È difficile non farsi incuriosire dalla storia di Sanna Ghotbi e Benjamin Ladraa, due trentunenni svedesi che sono passati da Roma a metà febbraio. Nel maggio 2022 Ghotbi e Ladraa hanno cominciato un lunghissimo viaggio in bicicletta che li porterà in quaranta paesi, per un totale di 48mila chilometri da percorrere. Il loro obiettivo è riportare l’attenzione del mondo sulla questione del Sahara Occidentale, il territorio africano occupato per l’80 per cento dal Marocco, ma rivendicato dal Fronte Polisario in nome del popolo sahrawi.
In particolare i due attivisti, fondatori della rete Solidarity rising, chiedono lo svolgimento di un referendum per l’autodeterminazione di questa popolazione, a lungo promesso dalle Nazioni Unite, ma mai concretizzatosi.
L’iniziativa #Bike4WesternSahara non è la prima a vederli protagonisti. Ladraa aveva già percorso a piedi la strada che porta dalla Svezia a Gerusalemme per solidarietà con i palestinesi. Questa volta, partiti da Göteborg, i due attivisti hanno percorso, con le loro bici sventolanti la bandiera della Repubblica democratica araba sahrawi e quaranta chili di bagagli, vari paesi dell’Europa orientale fino al Caucaso, proseguendo poi in aereo (con le bici impacchettate nella stiva) in direzione dell’Asia.
Hanno suscitato la curiosità dei passanti, tenuto lezioni nelle scuole e nelle università, parlato dei sahrawi e con i sahrawi che incontravano. Di recente hanno ripreso il viaggio da Napoli e risaliranno la penisola per poi passare attraverso Francia, Spagna e Portogallo in vista della loro destinazione finale: i campi profughi sahrawi in Algeria, dove contano di arrivare nel 2025.
In Italia, raccontano nel corso di un breve passaggio nella redazione di Internazionale, hanno trovato un movimento di solidarietà con i sahrawi molto più radicato e attivo rispetto a quello che hanno visto nel resto del mondo. Trovano che, in generale, siano pochissime le informazioni che circolano sul Sahara Occidentale – ultima colonia africana, attraversata da un muro di sabbia (il berm) costruito dal Marocco, lungo 2.700 chilometri e per più della metà pieno di mine. Loro stessi, quando sono venuti a conoscenza per la prima volta della questione, sono rimasti stupiti perché si consideravano persone ben informate sui diritti umani ma non ne avevano mai sentito parlare prima né sui mezzi d’informazione né all’università.
Così, hanno deciso di fare loro questa causa e pubblicizzarla con un’iniziativa originale e ben visibile, finanziata con il crowdfunding (qui il link), le donazioni di privati, piccoli premi (per esempio, il riconoscimento svedese Avventura dell’anno) e soprattutto l’aiuto della diaspora sahrawi in termini di ospitalità e contatti. Allo stesso tempo collaborano con alcuni collettivi di giornalisti e documentaristi (come Saharawi voice ed Equipe media) attivi nei campi profughi per amplificare le loro storie e il loro messaggio.
Ma soprattutto pedalano. Un po’ per scherzare ho chiesto loro se avessero mai avuto problemi con le bici. “Ogni parte della bici si è rotta a un certo punto del viaggio”, mi ha detto Ladraa. “Ne ho sostituito ogni pezzo. Domanda filosofica: posso dire davvero che sia la stessa con cui sono partito?”.
Per approfondire
Due articoli e un video sul Sahara Occidentale dall’archivio di Internazionale:
Questo testo è tratto dalla newsletter Africana. Ci si iscrive qui.
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