il governo di Arbenz fosse stato “tradito dall’interno e dall’esterno”. Aveva lasciato definitivamente l’Argentina e aveva appena compiuto un lunghissimo pellegrinaggio nell’America di lingua spagnola. Convinto che un giorno sarebbero state sconfitte “le forze oscure che opprimono il mondo”, per lui era fonte di “sdegno crescente il modo in cui i gringos trattano l’America Latina”. Voleva chiamare Vladimir il primo figlio che avrebbe avuto dalla sua donna, Hilda Galdea.

Dopo la caduta di Arbenz, il Messico – fedele alla sua tradizione di accoglienza ai perseguitati politici – gli concesse asilo. Qui lo aspettava l’appuntamento che avrebbe segnato la sua vocazione storica. Era destinato a essere uno di “quei quattro o cinque agitatori” che avrebbero scatenato la rivolta in America Latina. Poco tempo prima aveva già delineato lo scenario del suo destino: “L’America sarà il teatro delle mie avventure in un senso molto più ampio di quanto credevo: sento di essere americano”.

Fin da giovane, l’uomo che sarebbe passato alla storia come “il Che” si sottrasse alla sua identità argentina e adottò una patria e un’identità più grandi, diventando cittadino di quella che, ampliando la definizione di Martí, chiamò “la nostra maiuscola America”. L’avrebbe conosciuta a palmo a palmo, perché la sua prima ossessione fu viaggiare. Non era spinto solo dall’instabilità economica della famiglia di classe medio-alta in cui era nato, ma anche e soprattutto dalla malattia che sarebbe sempre stata la sua condanna e il suo stimolo: l’asma. Da quando era piccolo gli attacchi lo portavano sull’orlo dell’asfissia. Ernesto passava i periodi di riposo forzato fuggendo attraverso i libri di viaggio: Robert Louis Stevenson, Jack London e Jules Verne.

A Córdoba Ernesto giocava a golf nel campo costruito dal padre, ma ben presto si appassionò a uno sport molto meno meditativo: il rugby. Era un gioco controindicato per un asmatico, ma il “Furibundo Serna”, come era stato soprannominato dal cognome della madre, cercava di fuggire dalla debolezza fisica attraverso la brutale forza di volontà. Questa propensione alla fuga sarebbe diventata il tratto distintivo della sua vita. L’ombra onnipresente della sua malattia, il tumore che per vent’anni minacciò la vita della madre e l’osservazione impotente dell’agonia della nonna lo spinsero a studiare medicina.

Fu uno studente irrequieto. Pur continuando a viaggiare attraverso la letteratura (non solo libri di viaggi, ma anche poesia e romanzi in spagnolo e in francese), ben presto cominciò a viaggiare concretamente, esplorando in motocicletta il nord e l’ovest dell’Argentina. Più tardi ampliò il suo raggio d’azione sui cargo diretti in Brasile, a Trinidad e Tobago, in Venezuela. Portava sempre con sé un diario, scriveva lettere ai genitori e ai suoi amori. Essendo estremamente attraente ebbe donne bellissime, ma aveva la tendenza a scappare anche da loro (“Il sesso”, scrisse una volta, “è un piccolo fastidio che richiede distrazioni periodiche, altrimenti abbandona il posto che gli spetta, riempie tutti i momenti della vita e rovina le cose belle”). I suoi viaggi e i suoi studi avevano un denominatore comune: affrontare o alleviare il dolore umano. Visitava i lebbrosari e ci lavorava. Sognava di diventare un famoso allergologo. Durante uno di questi primi viaggi scrisse una frase sconcertante: “Mi rendo conto che è maturato dentro di me qualcosa che da tempo cresceva in mezzo al caos quotidiano: l’odio per la civiltà”. Si riferiva, ovviamente, alla civiltà materialista.

Alla scoperta dell’America
Agli inizi del 1952 intraprende un percorso ancora più ambizioso. I suoi viaggi sono sempre meno contemplativi e sempre più medici e ideologici. Vuole conoscere e curare la mappa del dolore nell’America ispanica e india. In Bolivia percepisce la sopravvivenza di un “assurdo senso di casta”. Sulle strade di Machu Picchu osserva: “Il Perù non è uscito dallo stato feudale: aspetta ancora il sangue di una vera rivoluzione per raggiungere l’emancipazione”. Continua a lavorare con passione nei lazzaretti e infierisce sulla sua malattia nuotando per quattro chilometri nel Rio delle Amazzoni. Dopo un soggiorno “amaro e duro” a Miami (e lì, nelle disprezzate viscere del mostro, ha una premonizione: “Prenderò d’assalto le barricate e macchierò di sangue le mie armi”), torna brevemente a Buenos Aires. Si laurea in medicina (ha seguito vari corsi a distanza) e fugge definitivamente dall’Argentina verso la Bolivia, il Perù, Panama, il Costa Rica e il Guatemala.

A quel punto Guevara sente di conoscere di persona non solo la malattia sociale che asfissiava l’America Latina, ma anche la sua causa diretta – “I biondi ed efficaci amministratori, i padroni yankees” – e l’unica cura possibile: una rivoluzione nazionalistica e sociale appoggiata da contadini armati, come quella di cui era stato testimone per le strade di La Paz. In Costa Rica scrive, tra il serio e il faceto: “Ho avuto modo di passare nei terreni della United Fruit, convincendomi ancora una volta di quanto siano terribili quelle piovre capitaliste. Ho giurato davanti a un’immagine del vecchio e compianto compagno Stalin di non fermarmi finché non li vedrò annientati”.

Nel ministero dell’industria all’Avana, Cuba, 1963. (René Burri, Magnum/Contrasto)

“Guevara aveva allora un’aria da bohémien, un senso dell’umorismo provocatorio tipicamente argentino, andava in giro a torso nudo, era un po’ narcisista, di altezza media, aveva la pelle scura e una forte muscolatura. Con la sua pipa e il suo mate, tra l’atletico e l’asmatico, alternava Stalin a Baudelaire, la poesia al marxismo”. Questa descrizione perfetta è di Carlos Franqui, giornalista inviato in Messico dall’opposizione cubana per prendere contatti con Fidel Castro, fuggito dopo il fallimento dell’attacco alla caserma Moncada, il 26 luglio 1953.

Il Che arriva in Messico alla fine del 1954, e ci rimane fino alla fine del 1956, quando il Granma salpa dal porto di Tuxpán. Per un po’ lavora come fotografo sportivo: poi viene assunto come allergologo al Centro medico. I suoi compagni lo ricordano come un medico privo di grandi conoscenze, ma pieno di passione. I malati lo adorano. In Messico si sposa con Hilda, ha una figlia e viaggia senza sosta. Nelle lettere di quel periodo ci sono riferimenti a 161 diversi viaggi. Sale sulla cima dei vulcani, visita la zona maya, sogna di andare a Parigi, “a nuoto, se necessario”. È un “cavaliere errante”, un “pellegrino”, uno “spirito anarchico”, “un incorreggibile vagabondo”, un “assetato di orizzonti”. Finché, un giorno, conosce l’uomo che riesce a farlo fermare. Parlano per quasi dieci ore: “Fidel Castro mi colpì come un uomo straordinario. Le cose più impossibili lui le affrontava e le risolveva. Aveva una fiducia eccezionale nel fatto che una volta partito per Cuba sarebbe arrivato. Che una volta arrivato, avrebbe combattuto. E che combattendo avrebbe vinto”.

Nel giro di una notte il Che decide di arruolarsi come medico nella spedizione. In questa “nuova tappa” della sua vita legge i testi fondamentali “di san Karl (Marx)”, appoggia apertamente la repressione russa in Ungheria, dichiara che le critiche al ventesimo congresso del partito comunista sovietico sono solo “propaganda imperialista”, prende lezioni di russo, stringe una forte amicizia con Nikolaj Leonov, agente del Kgb, e oltre a divorare Lenin e Marx, li mette addirittura in versi. Al di là della qualità della sua scrittura, è scrivendo che il Che esprime le sue esperienze intime. Se un tempo aveva pensato di scrivere un libro sulla medicina sociale latinoamericana, ora decide di portare la medicina al rango di azione rivoluzionaria.

Quando la realtà non era come l’aveva immaginata, non dubitava: era la realtà a essere sbagliata

I ribelli si addestravano clandestinamente remando, facendo lotta, ginnastica, lunghe camminate. Avevano preso in affitto un ranch vicino a Città del Messico in cui si esercitavano al tiro al bersaglio. Tra loro c’era l’asmatico dottor Guevara che, come ai tempi di “Furibundo Serna”, otteneva eccellenti risultati.

Con alcune eccezioni, come lo stesso Guevara e Raúl Castro, i membri della spedizione non si dichiaravano marxisti. Erano guerrilleros nell’accezione originaria del termine, coniato in Spagna nel 1808 per indicare le truppe irregolari di spagnoli che lottavano contro l’invasore napoleonico. Anche il Che era animato da questo antico spirito. Inoltre aveva qualcosa di Lord Byron nella sua avventura contro i turchi: considerava la guerra un’espressione superiore della poesia.

Dopo il trionfo della rivoluzione cubana, nel gennaio del 1959, quegli eroi sentirono che il loro momento di gloria sarebbe continuato in eterno. Avrebbero costruito una Cuba più prospera e giusta, più autonoma e orgogliosa, libera ed egualitaria. Ma, nell’astratta formulazione di questo sogno, Che Guevara si spinse oltre ai suoi compagni e allo stesso Fidel Castro, che ebbe sempre un senso molto acuto della realtà politica. “La guerra ci ha trasformati”, scrisse Che Guevara al grande scrittore argentino Ernesto Sábato, “non esiste esperienza più profonda della guerra”.

La vittoria trasfigurò il Che, incidendo definitivamente in lui i tratti di un inguaribile idealismo, immune a qualsiasi smentita della realtà. Era totalmente convinto della superiorità del mondo socialista, in particolare dell’Unione Sovietica, sul mondo occidentale. Odiava in modo quasi teologico l’imperialismo yankee. Credeva che si potesse esportare l’esperienza rivoluzionaria in tutta l’America e nel terzo mondo. Era convinto che, con la volontà di “Furibundo Serna” e applicando in tutta la loro purezza le teorie in cui credeva (riforma agraria immediata e completa, espropri senza alcun risarcimento, accentramento burocratico, abolizione delle transazioni monetarie), sarebbe stato possibile realizzare l’utopia. Appoggiava indiscriminatamente i paesi del blocco comunista. Quando la realtà non era come l’aveva immaginata, Che Guevara non dubitava delle sue idee: le rendeva più estreme. Era la realtà a essere sbagliata perché non si adeguava con la dovuta purezza alla sua idea. Guevara non ammetteva incrinature nelle sue azioni e nelle sue idee, forse a causa del ruolo fondamentale svolto dalla volontà nella sua stessa sopravvivenza.

Il lato oscuro
All’indomani del trionfo rivoluzionario, dopo aver ordinato centinaia di esecuzioni ed essersi ripreso dall’inizio di una travolgente storia d’amore con la donna più bella di Cuba (Aleida March, che sarebbe diventata la sua seconda moglie, dandogli quattro figli), il Che comincia a rivelare gli aspetti oscuri del suo atteggiamento rivoluzionario. È il solito vecchio film della Russia bolscevica. Guevara mette in piedi l’efficace apparato di sicurezza cubano, contribuisce a togliere di mezzo qualsiasi traccia di libertà politica nella stampa o nella vita universitaria, è omofobo e detesta la critica indipendente, lavora all’indottrinamento ideologico dell’esercito e crea, a Guanahacabibes, il primo campo di lavori forzati di Cuba: “Lì mandiamo la gente che ha commesso mancanze nei confronti della morale rivoluzionaria per rieducarli con il lavoro. È un lavoro duro, ma non bestiale”.

Dal novembre del 1959 dirige la Banca nazionale di Cuba e si firma “Che” sulle banconote. Svolge il suo lavoro con uno stile marziale, terrorizzando i funzionari amministrativi. In seguito, come ministro dell’industria al comando di 150mila persone e 287 aziende (zuccherifici, aziende telefoniche ed elettriche, imprese edili, tipografie, fabbriche di cioccolata) mette in pratica gli stessi metodi che si erano già rivelati un disastro durante l’epoca del “comunismo di guerra” nell’Unione Sovietica (1918-1921). Ma Guevara, lettore caotico, non conosce la storia elementare del paese che più ammira. O forse non collega le letture all’esperienza. Legge per fuggire, non per imparare. Le sue misure fanno sprofondare l’economia cubana in un insostenibile deficit di bilancio, nella penuria e nel razionamento cronico dei prodotti di prima necessità.

Che Guevara, L’Avana, 1959. (Andrew Saint-George, Magnum/Contrasto)

Guevara non capì mai il perché dell’accaduto (e probabilmente neanche Castro l’ha capito: ecco quant’è potente l’ideologia). Bisognava vedere il Che in quelle “domeniche solidali di lavoro volontario”, estenuato ma allegro, a costruire scuole, incollare scarpe, trasportare sacchi di riso, scavare fossati, filare tessuti o tagliare la canna da zucchero “al ritmo del canto rivoluzionario”. È vero, era una bella immagine egualitaria, che doveva far leva sull’emulazione per infondere energia. Secondo lui l’incentivo morale era più importante – doveva essere più importante – di quello economico. Per questo correva di fabbrica in fabbrica arringando gli operai, mobilitando la loro “coscienza sociale” o, quando le cose arrivavano all’estremo, “rieducandoli”. Chi, invece, sentì il disastro arrivare furono i russi, che non erano i bolscevichi puri e generosi che Guevara immaginava. Il suo amico Leonov ricorda le interminabili discussioni con Guevara a Mosca.

Secondo Aleksandr Alekseev, l’uomo chiave dell’Unione Sovietica in America Latina, il Che era stato “l’architetto della collaborazione economica sovietico-cubana”. Le sue prime visite in Unione Sovietica furono una luna di miele. Quando Carlos Franqui gli parlò dei privilegi della nomenklatura nel mondo socialista, il Che lo interruppe: “Sono bugie, tu e i tuoi pregiudizi. Io ci sono stato e non ho visto niente”. Come un ingenuo aveva attraversato l’Unione Sovietica e la Cina bevendosi senza fiatare la versione dei suoi ospiti. È vero che poco dopo cominciò a criticare i sovietici e a simpatizzare con i cinesi, ma in quel periodo il Che non si interessò minimamente del conflitto sino-sovietico.

Il passo successivo, ovviamente, era presentare la lista dei desideri ai compagni sovietici. Scrive Anatolij Dobrynin: “Guevara era impossibile: voleva una piccola impresa siderurgica, una fabbrica di automobili. Gli dicemmo che Cuba non era abbastanza grande per sostenere un’economia industriale. Avevano bisogno di soldi, e l’unico modo per ottenerli era fare quello che sapevano fare meglio: coltivare zucchero”. Quando i russi dissero che anche loro avevano dei problemi economici, Guevara li attribuì a deviazioni dovute all’autogestione e al decentramento, due fenomeni che secondo lui erano pericolosamente vicini al veleno capitalistico. Cominciava ad allontanarsi dall’Unione Sovietica sorpassandola a sinistra.

Le delusione del Che nei confronti dell’Unione Sovietica aumentò con la crisi dei missili. Guevara era lontano da Castro nei momenti cruciali della crisi, ma quando venne a sapere dell’accordo tra Kruschev e Kennedy e del ritiro dei missili nucleari rilasciò una dichiarazione che rivela come questa roulette russa, se fosse stata in mano ai croupier cubani, sarebbe potuta sfociare nella terza guerra mondiale: “Se i missili fossero rimasti a Cuba li avremmo usati tutti, dirigendoli contro il cuore degli Stati Uniti per difenderci dall’aggressione”. Guevara, ovviamente, aveva preso in considerazione le conseguenze di un simile attacco, ma non lo spaventavano: “È il terribile esempio di un popolo disposto a immolarsi atomicamente perché le sue ceneri servano da fondamenta alle società nuove”.

Il popolo cubano, chiaramente, non fu né sarebbe mai stato consultato in quella e in nessun’altra circostanza, ma la guerra fu evitata grazie al realismo dei sovietici. In un’affascinante conversazione tra Anastas Mikojan e Guevara, il vicepremier sovietico rispose paternamente alle sue proteste con una frase lapidaria: “Vediamo che siete assolutamente disposti a morire, ma pensiamo che non ne valga assolutamente la pena”. I fallimenti economici e diplomatici, che non sembrarono affatto scuotere la fede di Guevara, alimentarono comunque in lui una sensazione d’impotenza e di oppressione. Quello che ancora gli si confaceva veramente era “sognare orizzonti”: andare per il mondo come il grande ambasciatore della rivoluzione, o appoggiare l’America Latina che “ferveva” in attesa di “esplosioni rivoluzionarie”. Dopo vari tentativi falliti di esportare la rivoluzione, le ultime due tappe della sua vita furono quasi due stazioni di un calvario: il Congo e la Bolivia. Entrambe le riedizioni della Sierra Maestra furono concepite e realizzate in modo così assurdo che viene da chiedersi se il Che non stesse in realtà cercando la fuga finale dall’asfissia del vivere o l’immolazione come atto supremo di creatività rivoluzionaria.

In un saggio fondamentale, Guillermo Cabrera Infante sostiene che il suicidio a Cuba, soprattutto in epoca rivoluzionaria, è stato un atto ideologico di primo piano. Un numero sorprendente di personaggi si è suicidato o è morto in situazioni suicide. Il Che non si suicidò, ma si mise in una posizione suicida. Lottò sempre con la morte (a volte fino alla pazzia, come quando volle rimanere quasi da solo in Congo e attraversare millecinquecento chilometri per unirsi all’altro piccolo focolaio rivoluzionario). Man mano che si avvicinava la fine, i suoi riferimenti alla morte eroica si fecero più espliciti. Era diventato accigliato, triste, sempre più solitario e irascibile. In Bolivia si andò a nascondere in un covo. E si sentì abbandonato.

Probabilmente prese alla lettera l’inno cubano ampliandone il significato: “Morire (gloriosamente) per la patria (socialista universale) è vivere”.

Aveva una casa, moglie e figli. Ma ha abbandonato la realtà terrena per il misticismo rivoluzionario

Il sacrificio o il martirio come strada verso la purificazione toccano una corda profondamente cristiana. In una delle sue prime assenze da Cuba, il Che scrisse a sua madre: “Sono sempre lo stesso solitario che va in cerca della sua strada senza aiuti personali, ma adesso sento il mio dovere storico. Niente casa, moglie, figli, genitori, fratelli: i miei amici sono tali nella misura in cui hanno le mie stesse idee politiche. Sento dentro di me non solo una forza potente, che ho sempre sentito, ma anche la capacità di esortare gli altri e un assoluto fatalismo verso la mia missione, che spazza via ogni paura”. La verità è che aveva una casa, una moglie, dei figli, dei fratelli, dei genitori e degli amici, ma queste realtà tangibili, concrete, gli sembravano poco reali. Aveva abbandonato l’asfissiante realtà terrena per alzarsi verso il misticismo rivoluzionario. Rappresentava la prima incarnazione creola, latinoamericana, tropicale, dei “demoni” di Dostoevskij. Lunghe carovane di nuovi demoni – “gesuiti della guerra”, li chiamò – avrebbero seguito la strada del carismatico leader nelle terre del Nicaragua e del Salvador, nelle montagne messicane o in quelle del Perù. Il suo progetto era combattere una guerra santa contro le forze del male. Ma era un progetto che spesso finiva per scatenare la guerra santa tra gli stessi guerriglieri.

Non si è mai notata la convergenza culturale tra la Russia e l’America ispanica. Questo legame è riscontrabile nello stesso Dostoevskij, che non a caso ambientò il racconto La leggenda del Grande inquisitore nella Spagna del cinquecento, così simile alla Russia zarista. E forse, tra i lettori più accaniti di Dostoevskij, alcuni intellettuali latinoamericani che hanno vissuto la passione rivoluzionaria con un senso cristiano di missione e martirio. Che Guevara in apparenza era lontano da questa corrente, ma era posseduto dalla stessa tentazione di assoluto nell’odio e nella fede, e dalla stessa passione religiosa per la violenza e la morte.

Nel giro di poco tempo, Fidel Castro avrebbe barattato il libretto nazionalistico della storia latinoamericana per quello teocratico della storia russa. Avrebbe incarnato con precisione il Grande inquisitore di Dostoevskij, che in cambio del pane (finanziato per più di vent’anni dal denaro sovietico) sequestra la libertà. C’è chi pensa che Guevara sia partito da Cuba e sia morto in Bolivia per incarnare un altro personaggio del racconto di Dostoevskij, il nuovo Cristo che torna sulla Terra a confermare il suo messaggio, a fare miracoli, a liberare i diseredati. I sostenitori di questo parallelismo hanno santificato Ernesto Guevara. Ma il parallelismo non regge, perché per il Che la libertà cristiana – il “pane del cielo” di Dostoevskij – era un concetto privo di significato.

Un romanticismo irresponsabile
Stando seduti nello studio di un’università statunitense o europea è facile attaccare un poster del Che e continuare a credere alla violenza redentrice, alle astrazioni che negano o soffocano la verità o all’appello a un “uomo nuovo”. Questa anacronistica professione di fede è un atto inammissibile di ignoranza degli sviluppi oppressivi della rivoluzione cubana, di cui Che Guevara condivide la responsabilità. Come Trotskij in Unione Sovietica, la sua immagine sembra nobilitarsi con l’esilio, la sconfitta e il martirio. Ma il suo fanatismo non impallidisce di fronte a quello dei suoi “compagni nemici”.

Nella sua componente di inerzia ideologica, la Che-mania non solo nega la tradizione democratica dell’occidente, ma omette l’unico aspetto salvabile di Guevara ai giorni nostri: la coerenza del suo egualitarismo. C’è qualcosa di valido e perfino necessario in questa aspirazione utopica, soprattutto adesso che il fantasma del vuoto percorre il mondo, inghiottendo come un buco nero qualsiasi senso di fraternità. Ma l’uguaglianza imposta dall’alto soffoca un fine forse ancora più prezioso: la libertà.

Dall’America Latina il paesaggio si vede diversamente: qui stiamo cercando di rafforzare le nostre fragili democrazie e non c’è niente di più lontano delle avventure romantiche e irresponsabili di quel condottiero del ventesimo secolo.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Da sapere
Biografia
  • 14 giugno 1928. Ernesto Che Guevara nasce a Rosario, in Argentina.
  • 1945. I Guevara si trasferiscono a Buenos Aires. Ernesto si iscrive alla facoltà di medicina.
  • 1951-52. Ernesto viaggia per otto mesi in America Latina con l’amico Alberto Granado.
  • 1953. Si laurea in medicina e riparte per un secondo viaggio in Bolivia, Perù, Ecuador e Venezuela.
  • 1954. Arriva in Guatemala durante la drammatica esperienza della fine del governo Arbenz. Si rifugia in Messico.
  • 1955. Tramite gli esuli cubani conosce Fidel Castro e si unisce a loro in vista della spedizione a Cuba.
  • 25 novembre 956. Il battello Granma parte dal porto di Tuxpán diretto a Cuba.
  • 2 gennaio 1959. I barbudos entrano all’Avana.
  • 1960-64. Che Guevara compie vari viaggi nei paesi socialisti, in Africa e in Cina.
  • 14 marzo 1965. Ultima apparizione pubblica del Che: parte per il Congo.
  • 1966. Arriva in Bolivia per organizzare la rivoluzione.
  • 9 ottobre 1967. Viene ucciso, dopo essere stato ferito e catturato.

Questo articolo è stato pubblicato il 16 febbraio 2007 sul numero 680 di Internazionale. L’originale era apparso su Letras Libres con il titolo El Che, vida e milagros.

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