Carlo Gasparri guarda un punto fisso davanti a lui e trattiene un velo d’emozione ricordando i tre giorni passati negli stanzoni in fondo a un corridoio buio al piano terra di palazzo Torlonia, in via della Lungara a Roma. Era il 1976. Giovane archeologo di 32 anni, Gasparri era già professore a Urbino. Venne incaricato dal pretore della capitale di verificare in quali condizioni fossero le 620 sculture antiche – statue, busti di imperatori e di matrone, teste, sarcofagi, bassorilievi, torsi, capitelli e altro ancora – appartenenti alla leggendaria collezione Torlonia.
L’intera raccolta era stata sequestrata dall’autorità giudiziaria, che aveva aperto un procedimento a carico del principe Alessandro Torlonia, accusato di abusi edilizi e di aver ammassato nei tre stanzoni polverosi un patrimonio inestimabile, sconosciuto ai più e studiato solo attraverso le fotografie stinte di un enorme catalogo ottocentesco. In breve: il principe aveva chiesto l’autorizzazione per rifare il tetto del palazzo, ma in realtà smobilitò il piano in cui il nonno aveva sistemato le statue e al loro posto realizzò una novantina di appartamenti. Le sculture finirono infilate alla meglio negli stanzoni.
Entrare in quegli scantinati, che un tempo erano il granaio della nobile famiglia approdata a Roma a metà settecento e arricchitasi grazie ad ardite speculazioni e prestando denaro, era il sogno proibito di qualsiasi archeologo. Tuttora Gasparri è fra i pochissimi ad aver visto quelle sculture che, a detta di molti, compongono la più grande raccolta d’arte antica al mondo in mano a un privato. Certo è colui che più d’ogni altro l’abbia studiata in questi decenni, ricostruendone la genesi e sfatando un elenco di leggende accreditate da quel catalogo. In virtù di questa competenza, Gasparri è il curatore, insieme a Salvatore Settis, della mostra che apre il 14 ottobre a villa Caffarelli, a Roma, e che ospiterà poco meno di cento pezzi della collezione. Pezzi dunque mai visti prima, sottoposti a un delicatissimo restauro dall’équipe di Anna Maria Carruba, che a sua volta ha rilevato tanti aspetti inediti e sorprendenti, riscrivendo in parte la storia della collezione.
Una lunga trattativa
La mostra era in programma ad aprile scorso, ma la pandemia ha imposto un rinvio. Ora tutto è pronto, villa Caffarelli è stata ristrutturata e l’allestimento è opera dell’architetto David Chipperfield. Gli ingressi saranno contingentati, ma l’esposizione resterà aperta fino a giugno. Dopodiché l’accordo fra il ministero e la fondazione Torlonia, che rimane proprietaria delle statue, prevede che la mostra vada all’estero e che le sculture, rientrate in Italia, siano ospitate stabilmente in un museo ad hoc. Ancora non c’è una sede, ma fra le ipotesi che circolano prende corpo il cinquecentesco palazzo Rivaldi di fronte alla basilica di Massenzio, che però ha bisogno di un sostanzioso restauro.
È un appuntamento da non perdere. Si potranno vedere la celebre Fanciulla da Vulci, lo spettacolare Caprone in riposo e poi statue di Ercole, di Venere e di Minerva, i busti di Livia, Agrippina Maggiore, Messalina, e quindi i ritratti degli imperatori Vespasiano, Tito, Domiziano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio.
La mostra evidenzierà un aspetto sottolineato da Gasparri e da Settis: quella dei Torlonia è soprattutto una collezione di collezioni e attraverso i suoi capolavori si può percorrere la storia di come dal quattrocento all’ottocento le famiglie romane arredassero le proprie residenze e quale idea di antico testimoniassero le raccolte.
Alla mostra si è arrivati dopo una trattativa cominciata nel 2015 fra il principe Alessandro Torlonia – morto a 92 anni nel 2017 – suo nipote Alessandro Poma e il ministero per i beni culturali (artefice principale è stato l’allora direttore generale delle antichità, Gino Famiglietti).
All’accordo si è arrivati dopo decenni di diffidenza reciproca, ogni tanto interrotta dal tentativo di tirare finalmente fuori dallo scantinato le 620 sculture e di dar loro una sistemazione degna. Ma gli sforzi sono sempre andati a vuoto. E così le statue sono rimaste invisibili, accatastate l’una accanto all’altra, con i busti issati su una doppia fila di mensole, il tutto a malapena illuminato da una stentata lampadina che pendeva dal soffitto. Contro l’occultamento di questo straordinario patrimonio, Antonio Cederna ha scritto decine e decine di articoli, riuscendo anche a procurarsi una foto che mostrava la miserevole condizione in cui versavano le statue.
È questa la scena che si è trovato di fronte Gasparri quando per la prima volta è entrato nei locali già usati come lanificio di palazzo Torlonia. “È stato un trauma”, racconta ora, sfogliando il catalogo della mostra edito da Electa. “Al primo impatto sono rimasto scioccato. Dovevo controllare che fossero lì tutte le 620 sculture documentate nell’unico catalogo disponibile edito fra il 1884 e il 1885 da Carlo Lodovico Visconti. Una copia assai logora era su un tavolo con il piano di porfido in un angolo dello stanzone. Le sculture erano fotografate e numerate. Ma individuarle una per una era un’impresa perché erano sistemate senza nessun ordine. Poi non c’era spazio per muoversi, c’era bisogno di una scala per poter vedere i busti sulle mensole. Sono rimasto lì dentro per tre giorni, otto ore ogni giorno”.
Disillusione
Alla fine del primo sopralluogo, accertato che le sculture ci fossero tutte e che fossero solo parecchio impolverate ma intatte, Gasparri riguardò i suoi appunti e li incrociò con gli studi che in quel periodo stava conducendo sulle botteghe degli scultori romani che dalla fine del secondo secolo avanti Cristo copiavano gli originali greci, in particolare quelli in bronzo. Servivano per la società colta romana che così ornava ville private o edifici termali, e questa pratica durò per secoli, anche in età imperiale.
Almeno fino agli anni cinquanta e sessanta del novecento, spiega Gasparri, “queste opere venivano studiate solo in quanto copie di bellissimi originali greci che però non c’erano più e di cui si sognava di ricomporre un’immagine perduta. Poi ci si rese conto che invece andavano analizzate per quello che rappresentavano, come prodotto di un’attività artistica autonoma, e soprattutto per il contesto in cui erano state rinvenute, che consentiva di collocarle in un ambiente culturale piuttosto che in un altro”.
Prima di entrare nell’ex lanificio di palazzo Torlonia, Gasparri, come altri suoi colleghi, era convinto (“ingenuamente”, ammette), che lì fossero custodite “decine e decine di sculture recuperate in ambiti di alto lignaggio”. E invece? “E invece sono crollate molte mie convinzioni: ho capito subito che in gran parte non si trattava di reperti frutto di scavo, come si era fatto credere, ma di opere che nel corso dei secoli, dal cinquecento al primo ottocento almeno, avevano subito una serie enorme di interventi”.
In altri termini, a differenza di quel che sosteneva Visconti nel suo catalogo, nella collezione c’erano le opere che i Torlonia avevano recuperato nelle loro vastissime proprietà nell’agro romano, dalla villa di Massenzio a quella dei Quintili sull’Appia, dalla villa dei Gordiani, alla Caffarella, fino a Porto. Ma non solo. Le sculture erano state abbondantemente manipolate per ragioni tutte assai interessanti da sondare, perché documentavano l’atteggiamento via via assunto nelle diverse epoche nei confronti dell’antico, oltre a rappresentare esempi di orientamenti estetici e culturali.
Da allora Gasparri cominciò a battere archivi e inventari di vario genere per ricostruire la storia di ognuna di quelle sculture, la provenienza, le vendite e gli acquisti. Uno degli accertamenti più rilevanti riguardava quanto fosse diventato di proprietà dei Torlonia della celebrata collezione Giustiniani, sistemata nel seicento nel palazzo di famiglia che ora è una sede del senato. Nei primi anni dell’ottocento i Giustiniani, non riuscendo a restituire i prestiti erogati da Giovanni Torlonia, sono costretti a cedere gran parte del loro patrimonio di statue, fra le quali la bellissima Hestia. Secondo il catalogo Visconti sarebbero in totale 130 sculture, ma Gasparri ha potuto documentare che sono più del doppio, 270. Inoltre dai suoi studi risulta che i Giustiniani, nelle more delle trattative, cercavano di vendere sottobanco ad altri alcune statue che spettavano ai Torlonia.
Nei primi anni novanta Gasparri è giunto a un altro snodo assai rilevante per definire come si è formata la collezione Torlonia. Dal fondo archivistico del topografo e archeologo Rodolfo Lanciani (1845-1929) spunta un documento sulla vendita di oggetti posseduti da Bartolomeo Cavaceppi, un nome che ora dice poco al grande pubblico, ma nella seconda metà del settecento apprezzato e ricercato mercante d’arte, abilissimo artefice di copie realizzate ex novo nella sua bottega di via del Babuino a Roma, utilizzando calchi di gesso o autore di restauri prendendo pezzi di altre sculture antiche.
Cavaceppi muore nel 1799 e un anno dopo acquirente delle sculture, dei disegni, dei calchi, delle terracotte è Giovanni Torlonia. Il quale ci arreda diverse residenze di famiglia. Parte delle sculture più pregiate, che provengono da collezioni formatesi a Roma dal quattrocento al settecento e appartenenti ai Savelli-Orsini, ai Caetani, ai Cesi, ai Cesarini, ai Ruspoli e ai Barberini, vengono in un primo tempo collocate nel palazzo Torlonia di piazza Venezia (demolito all’inizio del novecento per fare largo all’Altare della patria) e nella villa Torlonia su via Nomentana. Una settantina, secondo Gasparri, sono ora sicuramente presenti nella collezione di via della Lungara.
Fino alla scoperta da parte di Gasparri del documento di Rodolfo Lanciani nessuno sapeva che Giovanni Torlonia avesse comprato quei capolavori provenienti dalla bottega di Cavaceppi. Nel catalogo di Visconti sono attribuiti a una collezione Vitali che semplicemente identifica le sculture giunte alla Lungara dal palazzo di piazza Venezia.
La mostra mette una serie di punti fermi su come si sia formata la collezione Torlonia, ricostruendo la sua storia diversamente da come la si era raccontata, complice il fatto che nessuno poteva vedere e studiare quelle sculture. E si propone come un avventuroso viaggio, più che nell’archeologia, nel modo di concepire l’antico e in fondo anche la bellezza. Sembra un itinerario nella storia del gusto.
Il restauro curato da Anna Maria Carruba documenta quanto si badasse all’integrità delle opere e non tanto al loro assetto originario, alla resa estetica e non alla correttezza filologica. “Se a una statua mancava un braccio o la testa”, spiega Gasparri, “si cercavano pezzi di altre opere che potessero sostituirli, si andava a caccia di parti che aderissero bene, anche se appartenenti a statue di altri soggetti. Il caso estremo è un Ercole composto di 125 pezzi, in parte antichi e provenienti da almeno due statue diverse, in parte moderni e di diverse epoche. Abbiamo deciso di lasciare che si vedessero tutte le cesure”. Come in un candido patchwork. O, meglio, come un marmoreo Frankenstein.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it