Nella raffica di dazi che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva annunciato il 2 aprile i paesi più poveri erano stati colpiti con eccessiva durezza. “Nella sua battaglia contro il resto del mondo, accusato di ‘imbrogliare’ gli Stati Uniti, Trump ha messo i paesi poveri sullo stesso piano delle economie più sviluppate. Anzi, forse li ha trattati ancora peggio”, scrive un editoriale di Le Monde che pubblichiamo sul numero di Internazionale in edicola questa settimana. Una settimana dopo aver creato scompiglio e affossato le borse di tutto il mondo, Trump ha fatto sapere che sospenderà per novanta giorni i dazi nei confronti di quei paesi che non hanno reagito con rappresaglie contro gli Stati Uniti.
Tra i tanti paesi poveri del mondo minacciati dalla guerra commerciale statunitense, uno in particolare starà tirando un temporaneo sospiro di sollievo. È il Lesotho, una piccola monarchia costituzionale sulle montagne, in un territorio di trentamila chilometri quadrati completamente circondato dal Sudafrica, con poco più di due milioni di abitanti e un pil di 2,1 miliardi di dollari (mille volte più piccolo di quello dell’Italia e 13mila volte inferiore a quello degli Stati Uniti). È un paese a reddito medio-basso, dove il 58 per cento della popolazione vive ancora in povertà e il 29 per cento è disoccupato.Nonostante questo, gli Stati Uniti avevano deciso di imporre una tassa del 50 per cento sulle importazioni dal Lesotho, una tra le più alte. Escludendo casi estremi come quello della Cina, dazi di simile entità erano stati decisi solo per Vietnam, Cambogia, Sri Lanka, Laos, Madagascar, Mauritius e Saint Pierre e Miquelon, un territorio francese al largo della costa est del Canada.
Come spiega l’articolo di Foreign Affairs che pubblichiamo in copertina di Internazionale questa settimana, le tariffe da applicare ai vari paesi sono state calcolate sulla base del deficit commerciale degli Stati Uniti con ciascun paese. Nel 2024 il Lesotho ha importato dagli Stati Uniti merci per tre milioni di dollari, ma ne ha esportate 240 milioni. Questa è la stortura che Trump vorrebbe correggere, ma senza tenere conto del fatto – fa notare un economista intervistato dal New York Times – che i basotho (gli abitanti del paese) non hanno un potere d’acquisto sufficiente a permettersi i prodotti statunitensi, visto che il reddito procapite annuale è di 975 dollari.
Ma cosa importano gli statunitensi dal Lesotho? Essenzialmente jeans e, in misura minore, diamanti e trote.
Il Lesotho è uno dei principali esportatori di prodotti tessili dell’Africa, superato solo da Sudafrica, Etiopia e Kenya. È un settore ben consolidato, racconta un articolo pubblicato da The Dial: “Le prime fabbriche di abbigliamento furono costruite negli anni ottanta, quando investitori di Taiwan che volevano evitare le sanzioni contro il Sudafrica dell’apartheid – pur continuando a sfruttare le sue strade e i suoi porti – decisero di aprire delle attività nel paese”. Il settore ha conosciuto una forte espansione dopo il 2000, quando il Lesotho è diventato uno dei paesi africani beneficiari dell’accordo commerciale African growth and opportunity act (Agoa), che in teoria resta in vigore fino al settembre di quest’anno e che permette di esportare alcuni prodotti sul mercato statunitense senza dazi o pagandoli in forma estremamente ridotta. Vent’anni fa le fabbriche tessili del Lesotho davano lavoro a 54mila persone, per almeno l’80 per cento donne. Dopo la pandemia di covid-19, i posti di lavoro nel tessile sono calati a circa 36mila, ma le fabbriche di tessuti e di abbigliamento restano comunque il secondo “datore di lavoro” nel paese dopo la pubblica amministrazione.
Questi impianti sono in gran parte di proprietà cinese o taiwanese, ma producono per conto di aziende statunitensi, tra cui marche famose di abbigliamento come Levi’s, Wrangler e Reebok. Si producono anche le polo della marca di abbigliamento da golf Greg Norman Collection, che fino a poco tempo fa erano vendute anche nei golf club di Trump. Quando a inizio marzo il presidente statunitense aveva liquidato il Lesotho come un paese “di cui nessuno aveva sentito parlare”, il sito sudafricano TimesLive aveva fatto notare l’incongruenza pubblicando l’immagine di una maglietta di questa marca con l’emblema Trump Golf e la scritta all’interno “Made in Lesotho”.
Anche se la minaccia dei dazi per il momento è rimandata, le autorità e gli economisti del paese africano hanno fatto previsioni molto cupe per il futuro del paese. Sentito da Le Monde, il professore di economia dell’Università nazionale del Lesotho, Ratjomose Machema, ha detto di temere un impatto “devastante” sull’economia, oltre che un calo dei ricavi delle esportazioni, visto che il Lesotho potrebbe perdere fino al 60 per cento delle sue imprese tessili.
Quelle di proprietà cinese, taiwanese e bangladese, che impiegano in tutto tra le 12mila e le 15mila persone, potrebbero decidere di spostare la produzione nel paese d’origine o in altri posti più convenienti, spiega Machema. E perdere 12mila posti di lavoro sarebbe un danno gravissimo per l’economia nazionale, dichiara al quotidiano francese il ministro degli esteri Lejone Mpotjoane.
Il 70 per cento dei basotho vive ancora nelle campagne, all’interno di famiglie che sono sostenute da donne. Molte di loro hanno affidato i figli ai nonni per andare lavorare nelle fabbriche tessili della capitale Maseru. “Se perderanno il lavoro, assisteremo a un aumento della povertà, dell’abbandono scolastico e della malnutrizione”, prevede Machema, che teme anche un aumento delle migrazioni illegali verso il Sudafrica.
Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.
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