I sospetti sulla morte del presidente del Burundi
Il 9 giugno il governo del Burundi ha annunciato la morte del presidente Pierre Nkurunziza, 55 anni, per un infarto. Nel comunicato si legge che Nkurunziza si è sentito male sabato scorso a una partita di pallavolo e, dopo un miglioramento la domenica, ha avuto un attacco cardiaco che gli è costato la vita nella giornata di lunedì.
Ex leader ribelle, al potere dal 2005, si preparava a lasciare l’incarico in agosto al suo successore designato, l’ex generale Évariste Ndayishimiye, che ha vinto senza troppe sorprese le presidenziali del 20 maggio.
In Burundi, scrive Samba Cyuzuzo, corrispondente della Bbc nei Grandi laghi, “Nkurunziza era amato e temuto in pari misura: amato da chi pensava che avesse mantenuto le promesse fatte dopo essere stato eletto presidente alla fine della guerra civile e temuto dai suoi avversari politici”. Come ricorda il giornale d’opposizione burundese Iwacu, una volta lasciata la presidenza, Nkurunziza avrebbe dovuto mantenere una serie di titoli che servivano a celebrare la sua “onnipotenza” all’interno delle istituzioni dello stato, tra cui quello di “guida suprema eterna”, che gli era stato attribuito nel 2018 dal governo controllato dal suo partito, il Cndd-Fdd.
La sua morte inaspettata – l’ex presidente burundese era uno sportivo e non aveva avuto problemi di salute – ha fatto emergere subito dei dubbi sulla reale causa del decesso. Come ha scritto su Twitter il giornalista sudafricano Simon Allison, “il grande interrogativo è se il presidente uscente del Burundi sia morto di covid-19 (e se le autorità lo ammetteranno). Il Burundi ha praticamente ignorato il virus, e ha perfino espulso dal paese i rappresentanti dell’Oms. Secondo alcuni articoli la moglie di Nkurunziza era positiva al covid-19”.
La gestione dell’emergenza legata alla pandemia di nuovo coronavirus è solo l’ultimo esempio di come il regime nel corso degli anni si sia chiuso sempre di più su se stesso, si sia rifiutato di ascoltare le voci discordanti e abbia adottato il pugno di ferro come strumento di governo.
“Nkurunziza non ha imposto nessuna misura di contenimento in questo paese povero e piccolo, lasciando che gli eventi sportivi e i comizi della campagna elettorale si svolgessero come se nulla fosse”, scrive Jason Burke sul Guardian. Anche Burke ricorda che a fine maggio sui giornali keniani erano uscite notizie sul ricovero in ospedale a Nairobi di Denise Nkurunziza, la first lady burundese, per covid-19. “Le autorità in Burundi sono state accusate di aver deliberatamente minimizzato la minaccia della pandemia”, che nel paese ha contagiato, secondo i dati ufficiali, 83 persone, di cui una è morta.
L’isolamento diplomatico del Burundi è cominciato quando Nkurunziza ha voluto candidarsi a tutti i costi a un terzo mandato (che ha poi ottenuto) nel 2015, una decisione che ha fatto scaturire ampie proteste e perfino un tentativo di colpo di stato. Da allora il governo ha represso con estrema violenza ogni voce dissidente, costringendo molte persone a scappare all’estero. Gli oppositori di Nkurunziza hanno denunciato gravissime violazioni dei diritti umani, tra cui uccisioni extragiudiziali, torture e detenzioni arbitrarie. Nel 2017 il Burundi è stato il primo paese a ritirarsi dalla Corte penale internazionale e l’anno scorso ha fatto chiudere la sede locale dell’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Non è un caso se un articolo di GQ del settembre del 2019 parlava del Burundi come della “dittatura più brutale di cui non avete mai sentito parlare”.
“Il Burundi ha perso la sua ‘guida suprema’, il suo ‘campione del patriottismo’ e il suo ‘centro della leadership’”, scrive Allison sul Mail & Guardian oggi, “ma forse ha finalmente la possibilità di affrontare in modo serio la pandemia di covid-19 e di rovesciare il sistema politico violento e marcio che faceva capo a Nkurunziza”.