La notte tra il 3 e il 4 novembre il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha annunciato l’inizio delle operazioni militari nello stato settentrionale del Tigrai, dov’è stato proclamato lo stato d’emergenza per sei mesi. L’offensiva è stata presentata come una risposta a un presunto attacco di poche ore prima, sferrato dalle forze armate legate al partito al potere nel Tigrai, il Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), contro la base del Comando settentrionale dell’esercito federale a Mekelle, la capitale di questo stato.

Abiy ha usato toni bellicosi e gravi per giustificare l’attacco contro questa regione che ospita più di cinque milioni di abitanti, in maggioranza tigrini, e di cui era originario l’ex presidente e primo ministro Meles Zenawi (al potere dal 1995 al 2012), così come molte delle personalità che hanno dominato la scena politica del paese dal 1991, l’anno in cui cadde la dittatura di Menghistu Haile Mariam.

Le forze di difesa etiopi, ha detto Abiy il 4 novembre, hanno il compito di “salvare il paese” da un governo regionale accusato di aver oltrepassato una “linea rossa” e quindi di “tradimento”. Non sono stati da meno i leader del Tplf. Già il 1 novembre il presidente del Tigrai, Debretsion Gebremichael, aveva annunciato: “Se la guerra è imminente, siamo pronti non solo a resistere, ma a vincere”. Secondo l’International crisis group, il Tplf può contare su almeno 250mila combattenti, tra paramilitari e milizie alleate.

Il blackout di internet e l’interruzione delle linee telefoniche messi in atto dal governo centrale, spiega Zecharias Zelalem sul settimanale sudafricano Mail & Guardian, impediscono le comunicazioni con il Tigrai. Le poche notizie che riescono a trapelare parlano di combattimenti lungo il confine con un altro stato della federazione, l’Ahmara, e di scontri particolarmente violenti vicino alla frontiera con il Sudan.

Il 6 novembre il premier etiope ha annunciato la fine di un primo round di operazioni, che hanno preso la forma di attacchi aerei contro bersagli come depositi di “razzi e altre armi pesanti”, che potrebbero essere usati per rappresaglia, riporta il sito Africa News. Secondo la Reuters, i morti sarebbero per il momento sei e una sessantina i feriti. Le Nazioni Unite hanno lanciato un avvertimento: la situazione umanitaria in Tigrai è già fragile, perché in quella regione vivono 600mila persone che hanno bisogno di aiuti umanitari e un altro milione che dipende da altre fonti di sostegno.

Intanto ad Addis Abeba, senza dare troppe spiegazioni, il premier ha ordinato un rimpasto dei vertici dell’esercito, del ministero degli esteri e dell’intelligence. L’obiettivo per Abiy è probabilmente quello di circondarsi di persone che sostengono pienamente l’offensiva in Tigrai, ipotizza l’Associated Press. Il 7 novembre il premier ha ottenuto dal parlamento i poteri necessari a sostituire i leader del Tigrai, che per lui detengono il potere illegalmente.

Dalla pace alla guerra
Molti in questi giorni sottolineano il paradosso che l’uomo premiato con il Nobel per la pace nel 2019 per aver messo fine a un conflitto ventennale con la vicina Eritrea oggi porti la guerra nel suo stesso paese. In realtà nel corso degli ultimi mesi non sono mancati gli episodi che hanno messo in evidenza come l’elezione di Abiy Ahmed a primo ministro nel 2018 e le politiche che ha adottato da allora abbiano fatto saltare tutta una serie di delicati equilibri politici e tra le etnie (cristallizzati nel federalismo su base etnica sancito dalla costituzione del 1995), approfondendo delle fratture che oggi minacciano la tenuta del paese. L’omicidio del cantante e attivista oromo Hachalu Hundessa e la strage di civili nel distretto di Guliso all’inizio di novembre sono solo due esempi recenti di come le rivalità intercomunitarie e sociali stiano lacerando il paese.

Nel conflitto tra Addis Abeba e il Tigrai, oltre alla questione etnica, c’è anche molta politica. Molti analisti osservano che la classe dirigente tigrina è stata progressivamente messa in disparte con l’arrivo di Abiy nel 2018, tanto che il Tplf non ha voluto partecipare al nuovo partito fondato dal premier, il Partito della prosperità. Inoltre quest’anno il governo di Addis Abeba ha rinviato a data da destinarsi le elezioni generali previste per agosto per via della pandemia di covid-19, una decisione contestata dal Tplf, che ha deciso di andare avanti lo stesso con il voto. Per Addis Abeba i risultati di quelle elezioni non sono validi, per le autorità tigrine sì. Da lì i rapporti tra il governo centrale e quello locale non hanno fatto che degenerare fino all’attuale escalation militare.

In questo contesto il Tplf, precisa Zelalem del Mail & Guardian, vede con sospetto i rapporti amichevoli tra Abiy e il presidente eritreo Isaias Afewerki: “Il presidente dell’Eritrea odia il Tplf. La loro inimicizia deriva dalla guerra del 1998-2000 tra Etiopia ed Eritrea, in cui sono morte 70mila persone. Oggi i leader del Tplf accusano Isaias e Abiy di cospirare per destabilizzare il Tigrai”.

Quali sono le possibili conseguenze di una guerra aperta? Molti analisti sono preoccupati che il conflitto possa riverberarsi in tutto il Corno d’Africa, coinvolgendo possibilmente Sudan, Eritrea e Somalia. Ma ancora più forte è il timore che questa guerra destabilizzi altre parti dell’Etiopia – che con i suoi quasi 110 milioni di abitanti è il secondo paese più popoloso dell’Africa – facendo esplodere le rivendicazioni di autonomia delle decine di gruppi etnici che compongono il paese. Inoltre il conflitto potrebbe coinvolgere la vicina regione dell’Amhara, che ha con il Tigrai una disputa di lungo corso sul controllo di alcuni territori di confine. Come riporta il sito Africa News, nell’Amhara molti sostengono la campagna militare di Abiy.

Il rischio è la “balcanizzazione” del paese, scrive l’Economist. “I governi che si sono succeduti alla testa della moderna Etiopia hanno usato la forza bruta per tenere insieme il paese, sfidando le forze centrifughe del nazionalismo etnico. Oggi la violenza ha rimesso in moto questa centrifuga. Per fermarla Abiy e il Tplf devono mettere in pausa i combattimenti. E concedere agli etiopi il tempo di parlare di come sanare le tante ferite del loro paese. Senza sparare”.

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