Il 27 marzo sono stati annunciati i vincitori regionali del World press photo, il premio più importante per il fotogiornalismo. Tra i lavori premiati, presentati anche su Internazionale, ci sono quelli di due fotografi colombiani, entrambi di Medellín, capoluogo del dipartimento di Antioquia: Federico Ríos ha vinto nella categoria progetti a lungo termine e Santiago Mesa nella categoria storie Sudamerica. Intitolato Paths of desperate hope, il progetto di Ríos ha documentato per alcuni anni il pericoloso viaggio intrapreso da migranti afgani, cinesi, venezuelani, haitiani ed ecuadoriani attraverso il Tapón del Darién (Tappo del Darién), la giungla infestata da animali feroci e controllata da gruppi criminali che separa la Colombia dal sud di Panamá.
Dal 2021 a oggi più di un milione di persone ha attraversato questa foresta, compresi molti bambini sotto i cinque anni. Chi sopravvive cerca di continuare il viaggio verso nord, attraversando il Messico per raggiungere gli Stati Uniti. Secondo la giuria il fotografo, che in più di un’occasione ha camminato insieme a famiglie e gruppi di migranti, “ha dato un volto a chi va in cerca di una vita migliore, umanizzando le loro storie. Le foto testimoniano anche le difficoltà personali e ambientali che i migranti affrontano e allo stesso tempo mostrano la speranza e la disperazione che spingono famiglie intere a non fermarsi. Ogni scatto restituisce la diversità delle persone nel Darién e la dura realtà della traversata, trasformandola in una storia esemplare della migrazione internazionale”.
Intervistato dal quotidiano El Colombiano, Ríos ha spiegato che per selezionare trenta immagini da inviare al World press photo ne ha visionate circa quarantamila. In questo delicato lavoro di scelta è stato fondamentale l’aiuto degli editor dei giornali con cui collabora e della giornalista del New York Times Julie Turkewitz con cui è sempre andato nel Darién. Ma, soprattutto, il merito è stato dei migranti, che gli hanno permesso “di accompagnarli e di fotografarli, condividendo le loro storie e le loro esperienza di vita anche se erano in una condizione di profonda vulnerabilità. È una fotografia molto umanitaria e di contatto. Quello che mi interessa è la storia delle persone”.
Di temi sociali si è sempre occupato anche Santiago Mesa, che per anni ha raccontato la violenza e le disuguaglianze della sua città natale, Medellín. Al World press photo è stato premiato il suo lavoro Jaidë, sul disagio che vivono le donne native emberá dopo il suicidio di un familiare. Queste comunità, che si sono stabilite soprattutto nei dipartimenti nordoccidentali del paese, hanno sofferto particolarmente durante il lungo conflitto civile colombiano: oltre agli scontri tra le multinazionali e i minatori locali per l’estrazione dell’oro, i territori degli emberá sono stati contesi per decenni dai combattenti delle organizzazioni guerrigliere delle Farc e dell’Eln, e dai paramilitari delle Autodifese unite della Colombia (Auc). Nel 2021 centinaia di nativi, in maggioranza emberá, sono fuggiti e sono arrivati a Bogotá, accampandosi in un parco della città in mezzo alle intemperie. Da allora, in seguito a dialoghi e trattative con le autorità comunali, alcuni hanno accettato un aiuto economico per tornare nei loro villaggi. Altri si sono rifiutati, perché le condizioni che li hanno spinti a scappare non sono state superate e nessuno oggi può garantirgli una vita sicura.
Come ha raccontato Mesa al País, il progetto ha cominciato a prendere forma durante la pandemia, quando il tema del suicidio è diventato di primo piano rompendo il muro di silenzio che lo circondava. Lui stesso in quel periodo ha affrontato un trattamento psichiatrico per superare una depressione. In quei mesi ha toccato con mano una realtà su cui non si era mai soffermato: in città una persona con disturbi mentali riesce in qualche modo ad avere accesso alle medicine o all’aiuto di un terapeuta, ma nelle comunità storicamente abbandonate dallo stato la situazione è più difficile.

Così, motivato dall’interesse di capire meglio cosa succede nelle zone del paese dove lo stato non è mai arrivato, il fotografo antioqueño ha visitato La Rioja, il principale centro della capitale dove sono accampati gli emberá in condizioni igieniche precarie e di grave sovraffollamento. È un’isola dentro la città che soffre degli stessi mali del territorio originario delle comunità native, in particolare del dipartimento del Chocó: abbandono, violenza e razzismo. Nella Rioja Mesa ha conosciuto due ragazze trans che avevano cercato di uccidersi: “Quell’edificio per loro era come una prigione, un luogo senza opportunità in cui erano discriminate per la loro identità di genere”.
Poi, lavorando nel Chocó e con gli emberá per circa un mese, è stato testimone del senso di colpa e della vergogna che vivono le famiglie dove una persona si suicida.
La convivenza con gli emberá lo ha aiutato a superare alcuni dei suoi stessi pregiudizi: “Prima credevo che bisognasse far arrivare più psicologi e psichiatri nelle comunità. Ora dubito che la soluzione sia portare più persone bianche in territori dove ci sono medici locali e processi di cura già avviati. Gli emberá hanno una visione del mondo molto diversa dalla nostra, parlano di spiriti e si curano con preghiere, danze e lavorando la terra. È complicato cercare di capirli senza cambiare il nostro modo di vedere le cose o senza volerli ‘salvare’”.
Inoltre il fotografo si è reso conto che l’aumento dei suicidi non è legato solo alla violenza che storicamente hanno subìto le popolazioni native, ma a un maschilismo diffuso in tutte le comunità emberá. Molte donne subiscono violenze dai mariti e le stesse dinamiche si ripetono nelle famiglie accampate a Bogotá: “Gli abusi contro le donne”, ha detto Mesa, “sono state una costante di tutta la mia inchiesta fotografica”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Sudamericana.
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