Tre conflitti hanno reso gli anni dal 2021 al 2023 i più violenti dalla fine della guerra fredda, afferma il rapporto Conflict trends: a global overview 1946-2023, realizzato dalla ricercatrice Siri Aas Rustad per il Peace research institute di Oslo (Prio). Queste grandi guerre sono quelle in Ucraina, nella Striscia di Gaza e in Etiopia. Solo l’anno scorso sono stati registrati 122mila morti sui campi di battaglia (comunque meno che nei due anni precedenti), in 59 diversi conflitti che hanno interessato 34 paesi. Sempre nel 2023 circa 21mila persone in tutto il mondo sono morte in conflitti “non statali”, quindi tra gruppi armati; altre 10.200 in episodi di violenza unilaterale compiuti da forze statali o da milizie.
La grande diffusione dei conflitti è testimoniata anche dal rapporto Global trends 2024 dell’Unhcr (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), secondo cui in tutto il mondo il numero di persone costrette alla fuga ha raggiunto nuovi record, con un totale di 120 milioni di profughi e sfollati nel maggio 2024. Contribuiscono a questo dato, il devastante conflitto in Sudan, con 10,8 milioni di persone sradicate dalle loro abitazioni; quello nella Repubblica Democratica del Congo e quello in Birmania.
Tornando al rapporto del Prio, l’Africa è la regione con il maggior numero di guerre, con 28 diverse zone calde. I conflitti nel continente sono quasi raddoppiati nell’ultimo decennio, mentre dal 2021 al 2023 hanno lasciato più di 330mila morti sul campo di battaglia. Se si prendono in considerazione solo gli scontri che coinvolgono gli stati, il bilancio globale delle vittime nell’ultimo triennio si aggira sui 600mila morti.
Più di 286mila sono attribuibili alla guerra nel Tigrai (2020-2022), la regione dell’Etiopia settentrionale dove le forze del governo di Addis Abeba e i loro alleati hanno combattuto contro le milizie ribelli legate alle autorità locali tigrine (altre stime parlano di quasi cinquecentomila morti). La guerra è stata poco coperta dai mezzi d’informazione internazionale, anche per il blocco delle comunicazioni e il divieto di accesso a giornalisti e ricercatori imposto dal governo.
Il conflitto in Tigrai è ufficialmente chiuso, ma ha lasciato strascichi non indifferenti. Innanzitutto, non c’è ancora stata giustizia per le vittime: il 3 giugno il New Lines institute, un centro studi con sede negli Stati Uniti, ha pubblicato un rapporto in cui afferma che “ci sono ragioni fondate per credere che le parti in guerra abbiano commesso crimini di guerra e contro l’umanità”, in particolare che siano stati commessi atti di genocidio contro la minoranza tigrina. Per questo, il caso dovrebbe essere portato all’attenzione della Corte internazionale di giustizia (Icg). Per esempio, è stata denunciata una campagna di stupri sistematici attribuiti alle forze governative e ai loro alleati eritrei ai danni di centomila donne tigrine.
Inoltre, la ricostruzione e il ritorno alla normalità per gli abitanti del Tigrai sono ancora un miraggio. In un reportage di fine aprile uscito su The New Humanitarian si legge: “Dai posti di lavoro ai servizi sociali, alla sicurezza, le vite degli abitanti del Tigrai sono state distrutte sotto ogni aspetto. Il costo della ricostruzione è stato calcolato in 20 miliardi di dollari. A questa situazione, si aggiunge il conto della crisi climatica: la siccità, la peggiore degli ultimi quarant’anni, seguita da un’invasione di locuste, ha dimezzato i raccolti. Più di 4,5 milioni di persone avranno bisogno di aiuti alimentari e oltre un milione sono ancora sfollate, ammassate in campi nelle varie città della regione”. Secondo un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), quasi il 90 per cento delle strutture sanitarie del Tigrai sono state danneggiate o distrutte durante il conflitto.
Infine, dal Tigrai le violenze si sono diffuse alla regione confinante dell’Amhara, dove le milizie nazionaliste Fano (inizialmente alleate con le forze governative) hanno rifiutato di abbandonare le armi alla fine della guerra, infrangendo i termini del cessate il fuoco del novembre 2022. Da allora il governo di Addis Abeba le combatte con metodi sempre più brutali. Oltre ad aver imposto lo stato di emergenza nell’Amhara – di cui in questi giorni si discute il rinnovo – l’esercito bombarda con i droni i combattenti ribelli, con i civili come vittime collaterali.
“Non ci sono segni che la violenza e l’instabilità nell’Amhara si placheranno presto. Anche se vantano i loro successi in pubblico, i funzionari statali in privato ammettono che ampie parti della regione sono fuori dal loro controllo”, si legge in un’analisi del sito specializzato Ethiopia Insight. “Un numero crescente di funzionari governativi e di partito originari della regione sta fuggendo dal paese, mostrando che non hanno alcuna fiducia nelle capacità dell’élite al potere di risolvere la questione dell’Amhara. È probabile quindi che la ribellione continuerà. Peggio ancora, potrebbe portare a una violenza più ampia, coinvolgendo gli oromo, e mettendo quindi l’uno contro l’altro i due maggiori gruppi etnici dell’Etiopia”, conclude Ethiopia Insight.
Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.
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