I nodi del vertice Cop26 sul cambiamento climatico
Circa 25mila persone sono attese a Glasgow quest’autunno per il vertice annuale della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc).
Sarà la 26ª Conferenza delle parti, nota anche come Cop26, e vi saranno rappresentati tutti i 197 stati che fanno parte dell’Unfccc. Nel suo ruolo di paese ospite della Cop26, il Regno Unito ha chiesto ai partecipanti di proporre obiettivi di riduzione delle emissioni per il 2030 più ambiziosi per contribuire a raggiungere l’impatto zero entro metà secolo, di raccogliere contributi per l’adattamento climatico e fondi per gli interventi di mitigazione, e di finalizzare le regole di attuazione dell’accordo di Parigi sul clima siglato nel 2015.
Questa tornata di colloqui delle Nazioni Unite sul clima doveva svolgersi nel 2020, ma è stata rinviata a causa della pandemia. A margine dei colloqui principali, che si terranno dal 31 ottobre al 12 novembre 2021, la seconda città più grande della Scozia ospiterà una serie di incontri ed eventi che coinvolgeranno leader, scienziati e organizzazioni della società civile provenienti da tutto il mondo.
In un anno segnato da inondazioni catastrofiche, incendi boschivi e ondate di calore, agire per contrastare il cambiamento climatico è più urgente che mai. E dunque di cosa si parlerà durante i negoziati di Glasgow?
In discussione
Molte delle questioni sul tavolo sono rimaste irrisolte da quando è stato concluso lo storico accordo di Parigi, con il quale la maggior parte dei paesi del mondo si è impegnata a cercare di limitare il riscaldamento globale a meno di due gradi, possibilmente a 1,5 gradi.
Il possibile funzionamento dei mercati internazionali delle emissioni, che sono oggetto dell’articolo 6 dell’accordo di Parigi, continua a essere al centro delle controversie. Nell’ambito di questi mercati, i paesi virtuosi che riducono le emissioni più del previsto dovrebbero ricevere dei crediti che possono poi rivendere a paesi che invece non riescono a rispettare i loro impegni.
Rendere operativi i mercati delle emissioni però è molto difficile. I paesi in via di sviluppo temono che questi scambi consentiranno ai paesi ricchi di evitare riduzioni sostanziali di emissioni al loro interno fornendo al contempo un contributo marginale alla riduzione delle emissioni all’estero grazie all’acquisto di crediti di carbonio. I paesi ricchi sostengono che i paesi in via di sviluppo potrebbero inglobare le riduzioni di emissioni vendute come crediti aggiungendole ai loro obiettivi interni di riduzione delle emissioni, di fatto conteggiandole due volte.
La Cop26 si terrà in un momento in cui i rapporti internazionali sono particolarmente tesi
Mantenendo inoltre i vecchi crediti accumulati nel quadro del sistema precedente, quello stabilito dal protocollo di Kyoto del 1997, economie emergenti come quelle del Brasile e dell’India ed economie a intensa produzione di anidride carbonica come quelle dell’Australia e della Russia potrebbero raggiungere i nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni senza ulteriori sforzi, andando però contro lo spirito dell’accordo di Parigi, che punta a obiettivi sempre più ambiziosi nel tempo.
Si prevedono difficoltà anche nei negoziati sul sostegno da offrire ai paesi più poveri nel loro percorso verso uno sviluppo più sostenibile. L’accordo di Parigi riconosce le minacce poste dall’aumento delle inondazioni e delle siccità nei paesi più vulnerabili al cambiamento climatico. In base alle disposizioni sulle perdite e i danni contenute nell’articolo 8, l’accordo promette ai paesi più poveri assistenza tecnica e finanziaria, ma non è ancora chiaro come tutto questo potrà essere messo in pratica.
Inoltre, aspetta un via libera l’erogazione di cento miliardi di dollari all’anno (86 miliardi di euro) in finanziamenti per il contrasto del riscaldamento globale. I paesi in via di sviluppo ne hanno bisogno per avviare una transizione ecologica, ma fino a oggi i paesi ricchi non hanno rispettato l’impegno assunto nel 2010. Anche se il recente annuncio del presidente Joe Biden di raddoppiare i contributi degli Stati Uniti potrebbe incoraggiare altre economie ricche a fare altrettanto, l’ammanco continuerebbe a essere considerevole.
Mandare tutto all’aria
La lista di questioni aperte sui tavoli della Cop26 è lunga e la posta in gioco è alta. Le complicazioni più gravi però potrebbero sorgere dal contesto in cui avverranno i negoziati. La mancanza di vaccini e gli alti costi dei viaggi potrebbero ostacolare la presenza della totalità delle delegazioni: quelle dei paesi più poveri hanno avvertito che potrebbero avere difficoltà a spostarsi in Scozia. Dato che molti dettagli potrebbero essere affrontati da remoto non è scontato un fallimento dei negoziati. Ma è anche vero che rischiano di essere fisicamente assenti soprattutto i rappresentanti dei paesi più poveri, impedendogli di avere un controllo serrato sugli esiti del vertice.
La Cop26 si terrà poi in un momento in cui i rapporti internazionali sono particolarmente tesi. Le conseguenze della Brexit continuano a mantenere fredda l’atmosfera tra il Regno Unito e l’Unione europea. Gli Stati Uniti e la Cina, responsabili di più del 40 per cento delle emissioni globali, sono invischiati in continue sfide diplomatiche e strategiche. Il partenariato sulla sicurezza negoziato di recente tra l’Australia, il Regno Unito e gli Stati Uniti (Aukus) allo scopo di bilanciare la potenza cinese nella regione indopacifica, ha fatto arrabbiare la Francia, e questo potrebbe a sua volta minare le speranze di cooperazione alla Cop26.
Tuttavia, gli ostacoli più grossi non sono a Glasgow, ma nelle varie capitali. Ogni paese sta combattendo una battaglia interna che determinerà la credibilità internazionale della Cop26.
Già in passato è capitato che alcuni paesi si ritirassero dall’Unfccc. L’uscita del Canada dal protocollo di Kyoto nel 2011 e l’uscita temporanea degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi nel 2017 nascevano da ragioni interne e la politica interna è stata a lungo un fattore decisivo nel determinare gli impegni sul clima assunti dai singoli paesi.
Ambizioni modeste
Il quadro dell’accordo di Parigi lo riconosce e consente ai governi di assumere impegni sul clima che possono variare da paese a paese affinché l’azione di ciascuno diventi progressivamente più ambiziosa. Ma un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato nel 2020 rileva che considerando gli impegni assunti finora dai governi il clima mondiale registrerà comunque un riscaldamento di tre gradi. Siamo distanti dall’ambizione che servirebbe in questo momento.
Eppure c’è speranza. Sebbene tante proposte dei governi rischino di rimanere solo parole vuote, l’ultimo picco dei prezzi del gas in Europa e la recente penuria di carburante nel Regno Unito rappresentano per alcuni governi, compreso quello britannico che ospita la Cop26, un incentivo ad accelerare su alcuni elementi delle loro strategie di riduzione delle emissioni, elettrificando per esempio i riscaldamenti domestici e i mezzi di trasporto. Analogamente, il successo dei Verdi alle recenti elezioni tedesche, con il 14,8 per cento dei voti, segnala in modo inequivocabile un sostegno pubblico alle azioni sul clima in una delle economie più importanti.
Per quanto possiamo prestare attenzione ai negoziati sul clima delle Nazioni Unite, vanno sempre tenute d’occhio le politiche nazionali al riguardo e il ruolo giocato dagli elettori nello scegliere la classe dirigente che vedremo all’opera sul palcoscenico globale.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito su The Conversation.