Era prevedibile. La guerra dei dazi scatenata da Donald Trump ha innescato l’escalation più vertiginosa con la Cina. Dato che parliamo delle due superpotenze più importanti del ventunesimo secolo, la battaglia commerciale prende la forma di una rivalità strategica, con tutti i rischi che questo comporta.

Quando Washington ha imposto ulteriori dazi del 34 per cento sui prodotti cinesi, Pechino ha risposto immediatamente, annunciando in meno di 24 ore che le imposte avranno valore reciproco: tutti i prodotti statunitensi che entreranno nel paese saranno tassati al 34 per cento. Trump, a quel punto, ha rilanciato minacciando di imporre ulteriori tariffe del 50 per cento se la Cina non rinuncerà entro il 9 aprile alle sue rappresaglie.

La questione è tutt’altro che marginale. L’anno scorso la Cina ha esportato prodotti per 439 miliardi di dollari negli Stati Uniti, il triplo rispetto alle esportazioni statunitensi in Cina (143 miliardi). I prodotti finiti nel mirino, tra l’altro, sono indispensabili per entrambe le economie e comprendono anche i minerali strategici. La posta in gioco, insomma, è colossale.

Difficile immaginare che la Cina possa cedere all’ultimatum di Trump. I due governi, infatti, si giocano la propria credibilità in questo braccio di ferro. Il Partito comunista cinese non può dare l’impressione di lasciarsi dettare la linea dall’esterno: ne va del prestigio di Xi Jinping sia sul fronte interno sia sul palcoscenico internazionale, dove Pechino si presenta come alternativa agli Stati Uniti.

Negli ultimi giorni il potere cinese ha costruito una narrazione per la popolazione del paese. La mattina del 7 aprile l’editoriale del Quotidiano del popolo, organo ufficiale del partito, letto in tutto il paese, ha scelto toni rassicuranti. “Il cielo non ci cadrà addosso”, ha scritto con linguaggio poetico.

Il governo di Pechino sottolinea che tra il 2018 e il 2024 le esportazioni verso gli Stati Uniti sono passate dal 19 al 14 per cento del totale, ricordando maliziosamente che alcuni componenti o minerali che gli Stati Uniti importano dalla Cina non possono essere facilmente reperiti sul mercato internazionale. Il Partito comunista assicura che la crisi era prevista e che la Cina saprà superarla. “Siamo forti e resistenti”, dice l’editoriale del Quotidiano del popolo.

Ma in realtà questo sfoggio di fiducia è solo una strategia per evitare di creare il panico nell’opinione pubblica. Lo dimostra il fatto che la censura è stata implacabile nei confronti di chiunque abbia osato criticare la strategia del governo.

Un economista cinese, che aveva addirittura definito le ritorsioni di Pechino “tanto stupide” quanto i dazi statunitensi, ha pagato con la chiusura del suo centro di ricerca e la cancellazione dei suoi post online. Non esattamente la reazione di un paese sicuro di sé.

Xi Jinping, che da settimane si preparava allo scontro, ha incontrato gli imprenditori del settore privato cinese (compreso il famoso Jack Ma, uscito dal suo purgatorio) per discutere della situazione, e nel frattempo ha stanziato somme enormi per stimolare la domanda interna.

La Cina vuole apparire ragionevole davanti a una figura instabile come Trump, lanciando un messaggio destinato al resto del mondo e soprattutto agli europei. In questa crisi sta emergendo una grande opportunità per Pechino, a condizione di reggere l’onda d’urto economica, e soprattutto di non cedere alle pressioni di Washington.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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