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Il nuovo capolavoro di Clint Eastwood 

Giurato numero 2. (2024 Warner Bros. Ent.)

Arriva in sala Giurato numero 2, il nuovo film di Clint Eastwood. Un capolavoro, un’interrogazione morale lontana anni luce dal puritanesimo statunitense con i suoi bianchi e neri senza sfumature. E pertanto, nel contesto americano, un film provocatorio senza averne però la posa, profondamente disturbante su quale verità sia (ancora) possibile nella sempre più inconoscibile realtà di oggi e non solo distruttore di tutto quello che il sistema americano mitizza da sempre, come il suo sistema legale. Due ore scarse ma tese come un violino, per un film processuale fuori norma ma dalla fine scrittura, grazie anche a eccellenti interpreti (senza però nessuna grande star).

In contemporanea l’offerta cinematografica propone anche Il Gladiatore 2 dell’ottantaseienne Ridley Scott, meno curato e forte sul piano paesaggistico del suo Napoleon, ma anche meno pretenzioso (Scott non è Stanley Kubrick, che avrebbe voluto fare un colossal su Napoleone Bonaparte).Un film che veicola simbolicamente un messaggio opposto a quello della ben più discreta e meno spettacolare opera di Eastwood: la repubblica romana divisa in due alla fine viene riunita in una sola anima, al contrario delle due Americhe di Donald Trump e Kamala Harris, segnando forse così nella realtà moderna l’inizio della fine per la res publica romano-americana, per tornare all’utopia espressa da Francis Ford Coppola in Megalopolis.


In Giurato numero 2 il giovane Justin Kemp (Nicholas Hoult), presto padre e sempre preoccupato per la moglie incinta Ally (Zoey Deutch), non osa confidarle di esser stato testimone del litigio – verbalmente violento – avvenuto davanti a un locale, tra la vittima e l’imputato per omicidio. Un crimine di cui non aveva letto nulla prima di divenire giurato: se ne rende conto, pertanto, solo durante il dibattimento e la ricostruzione degli eventi. Peggio ancora: in breve tempo capisce di essere stato lui ad aver ucciso la compagna dell’imputato (Francesca Eastwood, figlia del regista) investendola con l’auto nella campagna della Georgia, sommersa da una pioggia battente. Il cervo che pensava di aver investito – proprio a pochi metri dal cartello stradale che segnala il passaggio di questi animali – non era tale.

Da quel momento comincia un gigantesco tormento vissuto in solitudine. Justin non vuole creare preoccupazioni a sua moglie, che fatica a muoversi nella fase finale della gravidanza. Il suo avvocato gli sconsiglia subito di denunciare la verità: i precedenti da alcolista basterebbero a mandarlo in galera, anche se nel locale aveva solo ordinato e mai consumato. Il passato dei due giovani uomini è come una palla al piede, che cancella per entrambi ogni possibilità di futuro: il vero omicida si trova a fare il giurato sul presunto omicida, in realtà innocente; l’imputato fa i conti con il suo passato da uomo violento, che non è più, e con l’aver fatto parte di un gruppo di violenti. Il pregiudizio su di lui pesa come un macigno.

Justin cerca di ripulirsi la coscienza, provando a salvare l’imputato in un’ impresa che pare impossibile. La pubblica accusa ha convinto quasi tutti i giurati, quasi tutti lo ritengono colpevole, a eccezione di un poliziotto detective in pensione. L’assenza di domande specifiche sulla dinamica dei fatti, degli elementi e delle testimonianze presentate dall’accusa – tra cui quella di un anziano presunto testimone oculare – lascia Justin sconcertato: “Deve marcire in galera”. L’ex poliziotto sa invece che i metodi della polizia, oberata di casi e con un decimo dei fondi rispetto all’ufficio del procuratore, sono frettolosi, univoci e schematici.

Poco a poco il film mette in discussione l’intera macchina giudiziaria statunitense partendo in primis dalle giurie popolari, così glorificate dal cinema americano, con una modalità tranquilla e quasi discreta, mai altisonante e tuttavia implacabile. Nel rappresentare il carrierismo, attraverso il personaggio della pubblico ministero Faith Killebrew – in corsa per il posto di procuratrice generale e decisa a mantenere il vantaggio sul rivale, che i sondaggi le assicurano – Eastwood stigmatizza quello che per lui è uno dei grandi mali del suo paese, fondato sul mito del successo e sulle apparenze. Una malerba mai realmente estirpata.

Più ci si addentra nelle discussioni della giuria, nella quale Justin e l’ex poliziotto hanno insinuato il dubbio, e più si ripensa a uno dei capolavori del regista Sidney Lumet. Il suo film d’esordio La parola ai giurati (1957) resta un esempio insuperato di cinema civico e pedagogico, mai freddo né meccanico, unilaterale o manicheo, ma anzi dalle straordinarie atmosfere. Nell’opera di Lumet un giurato ostinato – interpretato da Henry Fonda – ma privo di arroganza fa gradualmente sgretolare le facili convinzioni della giuria e ne manda addirittura in crisi alcuni componenti, prigionieri non solo di facili schematismi, ma anche di ossessioni devianti.

Anche nel film di Eastwood c’è un giurato – in questo caso afroamericano – che proietta sul caso il proprio vissuto: suo fratello adolescente, infatti, è rimasto vittima delle droghe spacciate dal gruppo di cui faceva parte l’imputato, che l’uomo ha riconosciuto da un tatuaggio. A poco a poco, Giurato numero 2 sembra diventare un po’ il remake di La parola ai giurati, con il vero colpevole nascosto però all’interno della giuria e alla guida della revisione delle prove che pesano sul presunto assassino.

Perché se il cinema di Lumet era figlio delle grandi speranze degli anni sessanta, quello di Eastwood è invece un prodotto della disillusione profonda di quel decennio e del dissolvimento della visibilità del futuro, immerso però in una dimensione umanistica e intima. Oppure, come in questo caso, pervaso da un’interrogazione morale.

Il problema della visibilità, del resto, è quel che viene qui interrogato nella rappresentazione di un paese per Eastwood immerso da tempo in una notte buia e tempestosa, proprio come quella in cui è morta la donna. Il problema del vedere, del ben vedere dentro e fuori (la propria coscienza e la realtà circostante), è la questione centrale. Tanto più se si tiene a mente che il cinema è sguardo.

Il viaggio nell’ambiguità del reale si sovrappone a una lettura sfaccettata e intrisa di sfumature nel rappresentare e demolire gli schemi mentali su cui si fonda la società statunitense, nei quali vive immerso l’americano medio anche per via della glorificazione da parte dei media. Nella fattispecie, si evidenzia la banalità quasi infantile con cui operano i giurati, senza coscienza come i peggiori burocrati, ossessionati dal tornare a casa dai figli o alle proprie occupazioni. E i pregiudizi di un tempo hanno lasciato il posto ad altri pregiudizi, mentre lo schematismo mentale paradossalmente ereditato dalla cultura puritana è rimasto il medesimo. Le donne, profondamente stanche dei comportamenti sessisti e dei crimini a essi connessi, sono qui veicolo di questa nuova retorica manichea e sono rappresentate dalla pubblica accusa, dalla presidente della corte e dalla portavoce della giuria. L’uomo afroamericano proietta le sue ossessioni sull’imputato, ma anche questa è apparenza e nel finale, in coerenza con il resto del film, c’è moltissima ambiguità, anche in positivo. La storia processuale è sempre in movimento, come per la storia umana: forse non siamo alla sua fine, può essere riaperta. Straordinaria Toni Collette, l’interpretazione più bella è la sua: l’attrice riesce a donare all’arcigna e caparbia magistrata, all’apparenza un monolite carrierista, il dubbio (ma quello vero) che potenzialmente può far ripartire ogni gioco.

Così come il personaggio di Justin, che sembra simbolicamente acquisire coscienza, è invece quello più attento al proprio tornaconto. Si autoassolve e si racconta la favola della brava persona, come rivela la frase riferita sulla panchina alla procuratrice, stanca, svuotata: “a volte la verità non è giustizia”. Una conversazione che ricorda per certi aspetti lo straordinario monologo finale sull’ambiguità della morale tra Woody Allen e Martin Landau in Crimini e misfatti (1989); apologo, ironico e tragico.

A novantaquattro anni, Clint Eastwood è l’unico regista americano ad aver messo le dita (cioè la cinepresa) su quasi tutte le piaghe che affliggono il suo paese, a cominciare dalla mascolinità e dall’eroismo. Nel precedente lungometraggio, il bellissimo Cry Macho (2021), interpretava un anziano burbero, disilluso ma umano che entrava in empatia profonda con un adolescente latino – sballottato tra un padre e una madre incoscienti e manipolatori – liberandolo dall’ossessione di dover essere per forza un macho per essere uomo. In Gran Torino (2008) era un adolescente asiatico a entrare nel cuore di un anziano veterano fanatico delle armi, fino al punto di spingerlo all’immolazione cristologica. Anche l’ambiguità umanistica è sempre presente nel suo cinema, tra il sangue dell’etnia e l’essere umano in quanto soggetto culturale dotato di una coscienza universale: da Cuore nero, cacciatore bianco (1990) a Debito di sangue (2002). C’è poi la sparizione di ogni prospettiva per il futuro dei figli, come in Un mondo perfetto (1993) – pervaso dagli echi dell’attentato a Kennedy – o in Mystic river (2003), dove l’America è ridotta a una stanza buia, oscurata dalle ombre della pedofilia. Fin da Gli spietati (1992), invece, non è più tempo di eroi, non è più il tempo del mito.

Gli artisti non di rado sono pieni di contraddizioni, ma spesso proprio grazie a esse riescono a restituire nelle loro opere una lettura del mondo complessa, profonda e non lineare. Quest’umile capolavoro ci insegna a guardare alla propria coscienza per andare oltre tutti gli schemi, grandi inquinatori di ogni futuro dell’umanità.

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