“Il sorprendente trionfo del Kim Jong-Un africano” è il titolo di un ritratto che 1843, il magazine dell’Economist, ha dedicato al presidente dell’Eritrea Isaias Afewerki. Firmato da un’autrice britannica con un’ottima conoscenza dell’Africa, Michela Wrong, il lungo articolo spiega come un uomo spesso considerato un relitto del passato – più volte dato per finito – sia stato in grado di mantenere stabilmente il potere per trent’anni, di accrescerlo di volta in volta e di trasformare il suo paese nella “Corea del Nord africana”.

Qualche anno fa Wrong ha pubblicato un libro sull’Eritrea, I didn’t do it for you. Come le nazioni del mondo hanno usato e abusato di un piccolo stato africano (Colibrì 2017), in cui parlava della difficile indipendenza dello stato occupato prima dall’Italia, poi dai britannici e infine dalla vicina Etiopia, finché nel 1993 non fu liberato da un movimento armato guidato, tra gli altri, da Isaias.

Wrong scava nel passato del leader eritreo, sottolineando fin da subito le sue tendenze autoritarie e il suo cinismo spregiudicato. Secondo lei, con Isaias “si possono spuntare tutte le caselle che definiscono un dittatore”. Ma, allo stesso tempo, gli riconosce caratteristiche distintive: per esempio, per presentarsi come “uomo del popolo”, rifugge ogni forma di ostentazione e di lusso. Inoltre, non ha tappezzato il paese di sue immagini né ha alimentato un culto della personalità.

In cerca di giustizia per i crimini nel Tigrai
Per accontentare i partner stranieri, l’Etiopia ha promesso di punire gli abusi commessi durante il conflitto nel nord del paese. Ma ci sono dubbi sui meccanismi da adottare
 

In quest’affascinante ricostruzione, basata anche sulle interviste con persone che appartenevano alla cerchia ristretta di Isaias, Wrong afferma che la sua carriera di rivoluzionario “può essere vista, in parte, come una ribellione contro la generazione dei genitori. Il padre di Isaias, che lavorava per l’azienda statale etiope del tabacco, apparteneva infatti a un partito che promuoveva l’annessione dell’Eritrea all’Etiopia”.

Il leader eritreo sviluppò presto una certa ostilità verso gli etiopi, in particolare quelli più istruiti che incontrò all’università: “Isaias studiò ingegneria ad Addis Abeba, la capitale etiope. Lì si scontrò con un certo snobismo nei confronti degli eritrei, particolarmente accentuato tra gli appartenenti alla classe dirigente amhara dell’Etiopia. L’esperienza lo portò a diffidare per tutta la vita di queste persone”.

Sulle orme di Mao
Nello stesso periodo cominciò a partecipare ai movimenti rivoluzionari e nel 1967 fu scelto per andare a seguire un addestramento militare all’accademia di Nanjing, in Cina. “L’esperienza gli lasciò per tutta la vita un’affinità con Pechino e gli fornì un utile libretto di istruzioni su come eliminare gli avversari. Si dice che fosse un lettore accanito dei testi di e su Mao”. Quello che imparò gli permise di affermarsi all’interno del movimento di guerriglia Fronte di liberazione del popolo eritreo (Eplf), che non solo riuscì a ottenere l’indipendenza dell’Eritrea, ma aiutò anche una coalizione di forze ribelli etiopi, che includeva il Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), a far cadere il regime guidato da Menghistu Haile Mariam.

“Tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli anni duemila, il mondo credette all’immagine di Isaias come leader progressista. Costruì ospedali, piantò milioni di alberi e fece distribuire in modo efficace gli aiuti umanitari a una popolazione perennemente malnutrita”, ricorda Wrong.

Ma in quegli stessi anni la relazione tra Eritrea ed Etiopia si ribaltò: l’Eplf di Isaias, che era stato dominante, passò in secondo piano rispetto al Tplf, che era diventato il nuovo cocco dell’occidente, grazie all’“intelligente e affascinante” leader Meles Zenawi, di etnia tigrina. “L’apparente facilità con cui l’occidente liquidò Isaias per accalcarsi ad Addis per discutere di aiuti e opportunità commerciali […] è alla base dell’atteggiamento implacabile che oggi Isaias ha verso il Tigrai”. L’acredine venne definitivamente alla luce nel 1998, con lo scoppio di una guerra di confine tra i due paesi.

Facciamo un salto in avanti di vent’anni. Ad Addis Abeba l’ascesa di Abiy Ahmed, che scalza la vecchia guardia tigrina, porta a un cambio di leadership. I rapporti tra i due paesi migliorano, ma potrebbe essere stata solo apparenza.

“La riconciliazione era all’ordine del giorno”, scrive Wrong, “e ha portato a una serie di accordi di pace tra Eritrea ed Etiopia, per i quali Abiy ha ricevuto il premio Nobel per la pace. Ma gli analisti oggi si chiedono se i due non abbiano in realtà stretto un patto di guerra, con il Tplf come vittima designata. In un discorso tenuto a quell’epoca, Isaias chiarì che per lui era arrivata la fine dei giochi per i tanto detestati woyane, come sono chiamati gli esponenti del Tplf in Eritrea”.

Cambiando alleanze in maniera strategica, Isaias è riuscito ancora una volta a resistere alle spinte all’apertura – si pensava infatti che Asmara non avrebbe potuto resistere al vento di libertà che spirava ad Abbis Abeba – e a stringere ulteriormente la presa sul potere. Come abbiamo poi visto, i soldati eritrei sono stati un aiuto importante per le truppe governative etiopi nei combattimenti nella regione del Tigrai. Lì, gli eritrei si sono lasciati andare a violenze inaudite forse proprio perché, ipotizza Wrong, erano imbevuti di propaganda antitigrina, somministrata durante il famigerato servizio militare obbligatorio a cui devono sottoporsi tutti i ragazzi e le ragazze in Eritrea.

“Mentre si avvicina agli ottant’anni, Isaias può congratularsi con se stesso per essere sopravvissuto ai rivali: l’imperatore Hailé Selassié (contro cui combatteva da giovane) e Meles Zenawi sono entrambi morti. Menghistu è in esilio”, ad Harare, nello Zimbabwe. Oggi il leader eritreo ha trovato alleati a Mosca, in Sudan e ancora una volta può essere determinante per gli equilibri del Corno d’Africa, che attraversa una fase di forte instabilità.

“Uno dei motivi per cui Isaias potrebbe essere tentato da nuove avventure all’estero”, conclude l’autrice, “è che deve tenere occupati i 250mila soldati che hanno acquisito esperienza sul campo di battaglia in Tigrai. I regimi africani spesso faticano a reintegrare i militari che sono stati incoraggiati a compiere azioni criminali in territorio straniero. E in Eritrea questi giovani non hanno quasi nulla da fare”.

Una guerra d’altri tempi?
Questo ritratto di Isaias Afewerki rende ancora più inquietanti alcune notizie che arrivano dalla regione. Asmara e Addis Abeba sembrano di nuovo ai ferri corti per alcune dichiarazioni fatte dal leader etiope, in particolare riguardo alla necessità di riconquistare quell’accesso al mare che l’Etiopia perse nel 1991, quando l’Eritrea diventò indipendente.

Il 13 ottobre, racconta Mohamed Kheir Omer su Foreign Policy, i mezzi d’informazione etiopi hanno mandato in onda un discorso registrato tenuto da Abiy in parlamento, che sottolineava l’importanza del mar Rosso per il futuro del paese. Allo stesso tempo, il leader etiope affermava di voler creare una base navale (secondo Omer è già stata creata una forza militare navale etiope). Queste dichiarazioni hanno scombussolato i vicini, come Gibuti e la Somalia, spingendo anche gli Stati Uniti a chiedere di non lanciare provocazioni e di rispettare la sovranità e l’integrità degli altri paesi della regione.

Omer suggerisce che, se scoppiasse una guerra tra Etiopia ed Eritrea, questa sarebbe per il porto di Assab, che dista poche decine di chilometri dal confine etiope. L’idea di una guerra territoriale potrebbe sembrare assurda nel ventunesimo secolo. Ma, scrive l’analista, “viste le caratteristiche dei due leader potrebbe prepararsi una nuova tragedia. Abbiamo già conosciuto il carattere paradossale di Abiy, che promuove la pace quando in realtà pensa alla guerra”. Di Isaias, invece, è nota la capacità di muovere guerre per procura, e questa volta potrebbe sostenere le milizie amhara e l’Esercito di liberazione oromo, che già stanno dando del filo da torcere ad Abiy, per indebolirlo ulteriormente.

Mentre il mondo rivolge tutta la sua attenzione alla guerra a Gaza, la pace nel Corno d’Africa sembra più fragile che mai.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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