Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes, è nelle sale Anora, altro grande film della notte dopo La storia di Souleymane e All we imagine as light, che si innalza quasi a entità creatrice e rivelatrice, oltre che evocativa. Un gioiello trascinante, avvolgente e pulsante come le luci psichedeliche di una discoteca, ma con il tocco leggero della grazia nel creare un sorprendente ritratto al femminile, oppresso da un presente claustrofobico e privo di una linea d’orizzonte. Una commedia divertente e toccante su un’anarchica e sgangherata lotta di classe, una neoguerra fredda vista dal microcosmo di una babele di etnie e voci dagli accenti marcati. E la consacrazione in una produzione dal budget importante del talento più interessante del cinema indipendente statunitense degli ultimi anni, Sean Baker.
Un film che si apre in una collettiva (falsa) spensieratezza ed allegria, e che si chiude nell’intimo e nella gravità. Che si chiude nell’assoluto e doloroso silenzio di un’umanità e di una dignità finalmente conquistate, ma che si apre nel frastuono di sonorità e luci multicolori al neon, che potrebbero essere quelle di una discoteca mentre invece siamo in un night club, una sorta di bordello per uomini, con tanto di camerini in cui appartarsi con le ragazze.
La sequenza d’apertura è una lenta ed elegante carrellata laterale che passa in rassegna una galleria di uomini di varia età, seduti uno di fianco all’altro, che stringono tra le braccia delle ragazze sulle loro ginocchia. Senza pesantezze, si delinea una sorta di galleria del grottesco, se non degli orrori: “Mi ha detto che sembro sua figlia di 18 anni”, dirà più tardi una delle ballerine, riferendosi a uno degli clienti del locale. Questa scena potrebbe anche costituire da sola un’ideale videoinstallazione sul tema, perché da sola già dice molto.
Ben presto ci troviamo di fronte ad Anora (Mikey Madison), detta Ani, giovane donna che porta l’intero film sulle sue fragili spalle, e alla dimensione umana che il regista cerca di far affiorare nonostante tutto attraverso di lei. Come le altre ragazze del locale, Anora è una ballerina di striptease e lavoratrice del sesso. Conosce presto Ivan, detto Vania (Mark Eydelshteyn), un ragazzo russo, seducente e simpatico, che nel locale festeggia con gli amici la sua vacanza negli Stati Uniti. Tra un bicchiere di champagne e l’altro, un’irresistibile attrazione fisica nasce fra i due protagonisti, poi qualcosa di più.
Ivan, di famiglia molto ricca, porta Anora nella sua immensa villa sulle rive dell’Hudson per continuare insieme la serata. Ben presto le propone una grossa somma per passare insieme un’intera settimana. Una settimana di baldorie e viaggi sull’aereo di famiglia, da New York a Los Angeles, con Anora e tutti i suoi amici russi. Una settimana di sesso sfrenato, da Baker messo in scena attraverso sequenze brevissime, compulsive come il lampeggiare di luci al neon, consumistiche quanto l’economia degli Stati Uniti. Ma ancora, molto velocemente – forse troppo – l’amore sboccia definitivamente e sfocia in un matrimonio improvvisato a Los Angeles. Sembra una storia d’amore sincera, una romance del nuovo millennio, un tantino adolescenziale, anche nella sua esuberante ma genuina follia.
Che gigantesco distacco fisico e mentale per Anora, che viveva in appartamento condiviso con altre ragazze vicino alla sopraelevata di Brooklyn. Il divario di classe tra la giovane donna e il figlio dell’oligarca russo diventa presto un abisso. Davvero può durare? Ai genitori di lui arriva intanto la notizia del matrimonio, e mentre sono in viaggio dalla Russia agli Stati Uniti inviano degli armeni per cercare di farlo annullare. Quando questi scagnozzi arrivano nella villa di famiglia cominciano una serie di calamitose ma esilaranti disavventure. Anche perché Anora si batte come una tigre. Vania invece fugge pieno di rabbia, abbandonandola.
Tutta la prima parte del film è sostanzialmente notturna e al neon, veicola un sentimento di spaesamento e indefinitezza dei luoghi che peraltro si equivalgono tra loro. New York o Los Angeles, in fondo qual è la differenza? Brooklyn la si intravede appena. Brighton Beach, zona newyorkese in cui si concentrano le comunità slave, resta sostanzialmente fuori campo, più evocata che filmata, al contrario di tanti altri film, come I guerrieri della notte di Walter Hill.
Questa prima parte è quasi sempre in interni, ed è questo a creare la dimensione claustrofobica del film. Anche quando nella seconda parte si va alla ricerca di Vania, si oscilla sostanzialmente dall’abitacolo dell’auto ad altri interni, locali notturni o ristoranti. In compenso, nonostante lo scorrere di luoghi mutati in non luoghi, Brighton Beach è ben delineata dall’ambiente umano, poiché è in particolare l’antropologia umana, nella sua diversità e disomogeneità, a essere un altro tema centrale nella rappresentazione di una realtà confusa e disgregata. Per Sean Baker, giunto a maturità, è un bel ritorno sui suoi luoghi cinematografici: dalla New York di Take out e Prince of Broadway alla Los Angeles di Tangerine, uno dei suoi capolavori.
In Anora il regista si rivela maestro nel mettere in scena delle psicologie senza fare del cinema psicologico, ma anzi visivo, descrivendole mediante i comportamenti, le azioni, i dialoghi: brevi, concitati, talvolta fulminei. In questo senso, nel film sono fondamentali, a livello di contenuto e di comicità, le voci e gli accenti estremamente caricati. A un certo punto lo dice anche Vania, quando sottolinea “i nostri accenti terribili”.
L’invito allo spettatore è quindi di fare davvero uno sforzo e andare a vedere quest’opera in lingua originale. Il film è facile da seguire, i dialoghi sono diretti e spesso brevi. Il divertimento sarà maggiore, e si capirà di più il contenuto. Potremmo quasi dire che Anora è un manifesto della bellezza delle diversità linguistiche, della loro autenticità, anche grossolana, se vista con certi occhi.
Il grottesco è rappresentato soprattutto dai gorilla armeni, ma alla lunga i tre assumono una sostanziale dimensione umana. Non sono certo degli assassini o dei violenti, come si poteva temere, e anzi cercano di trovare una difficile quadratura del cerchio tra gli ordini della famiglia di Vania e la volontà di non compiere certe azioni, prendendosi a volte botte da orbi e subendo continue accuse di violenza sessuale (che non c’è mai) e di depravazione da parte di Anora, unica vera lavoratrice, quindi scafata, perché deve difendersi da tutti.
Fra i tre armeni emerge gradualmente, con gran finezza e senso delle sottigliezze – sguardi, espressioni del volto, frasi accennate – Igor, il più giovane (Jura Borisov, già visto nello straordinario Scompartimento n. 6), altra figura maschile non machista proprio come Vania, ma al contrario di lui dotato di sensibilità e domande interiori: la sua consapevolezza del dolore di Anora aumenta in maniera direttamente proporzionale all’evidenza del vuoto interiore di Vania, del suo essere vigliacco, che pian piano emerge fino a ricardegli addosso, in particolare quando Anora gli urla “comportati da uomo e parla con me”. Ma il suo essere un codardo gli impedisce di reggere lo sguardo della donna e a rimettersi subito gli occhiali da sole da pseudo fico trendy.
Tuttavia, in Vania non solo si concentra tutto il vero grottesco del film, un grottesco davvero figlio della bruttezza umana, quello del grande capitalismo visto da vicino nella sua intimità familiare, ma allo stesso tempo un certo tipo di adolescente contemporaneo, incapace di maturità e afflitto da infantilismo. All’opposto, il proletario Igor, quasi senza accorgersene, riesce ad accogliere con un abbraccio un grande pianto liberatorio, a sobbarcarsi il dolore e la rabbia di Anora. E a non dare troppa importanza al sesso.
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