Nella scorsa newsletter ho parlato di come lo scandalo della chat di gruppo su Signal abbia costretto per la prima volta Trump a subire una narrazione degli eventi imposta da altri. Le cose per lui sono andate peggio questa settimana, quando gli eventi hanno ulteriormente scombinato i suoi piani, peraltro con una certa dose di ironia.

Il tanto atteso e sbandierato liberation day (la liberazione, grazie ai dazi, dai torti e dalle angherie economiche del resto del mondo) è stato rovinato dalla prevedibile reazione preoccupata dei mercati e anche di molti alleati del presidente e da una serie di piccoli segnali d’allarme, tanto che i giornali non hanno potuto fare a meno di scherzarci su: l’Economist ha titolato ruination day (il giorno della rovina), l’Atlantic reckoning day (il giorno della resa dei conti), Bloomberg obliteration day (il giorno della distruzione).

Nelle prossime settimane potremo misurare il livello di caos causato dai dazi di Trump sull’economia statunitense e mondiale e di conseguenza l’impatto in termini di consenso interno (per farsi un’idea sulla notizia e sui suoi possibili sviluppi consiglio di ascoltare Alessandro Lubello nella puntata del Mondo di venerdì, di guardare questo video di Le Monde che spiega come funzionano i dazi e quest’altro di Arte che parla dell’impatto su noi europei).

Le regole di Elon Musk arrivano ad Aviano
Il miliardario statunitense vorrebbe imporre i suoi metodi ai dipendenti italiani della base militare. I sindacati, però, si sono opposti

Per ora concentriamoci sui piccoli segnali d’allarme, che sono in buona parte legati al ruolo di Elon Musk. In poco tempo l’uomo più ricco del mondo, risorsa imprescindibile del presidente in campagna elettorale, sembra essere diventato una zavorra.

Il 1 aprile in Wisconsin si votava per eleggere un giudice della corte suprema statale. Era un’elezione importante per una serie di motivi: come succede anche a livello federale, nei singoli stati le corti supreme si trovano a dirimere questioni fondamentali, quindi hanno un potere enorme di orientamento politico; il Wisconsin è uno degli stati che decidono le elezioni presidenziali (a novembre 2024 è andato a Trump con un margine di appena trentamila voti); la corte era spaccata tra conservatori e progressisti, quindi il nuovo membro l’avrebbe spostata da una parte o dall’altra.

Ma era comunque un’elezione locale, che in circostanze normali non avrebbe attirato tanta attenzione. Con Musk di mezzo è cambiato tutto. Il fondatore della Tesla ha fatto campagna elettorale di persona nello stato e ha speso più di 25 milioni di dollari per sostenere il candidato repubblicano, arrivando a promettere assegni da un milione di dollari agli elettori. Durante un comizio ha detto “da questo voto potrebbe dipendere il controllo del congresso, e quindi il futuro stesso della civiltà occidentale”. In questo modo ha trasformato il voto in una sorta di referendum su se stesso e in parte sull’amministrazione Trump. Gli è andata malissimo: anche se i sondaggi prevedevano un testa a testa, la candidata progressista Susan Crawford ha vinto facilmente. Dopo il voto Musk, che di solito pubblica tweet a raffica, ha scritto solo un post: “La grande truffa della sinistra è la corruzione del sistema giudiziario”. Poi è passato oltre, ma intanto il danno era fatto.

Lo stesso giorno in Florida si tenevano elezioni speciali per assegnare due seggi vacanti al congresso. I candidati repubblicani hanno vinto ma con margini molto ridotti rispetto alle attese (erano distretti solidamente conservatori), con i democratici che hanno guadagnato 17 e 20 punti percentuali rispetto alle elezioni presidenziali di cinque mesi fa. Qualcuno ha fatto notare che in alcune delle contee in cui hanno vinto i democratici vivono molte famiglie di militari, ipotizzando che i tagli voluti da Musk ai programmi per i reduci di guerra abbiano influito sui risultati.

La Florida e il Wisconsin si aggiungono alla lista delle cose fatte da Musk che hanno alimentato un po’ alla volta il fastidio dei repubblicani per il suo ruolo e il suo peso: prima di Natale ha fatto saltare l’accordo sulla spesa che il presidente della camera Mike Johnson aveva raggiunto con i democratici, mettendo in una posizione complicata i repubblicani del congresso; qualche settimana dopo, quando Trump ha annunciato il lancio di un programma da 500 miliardi di dollari nel campo dell’intelligenza artificiale che comprendeva anche OpenAI di Sam Altman, Musk è intervenuto per scagliarsi contro Altman, suo rivale di vecchia data della Silicon valley, di fatto sminuendo l’annuncio del presidente; poi il fondatore della Tesla è intervenuto nel podcast di Joe Rogan definendo la previdenza sociale “il più grande schema Ponzi di tutti i tempi”, un commento che si è scontrato con la promessa di Trump di non tagliare mai i sussidi; e ieri

Musk ha apertamente criticato la strategia di Trump sui dazi, prima prendendo di mira il principale consigliere del presidente sul commercio, poi dicendo che c’è bisogno di più libero mercato (il crollo del mercato azionario causato dall’annuncio di Trump sui dazi è costato a Musk quasi 18 miliardi di dollari solo per le sue azioni Tesla).

In questo contesto va letta la notizia, rivelata in un retroscena di Politico, secondo cui Trump avrebbe comunicato ai suoi collaboratori e ai ministri che nelle prossime settimane Musk lascerà il suo attuale ruolo nel governo. Nella cerchia ristretta del presidente si comincia a pensare alle elezioni di metà mandato del prossimo anno, e anche prima delle elezioni in Wisconsin e in Florida c’erano da settimane segnali dell’insofferenza dell’opinione pubblica per i licenziamenti di massa dei dipendenti pubblici voluti da Musk, che hanno effetti gravi su migliaia di famiglie: si sono visti per esempio negli incontri dei politici repubblicani con gli elettori dei loro distretti e nella grande partecipazione ai comizi di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez.

Capitalisti su Marte
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Va detto che finora Musk è stato anche uno scudo politico per Trump, nel senso che si è intitolato le decisioni più controverse del programma del presidente, prendendosi le critiche e le colpe. Ma resta il fatto che ha troppi punti deboli che possono creare problemi al presidente. Come ha scritto Charlie Warzel sull’Atlantic, “dietro l’attuale impopolarità d Musk c’è un concetto semplice: gli americani (compresi i sostenitori di Trump) si sentono a disagio nel vedere un mega-miliardario non eletto che rovista nel governo, smantellando programmi e pensando di poter tranquillamente tagliare previdenza e welfare.

Da tempo Musk si comporta negli affari come se le leggi e i regolamenti non si applicassero a lui, una tattica che sembra ritorcerglisi più facilmente contro quando viene applicata alla politica. Le sue azioni – per esempio promettere soldi agli elettori – non sono solo discutibili dal punto di vista legale, ma mostrano anche in modo evidente che l’uomo più ricco del mondo sta cercando di comprare un’elezione”.

Più Musk sta al governo e più gli americani, anche quelli che hanno votato per Trump, possono notare l’ipocrisia di un uomo con un enorme conflitto d’interessi che licenza decine di migliaia di persone sostenendo di voler combattere la corruzione.

L’entrata in politica di Musk potrebbe essere ricordata come uno dei più grandi sperperi di reputazione della storia. Fino a qualche mese fa era venerato, visto come il simbolo dello spirito innovativo statunitense, oggi il fiore all’occhiello del suo impero – la Tesla – è un marchio quasi tossico e gli investitori cominciano a dubitare delle capacità di gestione di Musk.

Detto questo, è ragionevole pensare che né Trump né Musk abbiano interesse a rompere i rapporti reciproci. L’imprenditore potrebbe fare un passo indietro per limitare i danni economici che derivano dal suo impegno politico, ma gli conviene restare vicino al potere per curare e difendere i suoi interessi, per esempio facendo pressione contro regolamenti che potrebbero ostacolare i suoi progetti per la guida autonoma della Tesla o per continuare a garantirsi contratti governativi per SpaceX e Starlink. Il presidente potrebbe vedere di buon occhio il passo indietro di Musk, anche perché non gli è mai piaciuto condividere i riflettori e deve essere stato molto infastidito dal fatto che si parlasse di Musk come del “presidente ombra”, ma di certo non ha interesse a mettersi contro l’uomo più ricco del mondo, che è proprietario di uno dei social più influenti nel dibattito pubblico e si è guadagnato il potere di condizionare la macchina elettorale del Partito repubblicano.

Se anche Musk dovesse uscire di scena, la sua visione del mondo non scomparirà, perché si basa su idee molto radicate nella storia degli Stati Uniti. La convinzione che sia possibile costruire uno stato più efficiente liberandosi della burocrazia e alla lunga della democrazia stessa, per affidare il potere a imprenditori e scienziati visionari si affermò per la prima volta negli anni trenta, in risposta al new deal di Franklin Roosevelt, che aveva esteso i programmi pubblici per combattere la povertà e di conseguenza anche l’apparato burocratico. Questa storia, e il modo in cui si collega all’ascesa e alla caduta di Musk, è raccontata dalla storica Jill Lepore in un bell’articolo uscito sul New York Times.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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