Gli arresti che fanno vacillare l’accordo di pace in Sud Sudan

Il presidente sudsudanese Salva Kiir al suo arrivo nella sede dell’Unione africana, ad Addis Abeba, in Etiopia, il 17 febbraio 2024. - Michele Spatari, Afp
Il presidente sudsudanese Salva Kiir al suo arrivo nella sede dell’Unione africana, ad Addis Abeba, in Etiopia, il 17 febbraio 2024. (Michele Spatari, Afp)

In Sud Sudan, il paese più giovane del mondo, stanno per finire sette anni di relativa calma? È quello che si chiedono molti giornalisti e analisti dopo gli eventi delle ultime settimane. Il 4 marzo una milizia chiamata Esercito bianco, formata in gran parte da giovani di etnia nuer, ha attaccato una base dell’esercito a Nasir, nello stato dell’Alto Nilo, nel nordest del paese.

A quel punto le autorità hanno arrestato una ventina di persone legate al primo vicepresidente Riek Machar – tra cui un generale, il ministro del petrolio e alcuni alti esponenti del suo partito, il Movimento popolare di liberazione del Sudan in opposizione (Splm-io) – con l’accusa di aver alimentato le violenze. Machar è di etnia nuer, così come i giovani miliziani dell’Esercito bianco. Lo stesso giorno la casa di Machar a Juba è stata circondata da soldati governativi. Tre giorni dopo un elicottero della missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan (Unmiss) è stato colpito a Nasir, durante un’operazione di soccorso dei soldati governativi accerchiati dai ribelli. Nell’incidente e negli scontri a fuoco tra esercito e ribelli sono morte almeno sette persone, tra cui un generale.

Un patto fragile

Il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza dal Sudan nel 2011, a seguito di un lungo conflitto contro le forze di Khartoum. Nel 2013, dopo appena due anni, le tensioni tra i due principali gruppi politici sono sfociate in una guerra civile tra i combattenti fedeli al presidente Salva Kiir e quelli vicini a Machar, entrambi vecchi esponenti di primo piano del movimento di liberazione Splm ai tempi della seconda guerra civile sudanese (1983-2005) e da sempre protagonisti della politica del paese, come apertamente avversari o collaboratori riluttanti.

Si calcola che quel conflitto abbia causato quattrocentomila morti. Nel 2018 le due parti hanno firmato un accordo di pace che ha portato, due anni dopo, alla formazione di un governo di unità nazionale. Ma la situazione rimane precaria.

L’accordo è sempre stato fragile, sostiene Rfi, e non è mai stato pienamente applicato: non è stato creato un esercito nazionale unitario né si è allentata la rivalità tra Kiir, di etnia dinka, e il nuer Machar. Tuttavia, per la ricercatrice francese Emmanuelle Veillet, intervistata da Rfi, la crisi attuale va oltre lo scontro tra Kiir e Machar: “A 73 anni Kiir sa che la sua successione è un tema cruciale e il suo posto è ambito sia dall’opposizione sia da esponenti del suo stesso governo.

Negli ultimi mesi il presidente ha avviato una serie di epurazioni interne, rimuovendo generali che riteneva potenzialmente pericolosi o che potevano aspirare alla successione. Ora sembra applicare la stessa strategia all’Splm-io, per indebolirlo prima di un eventuale conflitto o transizione di potere”. In tutto questo non ha aiutato la guerra nel vicino Sudan, che ha privato Juba della sua principale fonte di reddito dopo il danneggiamento degli oleodotti che portano a nord il petrolio estratto nei campi sudsudanesi. Secondo un rapporto pubblicato dalla Banca mondiale, nel 2024 il 92 per cento dei sudsudanesi viveva in condizioni di povertà estrema.

Sullo sfondo resta sempre la disfunzionalità dello stato sudsudanese e delle sue forze di sicurezza, che sono ancora divise tra milizie in lotta tra loro. In una dichiarazione a Radio Tamazuj del 12 marzo i vescovi sudsudanesi hanno attribuito i problemi del paese all’enorme proliferazione delle armi e alla mancanza di fiducia tra le diverse comunità.

Come ricorda il giornalista statunitense Joshua Craze in un articolo per la Boston Review, “la guerra civile del 2013 si è inizialmente combattuta tra le forze nuer integrate nell’esercito sudsudanese e le milizie dinka, ma si è presto trasformata in un conflitto etnico su scala più ampia. L’accordo di pace del 2018 non ha cambiato la natura dell’organizzazione militare del paese, anzi ha rafforzato il dominio delle milizie all’interno dello stato. Il processo di riforma del settore della sicurezza, che doveva riunire i belligeranti in un esercito nazionale, ha avuto l’effetto opposto: ha fatto aumentare il numero di milizie.

Seguendo l’esempio del dittatore sudanese Omar al Bashir in Sudan, Kiir si è affidato a gruppi di milizie locali per mantenere il controllo su alcuni territori, ma tenendosi aperta la possibilità di negare la sua responsabilità nelle atrocità commesse dalle milizie per suo conto”. Nel Sud Sudan, ricorda Craze, “molti giovani, se non riescono a trovare impiego in un’organizzazione umanitaria, vedono come unica alternativa quella di unirsi a una milizia, contribuendo a perpetuare l’instabilità nel paese”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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