Novantadue anni fa, la mattina di lunedì 30 gennaio 1933, in Germania Adolf Hitler fu nominato cancelliere, il quindicesimo della repubblica di Weimar. In una delle trasformazioni politiche più sbalorditive della storia della democrazia, Hitler cominciò a distruggere una repubblica costituzionale con mezzi costituzionali. Quella che segue è una ricostruzione passo dopo passo di come Hitler mutilò sistematicamente e poi smantellò le strutture e i meccanismi democratici del suo paese in meno di due mesi: per la precisione, un mese, tre settimane, due giorni, otto ore e 40 minuti. I minuti, come vedremo, sono importanti.

Hans Frank fu l’avvocato privato e il responsabile della strategia legale di Hitler. Mentre aspettava di essere giustiziato a Norimberga per la sua complicità nelle atrocità naziste, Frank sottolineò la sorprendente capacità del suo cliente di capire “la potenziale debolezza intrinseca di ogni aspetto formale della legge” e di sfruttare in modo spietato quella debolezza. Dopo il fallito colpo di stato di Monaco del novembre 1923, Hitler aveva rinunciato a rovesciare la repubblica con mezzi violenti, ma non a distruggere il sistema democratico del paese, una determinazione che confermò in un “giuramento di legalità” di fronte alla corte costituzionale nel settembre del 1930. Invocando l’articolo 1 della costituzione tedesca, Hitler informò la corte che una volta ottenuto il potere con mezzi legali, intendeva plasmare il governo a suo piacimento. Era un’affermazione incredibilmente sfacciata.

In una delle trasformazioni politiche più sbalorditive della storia, Hitler cominciò a distruggere una repubblica costituzionale con mezzi costituzionali

“Quindi, attraverso mezzi costituzionali?”, chiese il presidente della corte.

Jawohl!”, rispose Hitler.

Nel gennaio del 1933, le debolezze della repubblica – la cui costituzione regolava in 181 articoli le strutture e il funzionamento dei 18 stati federati – erano tanto ovvie quanto numerose. Dopo dieci anni all’opposizione, Hitler sapeva per esperienza diretta quanto fosse facile affossare un programma politico. Per anni aveva reclutato o schiacciato i suoi avversari a destra e paralizzato l’attività legislativa, e negli ultimi otto mesi aveva fatto ostruzionismo parlamentare contribuendo alla caduta di tre cancellieri e costringendo due volte il presidente a sciogliere il parlamento e a convocare nuove elezioni.

Diventato a sua volta cancelliere, Hitler voleva impedire agli altri di fare a lui quello che lui aveva fatto in passato. I voti del Partito nazionalsocialista erano in crescita: le elezioni del settembre 1930, dopo il crollo della borsa del 1929, avevano aumentato di nove volte i suoi seggi al Reichstag, il parlamento tedesco, facendoli passare da 12 a 107, e le elezioni del luglio 1932 li avevano più che raddoppiati, arrivando a 230. Ma il partito era ancora lontano dalla maggioranza. Aveva il 37 per cento dei seggi, e la coalizione di destra di cui faceva parte controllava a stento il 51 per cento. Hitler, tuttavia, era convinto di dover esercitare il potere assoluto: “Il 37 per cento rappresenta il 75 per cento del 51 per cento”, disse a un giornalista statunitense, sottintendendo che avere la maggioranza relativa di una maggioranza semplice fosse sufficiente a garantirgli un’autorità assoluta. Hitler, tuttavia, sapeva che in un sistema politico multipartitico, con coalizioni variabili, il suo calcolo politico non era così semplice da mettere in pratica. Per la sua sopravvivenza politica era cruciale una Ermächtigungsgesetz (legge dei pieni poteri), ma per approvare una legge simile serviva la maggioranza dei due terzi di un Reichstag fortemente diviso per smantellare la separazione di poteri, attribuire all’esecutivo l’autorità di emanare leggi senza l’approvazione del parlamento e permettere a Hitler di governare per decreto scavalcando le istituzioni democratiche e la costituzione.

La cosa si dimostrò più difficile del previsto. Hitler vide sfumare le sue ambizioni dittatoriali nelle prime sei ore da cancelliere. Alle 11.30 di quel lunedì mattina giurò fedeltà alla costituzione, poi attraversò la strada per andare a pranzo all’hotel Kaiserhof, quindi tornò alla cancelleria del Reich per una foto di gruppo del governo e per tenere il primo consiglio ufficiale con i suoi nove ministri, previsto alle cinque in punto del pomeriggio.

Hitler aprì il consiglio vantandosi che milioni di tedeschi avevano accolto con “giubilo” il suo cancellierato, poi illustrò il suo piano per epurare i funzionari chiave dello stato e sostituirli con i suoi fedelissimi. Quindi passò al punto principale all’ordine del giorno: la legge dei pieni poteri che, sosteneva, gli avrebbe dato il tempo (quattro anni, secondo le condizioni stabilite nella bozza) e l’autorità necessaria per rispettare le promesse fatte in campagna elettorale di rilanciare l’economia, ridurre la disoccupazione, aumentare la spesa militare, ritirarsi dai trattati internazionali, purgare il paese dagli stranieri che secondo lui stavano “avvelenando” il sangue della nazione e vendicarsi degli avversari politici. “Le teste rotoleranno nella sabbia”, aveva giurato Hitler durante un comizio.

Ma dato che i socialdemocratici e i comunisti controllavano complessivamente 221 seggi sui 584 del Reichstag (circa il 38 per cento) raggiungere la maggioranza dei due terzi che serviva a Hitler era matematicamente impossibile. “Se mettessimo fuorilegge il Partito comunista e annullassimo i loro voti”, propose Hitler, “sarebbe possibile avere la maggioranza”.

Il problema, continuò, era che questo avrebbe quasi certamente provocato uno sciopero nazionale dei sei milioni di comunisti tedeschi, che a sua volta avrebbe portato al collasso l’economia del paese. In alternativa, le percentuali al Reichstag potevano essere riequilibrate convocando nuove elezioni. “Cos’è peggio per l’economia?”, chiese. “Le incertezze e le preoccupazioni legate a nuove elezioni o uno sciopero generale?”. Le elezioni, concluse, erano la strada più sicura.

Il ministro dell’economia Alfred Hugenberg non era d’accordo. In definitiva, sosteneva, per ottenere la maggioranza dei due terzi al Reichstag non c’era altro modo che dichiarare fuorilegge il Partito comunista. Naturalmente, Hugenberg aveva i suoi motivi personali per opporsi a nuove elezioni: a quelle precedenti, i suoi nazionalisti tedeschi avevano sottratto 14 seggi ai nazionalsocialisti di Hitler e il suo partito era un alleato indispensabile del governo di coalizione. Con nuove elezioni il partito rischiava di perdere seggi e potere.

Davide Bonazzi

Quando Hitler chiese di valutare la possibilità di ricorrere all’esercito per reprimere eventuali disordini pubblici, il ministro della difesa Werner von Blomberg scartò subito l’idea, osservando che “i soldati erano stati addestrati per considerare un nemico esterno come unico potenziale avversario”. Per un ufficiale di carriera come Blomberg era inconcepibile che si ordinasse ad altri militari tedeschi di sparare ai cittadini tedeschi per le strade tedesche in difesa del governo di Hitler o di un qualsiasi altro governo tedesco.

Hitler, che in campagna elettorale aveva promesso di bonificare la “palude parlamentare” – den parlamentarischen Sumpf – stava sprofondando in un pantano d’interessi politici di parte e si scontrava con le barriere della costituzione. Reagì come faceva sempre quando si trovava di fronte opinioni discordi e verità scomode: ignorandole e tirando dritto per la sua strada.

Il giorno seguente, annunciò nuove elezioni, che si sarebbero tenute a marzo, ed emanò un memorandum per i leader del suo partito: “Dopo una battaglia di tredici anni, il movimento nazionalsocialista è riuscito ad andare al governo, ma la battaglia per conquistare la nazione tedesca è solo all’inizio”, proclamò. Poi aggiunse velenosamente: “Il Partito nazionalsocialista sa che il nuovo governo non è nazionalsocialista, anche se è consapevole che porta il nome del suo leader, Adolf Hitler”. Era una dichiarazione di guerra al suo stesso governo.

Siamo abituati a considerare la nomina di Hitler a cancelliere come parte di un’inevitabile ascesa al potere, un’impressione condivisa da generazioni di studiosi del dopoguerra che, necessariamente, ha in gran parte marginalizzato o trascurato le alternative alla versione convenzionale della presa del potere nazista (Machtergreifung), con le sue persecuzioni politiche e sociali, l’affermazione del governo totalitario (Gleichschaltung) e le successive aggressioni che portarono alla seconda guerra mondiale e all’incubo dell’Olocausto. Nelle ricerche per questo articolo e nella sua stesura, ho ignorato i punti di arrivo e ho ripercorso gli eventi per come si sono svolti in tempo reale, con tutte le incertezze e gli errori di valutazione. Un esempio su tutti: l’articolo del New York Times sulla nomina a cancelliere di Hitler del 31 gennaio 1933 era intitolato “Hitler mette da parte l’obiettivo di diventare dittatore”.

Alla fine degli anni ottanta, , appena laureato a Harvard, ero assistente a un corso su Weimar e la Germania nazista. Alll’epoca citavo spesso un’osservazione di Hans Frank a Norimberga che sottolineava la fragilità della carriera politica di Hitler: “Il Führer è stato possibile in Germania solo in quel preciso momento”, ricordava lo stratega giuridico nazista. “È arrivato esattamente in un terribile periodo di transizione, in cui la monarchia non c’era più e la repubblica non era ancora stabile”. Se il predecessore di Hitler alla cancelleria, Kurt von Schleicher, fosse rimasto in carica per altri sei mesi o se il presidente tedesco Paul von Hindenburg avesse esercitato i suoi poteri costituzionali con più giudizio o se un gruppo di conservatori moderati del Reichstag avesse votato altrimenti, la storia avrebbe potuto prendere un corso molto diverso. Il mio ultimo libro, Take­over: Hitler’s final rise to power (“La presa: l’ascesa finale di Hitler al potere”, 2024), si conclude quando comincia la storia che racconto in questo articolo. Mi sono reso conto che sia la salita al cancellierato di Hitler sia la sua distruzione delle barriere costituzionali una volta arrivato al potere sono state frutto della situazione politica del momento, più che dell’inevitabilità storica.

La nomina di Hitler a cancelliere della prima repubblica democratica della storia della Germania fu una sorpresa tanto per lui quanto per il resto dei tedeschi. Dopo tre anni di vertiginosa ascesa politica, aveva preso una batosta alle elezioni di novembre del 1932, perdendo due milioni di voti e 34 seggi, quasi la metà dei quali ceduti ai nazionalisti di Hugenberg. A dicembre del 1932, il movimento di Hitler era finanziariamente, politicamente e ideologicamente in bancarotta. Hitler disse a diversi stretti collaboratori che stava contemplando il suicidio.

A quel punto, però, una serie di accordi sottobanco, tra cui la sorprendente destituzione del cancelliere Schleicher in un weekend di fine gennaio del 1933, proiettarono Hitler verso la cancelleria. Successivamente, Schleicher ricordò che Hitler gli disse: “È incredibile come nella vita io sia sempre stato salvato quando avevo perso tutte le speranze”.

La nomina a cancelliere aveva un prezzo politico molto salato. Hitler, nella sua inaspettata corsa al potere, aveva sacrificato quasi tutti i suoi luogotenenti più fedeli. Peggio ancora, si ritrovava con dei ministri scelti personalmente da un suo nemico politico, l’ex cancelliere Franz von Papen, di cui aveva fatto cadere il governo e che ora era il suo vicecancelliere. E, cosa peggiore in assoluto, era ostaggio di Hugenberg, che controllava 51 voti al Reichstag e aveva potere di vita e di morte sul cancellierato. Infatti per poco non riuscì a farlo cadere.

Quel lunedì mattina di gennaio del 1933 il presidente Hindenburg aspettava di ricevere Hitler, che intanto si stava scontrando con Hugenberg sulla questione delle nuove elezioni del Reichstag. “Nein! Nein! Nein!”, era la posizione di Hugenberg. Mentre i due litigavano nell’anticamera dell’ufficio presidenziale, Hindenburg, ex eroe militare della prima guerra mondiale e presidente della repubblica dal 1925, stava cominciando a spazientirsi. Secondo Otto Meiss­ner, il capo dell’ufficio della presidenza, se la discussione fosse proseguita ancora per qualche minuto, Hindenburg se ne sarebbe andato. La coalizione precaria messa insieme da Papen nelle 48 ore precedenti sarebbe crollata. Non ci sarebbe stato nessuno cancellierato di Hitler, nessun terzo Reich.

Alla fine, a Hitler furono lasciati solo due ministeri, e nessuno dei più importanti come l’economia, la politica estera o la difesa. Hitler scelse Wilhelm Frick come ministro dell’interno e Hermann Göring come ministro senza portafoglio. Con il suo infallibile istinto per individuare le debolezze delle strutture e dei sistemi, li mise tutti e due al lavoro per scardinare i pilastri fondamentali della repubblica: la libertà di espressione, il giusto processo, il referendum popolare e i diritti degli stati.

Davide Bonazzi

Frick era responsabile dell’ordinamento federale della repubblica, oltre che del sistema elettorale del paese e della stampa. Fu il primo tra i ministri a svelare piani del governo di Hitler: “Presenteremo una legge che in accordo con la costituzione scioglierà il governo del Reich”, disse Frick alla stampa, spiegando che gli ambiziosi piani del cancelliere per il paese imponevano misure estreme, una posizione che Hitler ribadì nel suo primo discorso nazionale alla radio il 1 febbraio. “Il governo nazionale considererà quindi come suo primo e supremo compito quello di restituire al popolo tedesco unità di spirito e di volontà”, disse Hitler. “Preserveremo e difenderemo le fondamenta su cui poggia la forza della nostra nazione”.

Il ministro dell’interno fu incaricato anche di reprimere la stampa di opposizione e di centralizzare il potere a Berlino. Mentre Wilhelm Frick erodeva i diritti degli stati e metteva fuorilegge i giornali di sinistra – tra cui il quotidiano comunista Die Rote Fahne (La bandiera rossa) e il socialdemocratico Vorwärts (Avanti) – Hitler nominò Göring anche ministro dell’interno della Prussia, lo stato federato che rappresentava i due terzi del territorio tedesco. Göring fu incaricato di epurare la polizia di stato prussiana, la più grande forza di sicurezza del paese dopo l’esercito e un baluardo della socialde­mocrazia.

Rudolf Diels era il capo della polizia politica prussiana. Un giorno, all’inizio di febbraio, si trovava nel suo ufficio quando Göring bussò alla sua porta e gli disse senza mezzi termini che era arrivato il momento di fare piazza pulita: “Non voglio avere niente a che fare con queste canaglie che se ne stanno sedute a poltrire qui in giro”.

Seguì lo Schiesserlass, “ordine di fare fuoco”, un provvedimento che autorizzava la polizia di stato a sparare a vista senza paura delle conseguenze. “I poliziotti non possono dare la caccia alla marmaglia rossa se devono preoccuparsi dei provvedimenti disciplinari quando stanno semplicemente facendo il loro lavoro”, spiegò Göring, dando la sua autorizzazione a sparare impunemente. “Quando sparano, sono io a sparare”, disse Göring. “Quando qualcuno è steso a terra morto, sono io che gli ho sparato”.

Un’altra sua iniziativa fu assegnare alle truppe d’assalto naziste il ruolo di polizia ausiliaria, obbligando lo stato a dare una pistola agli squadristi in camicia bruna e a investirli della stessa autorità della polizia. Diels successivamente osservò che manipolare la legge per piegarla ai suoi fini e legittimare la violenza e gli eccessi di decine di migliaia di camicie brune era “una tattica ben collaudata di Hitler”.

Mentre il cancelliere si affrettava a mettere al sicuro il potere e a schiacciare l’opposizione, cominciarono a circolare voci sulla caduta imminente del suo governo. Qualcuno sosteneva che Schleicher, il cancelliere da poco deposto, stava progettando un colpo di stato militare. Secondo un’altra voce Hitler era un giovane campagnolo austriaco al servizio dell’aristocrazia tedesca, una marionetta di Papen. Altri ancora sostenevano che era solo un uomo di paglia di Hugenberg e di un gruppo di industriali che volevano smantellare le tutele del lavoro per aumentare i profitti (si diceva che l’industriale Otto Wolff fosse “passato all’incasso” per le sue donazioni al movimento di Hitler). Secondo un’altra voce ancora il cancelliere stava semplicemente gestendo un governo di transizione mentre il presidente Hindenburg, fervente monarchico, preparava il ritorno del Kaiser.

Non c’era molto di vero in nessuna di queste voci, ma Hitler aveva il problema politico concreto di tenere fede alle promesse fatte in campagna elettorale agli elettori tedeschi. Il giornale comunista Die Rote Fahne pubblicò una lista delle promesse ai lavoratori, e il partito di centro chiese pubblicamente rassicurazioni sul sostegno di Hitler al settore agricolo, sulla lotta all’inflazione, la rinuncia a “esperimenti politico-finanziari” e il rispetto della costituzione di Weimar. Nel frattempo, la delusione dei sostenitori di destra, che in precedenza avevano applaudito Hitler per la sua richiesta di poteri dittatoriali e il rifiuto di entrare in una coalizione, si sintetizzava in un’osservazione lapidaria: “Non è il terzo Reich, neanche il secondo e mezzo”.

Il 18 febbraio 1933, il giornale di centrosinistra Vossische Zeitung scrisse che nonostante le promesse della campagna elettorale, per il tedesco medio non era cambiato nulla. Semmai le cose erano peggiorate. La promessa di Hitler di raddoppiare i dazi sulle importazioni di grano si era arenata per una serie di complicazioni e di obblighi contrattuali. In consiglio dei ministri, Hugenberg informò il cancelliere che le “condizioni economiche catastrofiche” stavano minacciando “l’esistenza stessa del paese”. Alla fine, scriveva la Vossische Zeitung, “la sopravvivenza del nuovo governo non dipenderà dalle parole ma dalle condizioni economiche”. Nonostante tutti i bei discorsi di Hitler sul Reich millenario, non c’era alcuna certezza che il governo sarebbe durato fino alla fine del mese.

Negli otto mesi prima della nomina di Hitler, il presidente Hindenburg aveva sollevato dall’incarico altri tre cancellieri – Heinrich Brüning, Papen e Schleicher – esercitando l’autorità riconosciuta dall’articolo 53 della costituzione. Il suo disprezzo per Hitler era noto a tutti. Ad agosto aveva dichiarato pubblicamente che “per l’amore di Dio, della mia coscienza e del paese” non avrebbe mai nominato Hitler cancelliere. Privatamente, aveva detto scherzando che se avesse dovuto dargli un ruolo lo avrebbe nominato direttore generale delle poste, “così può leccarmi i francobolli”. A gennaio Hindenburg accettò finalmente di nominare Hitler, ma con grande riluttanza, e a condizione di non essere mai lasciato da solo nella stanza con il nuovo cancelliere. Alla fine di febbraio, la domanda che si facevano tutti, come scriveva Vorwärts, era “per quanto tempo ancora l’anziano generale sopporterà il suo caporale boemo?”.

L’articolo di Vorwärts, intitolato “Per quanto tempo?”, uscì la mattina di sabato 25 febbraio. Due giorni dopo, il lunedì sera, il Reichstag prese fuoco. Le fiamme fecero crollare la cupola di vetro della sala plenaria, illuminando il cielo notturno sopra Berlino. Alcuni testimoni avrebbero ricordato di aver visto l’incendio a sessanta chilometri di distanza. L’immagine della sede della democrazia parlamentare tedesca in fiamme scosse tutto il paese. I comunisti incolparono i nazionalsocialisti. I nazionalsocialisti incolparono i comunisti. Un comunista olandese di 23 anni, Marinus van der Lubbe, fu arrestato, ma il capo dei pompieri di Berlino, Walter Gempp, che aveva guidato l’operazione antincendio, trovò le prove di un probabile coinvolgimento nazista.

La mattina dopo, quando Hitler convocò il governo per discutere della crisi, dichiarò che l’incendio era chiaramente parte di un tentativo di colpo di stato comunista. Göring illustrò nel dettaglio i piani dei comunisti per altri attentati incendiari agli edifici pubblici, l’avvelenamento delle cucine pubbliche e il rapimento dei figli e delle mogli di autorità di primo piano. Il ministro dell’interno Frick presentò la bozza di un decreto di sospensione delle libertà civili che autorizzava perquisizioni e confische, e limitava i diritti degli stati durante un’emergenza nazionale.

Papen espresse la sua preoccupazione sul fatto che la proposta “potesse incontrare resistenze”, soprattutto dagli “stati del sud”, cioè la Baviera, seconda solo alla Prussia per dimensioni e potere. Magari, suggerì Papen, sarebbe stato il caso di discutere le misure proposte con i governi degli stati per ottenere “un accordo amichevole”, altrimenti avrebbero visto il provvedimento come un’usurpazione dei loro diritti. Alla fine, al testo fu aggiunta solo una parola per spiegare che la sospensione delle prerogative degli stati era dovuta a delle contingenze. Hindenburg firmò il decreto quel pomeriggio stesso.

Entrato in vigore appena una settimana prima delle elezioni di marzo, il decreto d’emergenza diede a Hitler l’enorme potere d’intimidire – e incarcerare – l’opposizione politica. Il Partito comunista fu dichiarato fuorilegge (come Hitler voleva fin dal primo consiglio dei ministri), i giornalisti della stampa d’opposizione furono arrestati e i loro giornali furono chiusi. Göring aveva cominciato i rastrellamenti già da un mese, ma i tribunali avevano ordinato sistematicamente la scarcerazione dei detenuti. Con il decreto, i tribunali non potevano più intervenire. Migliaia di comunisti e socialdemocratici furono arrestati.

La mattina di domenica 5 marzo, una settimana dopo l’incendio del Reichstag, gli elettori tedeschi andarono alle urne. “Forse in nessun paese civile si sono mai tenute elezioni più strane”, scrisse quel giorno Frederick Birchall sul New York Times. Birchall espresse il suo sgomento per l’apparente volontà dei tedeschi di sottomettersi a un governo autoritario quando avevano l’opportunità di un’alternativa democratica. “In qualsiasi comunità americana o anglosassone la risposta sarebbe immediata e schiacciante”, scrisse.

Andarono alle urne più di quaranta milioni di tedeschi – due milioni in più che in qualsiasi tornata elettorale precedente – quasi pari all’89 per cento degli aventi diritto, una credibile dimostrazione di partecipazione democratica. “È dal 1871, quando è stato fondato il Reichstag, che non si registra un’affluenza al voto così alta”, scrisse la Vossische Zeitung. La maggior parte di quei due milioni di nuovi voti andò ai nazisti.

I nazionalsocialisti non raggiunsero il 51 per cento promesso da Hitler, fermandosi al 44 per cento – e nonostante la repressione a tappeto, i socialdemocratici presero solo un seggio al Reichstag – ma la messa al bando del Partito comunista metteva Hitler nella condizione di formare un governo con la maggioranza dei due terzi del Reichstag necessaria per approvare la legge dei pieni poteri.

Il giorno seguente, i nazionalsocialisti presero d’assalto gli uffici del governo in tutto il paese. Agli edifici pubblici furono appese le bandiere con la svastica. I politici dell’opposizione fuggirono per mettersi in salvo. Il leader dei socialdemocratici Otto Wels si rifugiò in Svizzera. Il ministro presidente della Baviera Heinrich Held fece lo stesso. Decine di migliaia di oppositori politici furono messi in “custodia cautelare”, una forma di detenzione in cui una persona poteva essere trattenuta senza giusta causa a tempo indeterminato.

Hindenburg rimase in silenzio. Non chiese spiegazioni al cancelliere per gli eccessi di violenza pubblica contro i comunisti, i socialdemocratici e gli ebrei. Non esercitò i poteri che gli dava la costituzione. Firmò invece un decreto che permetteva di esporre la bandiera con la svastica nazista accanto a quella con i colori nazionali. Poi acconsentì alla richiesta di Hitler di creare un nuovo ministero, quello dell’istruzione pubblica e della propaganda, che fu prontamente affidato a Joseph Goebbels. “Che grande fortuna per noi sapere che questo vecchio uomo maestoso è con noi”, scrisse Goebbels nel suo diario parlando di Hindenburg, “e che cambio di sorte, ora che ci muoviamo insieme sullo stesso sentiero”.

Una settimana dopo, il sostegno di Hindenburg a Hitler fu formalizzato in pubblico. Il presidente apparve in divisa militare in compagnia del suo cancelliere, che indossava un vestito scuro e un cappotto lungo, durante una cerimonia a Potsdam. Si strinsero la mano e Hitler s’inchinò in segno di apparente deferenza. La “giornata di Potsdam” segnò la fine di ogni speranza di mettere fine al cancellierato di Hitler invocando la costituzione.

Quello stesso giorno, martedì 21 marzo, fu emanato un decreto che concedeva l’amnistia ai nazionalsocialisti detenuti per i reati – compreso l’omicidio – commessi “nella battaglia per il rinnovamento nazionale”. Uomini condannati per tradimento erano diventati improvvisamente eroi nazionali. Sempre quel pomeriggio fu aperto il primo campo di concentramento, in una vecchia distilleria vicino al centro di Oranienburg, appena a nord di Berlino. Il giorno seguente, il primo gruppo di detenuti arrivò a un altro campo di concentramento, in una fabbrica di munizioni abbandonata alla periferia della cittadina bavarese di Dachau.

Il piano per escludere legalmente gli ebrei dalle professioni legali e mediche, oltre che dagli uffici pubblici, era già in atto, ma la promessa di Hitler di deportare in massa i centomila immigrati ebrei dell’Europa dell’est, i cosiddetti Ostjuden, si stava dimostrando molto più complicato. Molti avevano la cittadinanza tedesca e un lavoro regolare. La paura della deportazione scatenò una corsa agli sportelli in alcune banche locali, cosa che gettò nel panico le altre banche e le imprese. I conti dei correntisti ebrei furono congelati finché, spiegò un funzionario, “non avranno regolato i loro obblighi nei confronti degli imprenditori tedeschi”. Hermann Göring, presidente del Reichstag appena eletto, cercò di calmare le acque, rassicurando i cittadini tedeschi di origine ebraica che avrebbero mantenuto la stessa “protezione legale della persona e della proprietà” di tutti gli altri cittadini. Quindi si scagliò contro la comunità internazionale: gli stranieri non dovevano interferire con gli affari interni del paese. La Germania avrebbe fatto con i propri cittadini tutto ciò che riteneva opportuno.

Giovedì 23 marzo, i delegati del Reichstag si riunirono nel teatro dell’opera Kroll, proprio di fronte alle rovine carbonizzate del Reichstag. Il lunedì seguente, la tradizionale aquila del Reich era stata rimossa e sostituita da un’enorme aquila nazista drammaticamente illuminata da dietro, con le ali spiegate e una svastica negli artigli. Hitler, vestito nell’uniforme bruna delle truppe d’assalto con la svastica al braccio, arrivò in aula per il discorso sulla proposta di legge dei pieni poteri, ora formalmente intitolata “legge a rimedio dell’afflizione sofferta dal popolo e dal Reich”. Alle 16.20 salì sul podio. Sembrando insolitamente a disagio, sfogliò alcune pagine e cominciò balbettando a leggere un testo preparato. Solo dopo un po’ cominciò a riprendere il suo consueto stile retorico animato. Elencò i fallimenti della repubblica di Weimar, poi illustrò a grandi linee i suoi piani per i quattro anni di pieni poteri che gli dava la legge, dandosi l’obiettivo, tra gli altri, di rimettere la Germania al pari delle altre grandi potenze militari e di riportare la stabilità economica e sociale in patria. “Il tradimento verso la nostra nazione e il nostro popolo in futuro sarà estirpato con spietata barbarie”, giurò Hitler.

La seduta al Reichstag fu sospesa per deliberare sulla legge. Quando i parlamentari si riunirono di nuovo, alle 18.15, prese la parola Otto Wels, il leader socialdemocratico che era tornato dal suo esilio in Svizzera per sfidare Hitler di persona, nonostante le minacce alla sua incolumità. Appena cominciò a parlare, Hitler si mosse per alzarsi. Papen gli mise una mano sul polso per tenerlo a bada.

“In quest’ora storica, noi socialdemocratici tedeschi giuriamo fedeltà ai princìpi di umanità e giustizia, di libertà e socialismo”. Wels rimproverò Hitler per il suo tentativo d’indebolire la repubblica di Weimar e per l’odio e le divisioni che aveva seminato. Nonostante i mali che il cancelliere era determinato a infliggere al paese, dichiarò Wels, i valori democratici fondanti della repubblica avrebbero resistito: “Nessuna legge vi dà il potere di distruggere idee che sono eterne e indistruttibili”, disse.

Hitler si alzò in piedi. “Le graziose teorie che voi, signor deputato, avete appena esposto sono parole che giungono un po’ troppo tardi per la storia del mondo”, esordì. Respinse le accuse di essere in qualsiasi modo una minaccia per il paese. Ricordò a Wels che i socialdemocratici avevano avuto tredici anni per affrontare i problemi che contavano davvero per il popolo tedesco: occupazione, stabilità, dignità. “Dov’era questa battaglia durante il tempo in cui avete avuto il potere nelle vostre mani?”, chiese Hitler. I delegati nazionalsocialisti e alcuni osservatori dai loggioni esultarono. Il resto dei delegati rimase immobile. Alcuni si alzarono in piedi per esprimere le loro preoccupazioni e le loro posizioni sulla proposta di legge.

I centristi, e con loro i rappresentanti del Partito popolare bavarese, dissero di essere disposti a votare sì nonostante alcune riserve “che in tempi normali difficilmente si potrebbero superare”. Reinhold Maier, il leader del Partito dello stato tedesco, espresse preoccupazione per le sorti dell’indipendenza della magistratura, del giusto processo, della libertà di stampa e della parità di tutti i cittadini di fronte alla legge e disse di avere “gravi riserve” sul concedere poteri dittatoriali a Hitler. Poi, però, annunciò che anche il suo partito avrebbe votato a favore della legge, tra le risate dell’emiciclo.

Le votazioni si conclusero poco prima delle otto di sera. I 94 deputati socialdemocratici votarono contro la legge (tra loro c’era l’ex ministro dell’interno della Prussia, Carl Severing, arrestato prima di essere eletto al Reichstag e temporaneamente rilasciato per permettergli di votare). I restanti deputati del Reich­stag, 441 in tutto, votarono a favore della nuova legge, assicurando a Hitler una maggioranza dei quattro quinti, più che sufficiente a far approvare il testo senza emendamenti o limitazioni. La mattina seguente, l’ambasciatore statunitense Frederic Sackett inviò un telegramma al dipartimento di stato: “Sulla base di questa legge il governo Hitler può ricostruire l’intero sistema di potere, perché elimina praticamente tutti i vincoli costituzionali”.

Joseph Goebbels, che quel giorno era presente come deputato nazionalsocialista al Reichstag, più tardi si meravigliò che i nazisti fossero riusciti a smantellare una repubblica costituzionale con mezzi interamente costituzionali. Sette anni prima, nel 1926, dopo essere stato eletto al Reichstag tra i primi dodici deputati nazionalsocialisti, era rimasto ugualmente colpito: si era stupito che a lui e a questi altri undici uomini (tra cui Hermann Göring e Hans Frank) seduti in un’unica fila ai margini dell’emiciclo, con le loro uniformi brune e le svastiche al braccio – nemici dichiarati della repubblica di Weimar – fossero stati dati biglietti di prima classe in treno e buoni pasto, oltre alla facoltà di distruggere, ostruire e paralizzare a loro piacimento le strutture e i meccanismi democratici. “La grande beffa della democrazia”, osservò, “è che fornisce ai suoi nemici mortali i mezzi della sua stessa distruzione”. ◆ fas

Timothy W. Ryback è uno storico. È direttore dell’Institute for historical justice and reconciliation all’Aja. Ha scritto diversi libri sulla Germania di Hitler. In Italia è uscito La biblioteca di Hitler (Mondadori 2008). Questo articolo è uscito sul mensile statunitense Atlantic con il titolo “How Hitler dismantled a democracy in 53 days”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1608 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati