I rifugiati africani in gara alle Olimpiadi
In queste settimane atlete e atleti da tutto il mondo stanno convergendo su Parigi in vista dell’inizio dei Giochi olimpici, in programma dal 26 luglio all’11 agosto. Alle competizioni parteciperanno sportivi di tutto il continente africano, dall’Egitto, con i suoi 147 atleti, al Kenya, che ne porterà 72, in gran parte fondisti e velocisti; dalla Nigeria, con 88 sportivi, tra cui la sua squadra di calcio femminile, al Sudafrica, con 149 rappresentanti in vari sport, dal rugby all’hockey su prato.
Il sito Okayafrica dedica un articolo alla lunga rivalità tra due vicini, Etiopia e Kenya, che hanno sfornato “alcuni dei più grandi corridori sulle lunghe distanze di sempre. Quest’anno mandano alle Olimpiadi di Parigi i loro campioni, nella speranza di aggiudicarsi varie medaglie d’oro, ma soprattutto il diritto di vantarsi dei propri successi”.
Sarà nutrita la presenza africana anche all’interno di una squadra speciale, quella dei rifugiati, che non rappresenta una singola nazione, ma le quasi 120 milioni di persone di tutto il mondo che hanno dovuto abbandonare il loro paese d’origine per sfuggire a conflitti e persecuzioni. Quest’anno la squadra olimpica dei rifugiati, che per la prima volta avrà un suo simbolo (un cuore circondato da frecce colorate), è composta da 36 persone, in gran parte selezionate tra i 74 beneficiari delle borse di studio finanziate dal programma Solidarietà olimpica.
I criteri di selezione sono due: il primo è la condizione di rifugiato o rifugiata, che dev’essere certificata dall’agenzia delle Nazioni Unite Unhcr; il secondo, come per tutti gli sportivi, sono le ottime prestazioni nella propria disciplina. Le donne nella squadra sono tredici, senza contare la capo missione Masomah Ali Zada, ciclista afgana.
Come ricorda Ilaria Dioguardi sul sito di Vita, due membri della squadra vivono e gareggiano in Italia: sono gli iraniani Iman Mahdavi, che competerà nella lotta libera, e Hadi Tiranvalipour, nel taekwondo. A me interessava, però, sapere chi sono e da che paesi vengono gli africani che hanno superato la selezione. Non sorprende che molti vengano da zone che sono state a lungo – e spesso sono ancora – teatro di conflitti.
L’etiope Farida Abaroge, cresciuta a Jimma nella regione dell’Oromia, ha lasciato il suo paese per “ragioni politiche” nel 2016, quando aveva 23 anni. È scappata passando per il Sudan, l’Egitto e la Libia. Oggi si allena in Francia, correndo i 1.500 metri. Più recente la fuga della sua connazionale Eyeru Gebru, ciclista su strada di 27 anni, che ha dovuto andarsene dal paese due anni fa a causa della guerra civile nel Tigrai.
Dalla vicina Eritrea vengono invece Tachlowini Gabriyesos, che è scappato insieme alla sua famiglia nel 2010, quando aveva 12 anni, e oggi si allena in Israele sulle lunghe distanze, tra cui la maratona. Luna Solomon, anche lei eritrea, è una tiratrice a segno rifugiata in Svizzera dal 2015. Ha cominciato a praticare questa disciplina sportiva grazie al progetto Make a mark, fondato dal campione italiano di tiro a segno Niccolò Campriani.
Rifugiato da tempo in Israele, il fondista Jamal Abdelmaji Eisa Mohammed è scappato nel 2003 dalla guerra in Darfur, una regione del Sudan occidentale che vent’anni fa fu teatro di un conflitto sanguinoso. Dal Sudan viene anche il velocista Musa Suliman, che ha lasciato il suo paese nel 2013 per andare al Cairo e poi in Svizzera. Si può dire che anche Perina Lokure, mezzofondista, venga dal Sudan, perché nel 2003, quando è nata, il suo paese, il Sud Sudan, non esisteva ancora: è scappata a sette anni in Kenya insieme alla zia e ha vissuto a lungo nel campo profughi di Kakuma.
Dorian Keletela, 25 anni, corre i cento metri. Orfano dei genitori, è originario di Kinkala, in Congo, da dove se n’è andato nel 2016 per volere della zia, sorvegliata per ragioni politiche dal regime di Brazzaville. Dorian ha raggiunto il Portogallo in aereo, dove ha ottenuto asilo. Infine, Cindy Ngamba è una pugile camerunese. Dall’età di dieci anni ha vissuto nel Regno Unito senza incontrare problemi, finché quando aveva vent’anni, in quello che sembrava un controllo di routine, è stata arrestata e mandata in un centro di detenzione. È stata rilasciata solo dopo l’intervento di uno zio, che lavora a Parigi per il governo.
Ngamba ha potuto chiedere la protezione umanitaria perché è omosessuale e in Camerun, come in tanti paesi africani, sono ancora in vigore leggi liberticide che puniscono duramente le persone lgbt. I suoi successi sportivi non sono bastati a garantirle la cittadinanza britannica, almeno non ancora. Così gareggerà per la squadra dei rifugiati, un pugno dopo l’altro, nella speranza di portare a casa una medaglia. La capo missione Ali Zada è fiduciosa. Come ha dichiarato al Guardian, “per la prima volta abbiamo una ragazza, Cindy, che si è qualificata vincendo degli incontri, senza essere selezionata. Sono certa che otterrà una medaglia”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.
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