La lettera aperta pubblicata il 21 marzo sul quotidiano Le Monde dal collettivo Nous vivrons (Noi vivremo), firmata da più di duecento personalità del mondo politico e intellettuale francese, sostiene che antisemitismo e antisionismo siano sinonimi e che il secondo dovrebbe essere vietato per evitare il primo. Questa equazione, ripetuta di continuo dai vertici dello stato dopo gli attentati di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023, è percepita come un invito al silenzio da chi s’indigna per la guerra nella Striscia di Gaza.
Crediamo davvero di poter calmare un po’ gli animi vietando il dibattito? L’odiosa aggressione del 22 marzo al rabbino di Orléans, picchiato di fronte al figlio mentre tornava da una sinagoga, è solo l’ultimo dei tanti campanelli d’allarme sull’aumento dell’antisemitismo, sull’estrema gravità della situazione e sulla necessità, oggi più che mai, di affrontare la questione in tutta la sua complessità per non far degenerare la vigilanza in paura.
Invece di disinnescare l’odio che ci minaccia ovunque nel mondo, lo alimentiamo gettando benzina sul fuoco
Il testo della lettera pubblicata su Le Monde si snoda intorno allo slogan “Sionisti, fascisti, siete voi i terroristi!”. Il minimo che si possa dire è che le scorciatoie di alcuni non hanno nulla da invidiare alle scorciatoie di altri. Dobbiamo aver rinunciato a pensare per cadere così in basso.
Naturalmente non contesto l’esistenza di slogan come questo. Ne contesto però la strumentalizzazione e le conclusioni che se ne ricavano. Mentre ero di passaggio a Parigi il 27 maggio 2024 ho partecipato a una manifestazione a place Saint-Augustin per chiedere la sospensione dei bombardamenti su Gaza. Ero pronta ad andarmene al minimo slogan antisemita. Non ne ho sentito nemmeno uno.
Invece di lavorare per diminuire l’odio che ci minaccia a tutte le latitudini, lo stiamo alimentando, gettando benzina sul fuoco. La prospettiva dell’altro, la storia stessa, viene nascosta sotto il tappeto prima che riesca ad aprire bocca.
Il testo del collettivo Nous vivrons uscito su Le Monde cita ripetutamente le parole “ebrei”, “sionisti”, “antisemiti”, “antisionisti” (esattamente 54 volte) senza una sola allusione a quello che succede dall’altra parte. L’altro, il popolo palestinese, non è chiamato con il suo nome nemmeno una volta. L’unica frase che fa riferimento al suo diritto di esistere evita di nominarlo: “Siamo a favore della coesistenza di due stati democratici”.
Questo stallo è molto grave, che sia voluto oppure no. Se tra i firmatari dell’appello c’è qualcuno che ha denunciato e lottato contro la colonizzazione dei territori occupati negli ultimi decenni – condizione essenziale per la creazione di due stati – vorremmo sentire la sua voce. Non basta denunciare il suprematismo di estrema destra del governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu per essere in pari con il passato.
Nel documento si legge che “secondo i dati del ministero dell’interno (francese), un terzo degli atti antisemiti registrati nel 2024 sono stati motivati dalla causa palestinese”. La conclusione di questa constatazione è ovvia: la brutalità della politica israeliana e la sua pretesa di rappresentare tutti gli ebrei nel mondo ha un impatto diretto sull’antisemitismo.
Quando ammetteremo che la pace in cui si trovavano gli israeliani prima del 7 ottobre era pace solo per loro? Quante volte ho sentito dire: “Non potevamo che difenderci”
Va da sé che questa osservazione non elimina in alcun modo la responsabilità dei pregiudizi e degli attacchi antisemiti. Ma cosa facciamo in queste circostanze? Ci limitiamo a denunciare il ritorno dell’odio o cerchiamo di analizzare il fenomeno e le sue cause? In altre parole, accettiamo di stabilire un legame tra gli impulsi dell’odio antisemita e la guerra a Gaza che l’esercito israeliano, aiutato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, vuole concludere espellendo la popolazione e vendendola finanziariamente a un paese vicino o a un altro?
Ora che il nostro presente è slegato dal passato ed è in preda a una tempesta d’incognite; ora che il totalitarismo dilaga in tutto il mondo intorno a un’Europa strangolata; ora che Gaza, o quel poco che ne resta, viene nuovamente sommersa da una pioggia di bombe; ora che l’Ucraina è in balia di due predatori; ora che l’estrema destra europea, di cui tutti conosciamo la storia, viene invitata a una conferenza sull’antisemitismo in Israele, non è forse urgente cominciare a immaginare un nuovo linguaggio, a preferire la finestra allo specchio? Non si può indebolire il razzismo con i divieti, bisogna fermare tutto quello che lo rafforza.
Il 7 maggio 2024 ho ascoltato un discorso al Consiglio di rappresentanza delle istituzioni ebraiche in Francia (Crif) di un ex primo ministro, Gabriel Attal, che ha firmato la petizione di Nous vivrons. Nel corso di trenta minuti di appassionato appello al sostegno per lo stato d’Israele, Attal non ha detto nemmeno una parola per chiedere un po’ di compassione per i palestinesi. È così che intendiamo davvero ricucire le lacerazioni e fare iniezioni di alterità? Per quanto tempo ancora ci rifugeremo in una memoria chiusa in se stessa?
Leggendo il testo pubblicato su Le Monde è come se alla creazione dello stato di Israele, che nel 1948 ha causato l’espulsione di 700mila palestinesi, fosse seguito un progetto costruttivo, aperto e inclusivo per quelli che sono rimasti. Come se il sionismo non avesse nulla da farsi perdonare da chi non è stato in alcun modo coinvolto nell’abominio della Shoah. Come se l’umiliazione inflitta ai palestinesi prima dell’ascesa al potere di Hamas, la loro metodica espropriazione prima e dopo il 1967, la trasformazione di Gerusalemme in capitale dallo stato di Israele, la dichiarazione di Israele come stato nazione degli ebrei nel luglio 2018, non facessero violenza a chi ha un’idea diversa di giustizia e condivisione.
Questa sordità, questa flagrante negazione, è legata al trauma subìto, è comprensibile che sia così. Ma per quanto tempo ancora lo sarà? Quando ammetteremo che la pace in cui si trovavano gli israeliani prima del funesto 7 ottobre era una pace solo per loro? Quante volte ho letto e sentito dire: “Eravamo in pace, poi ci hanno dichiarato guerra e ci hanno massacrato. Non potevamo che difenderci”.
L’atroce massacro che ha rotto e allo stesso tempo rafforzato la routine dell’occupazione, della colonizzazione – perché sì, la parola giusta è “colonia”, non “insediamento” – non ha rotto la pace. Non c’era pace dall’altra parte del confine. C’era asfissia. Qui sta l’immenso equivoco, o meglio la mancata comprensione, che impedisce al pensiero di respirare.
Non uso più le parole “sionismo” e “antisionismo” da molti anni, per il motivo che Israele è ormai di fatto uno stato, un principio di realtà e quindi una società da riconoscere e proteggere. Abbiamo bisogno di nuove parole per ogni cosa. Ma non è accettabile la confusione tra un razzismo che va combattuto e un’opinione politica che deve potersi esprimere liberamente nel dibattito pubblico.
Nella lettera aperta si legge che “il sionismo è una barriera contro l’odio”. In altre parole, è un argine all’antisemitismo. E l’altra barriera, quella contro la negazione e il disprezzo del popolo palestinese, della sua memoria e della sua storia, il sionismo ha mai cominciato a costruirla?
La Francia, seguendo le orme degli Stati Uniti, dovrebbe proibire per legge l’uso di una parola, “antisionismo”, in un momento in cui l’esigenza assoluta dovrebbe essere quella di chiedere l’ingresso dei mezzi d’informazione stranieri a Gaza? Non voglio crederci.
Un ultimo punto: il documento di cui parlo ripropone un paragone apparso di recente sulla stampa, ovvero che Israele non è più grande della Bretagna. Cosa nasconde questo nuovo trucchetto proprio nel momento in cui il ministro della difesa di Tel Aviv, Israel Katz, dichiara l’intenzione del suo paese di annettere Gaza? In un momento in cui Israele sta inghiottendo le alture del Golan e rosicchiando terreno al Libano meridionale?
In questo momento i nostri schermi mostrano i volti insanguinati di bambini che hanno perso tutto: la loro terra, la famiglia e il futuro. La mia domanda finale, quindi, è molto semplice: la forma, il contenuto e il tempismo dell’appello di Nous vivrons servono a ridurre l’antisemitismo? ◆ adg
Questo articolo è uscito su Le Monde.
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Questo articolo è uscito sul numero 1608 di Internazionale, a pagina 43. Compra questo numero | Abbonati