Kuba, l’autista che guida la vecchia Mercedes da Biškek a Oš si è portato dietro il piccolo Bahai, suo figlio, una peste di cinque anni che non sta zitto o fermo un secondo per tutte le tredici ore di viaggio.
Kirghizistan: 620 chilometri in direzione sud percorrendo la mitica M41, l’autostrada del Pamir, l’unica arteria che connette la Russia con la parte meridionale dell’Asia centrale. È una vecchia strada che scavalca passi a tremila metri d’altezza, penetra steppe ed è perennemente percorsa da camion. Alcuni hanno ancora la scritta di qualche ditta italiana sul cassone: sono stati comprati di seconda mano da qualche camionista centroasiatico.
Nella parte kirghisa, la M41 attraversa la catena del Tianshan e poi scende verso la valle di Fergana, circumnavigando il blindatissimo Uzbekistan tra Jalal-Abad e Uzgen, per poi arrivare finalmente a Oš, la città più importante nella parte meridionale del Paese. Occhi a mandorla a nord, dove i kirghisi di origine mongolo-siberiana sono la maggioranza; tratti persiani e islam più fondamentalista al sud, dove gli zigomi scolpiti si mescolano ai tratti più dolci tagichi e uzbechi.
Gli appalti alla Cina
Kuba ha quarantacinque anni, è mite e gentile, lui stesso originario del sud. Non perde mai la calma con il piccolo demonio che gli è stato rifilato dalla moglie, rimasta a Biškek con altri tre figli e che non ne poteva più dell’ultimogenito: “Vai con tuo padre, sparite per qualche giorno, lontano dai miei occhi e dalle mie orecchie”.
Kuba però ce l’ha con “i politici”, augura la morte repentina sia al vecchio presidente Kurmanbek Salievič Bakiev, che è scappato in Bielorussia dopo una minirivoluzione nel 2010, sia a quello attuale, Almazbek Atambaev. Il motivo è che, secondo lui, sia l’uno sia l’altro hanno dato tutti gli appalti per costruire infrastrutture ai cinesi invece che a imprese locali. E infatti la nuova autostrada in costruzione – un tratto della nuova via della seta, il megaprogetto di Pechino che unirà la Cina all’Europa occidentale – che passerà più a est e ridurrà il traffico sulla vecchia arteria, è made in China.
Un investimento da 855 milioni di dollari, di cui metà a carico di Pechino, veicolati dalla Export-Import Bank of China (Exim). Secondo l’accordo, il 30 per cento delle maestranze sarà cinese, il 70 per cento locale.
Qui è diffusa l’idea che i cinesi siano bravi a elargire mazzette al corrottissimo ceto politico kirghiso
Sembrerebbe la tipica operazione win-win, in cui vincono tutti, che predica il governo cinese ogni volta che ha rapporti economici con qualche altro paese. La forza di Pechino dipende dall’economia di scala che consente di ridurre i costi: sia rispetto alla concorrenza locale, che al limite si prende il subappalto, sia rispetto ai concorrenti internazionali.
Ma proprio qui, nel paese considerato la porta d’ingresso della Cina in Asia centrale, è diffusa l’idea che i cinesi siano i più bravi non solo a costruire infrastrutture chiavi in mano ma anche a elargire mazzette al corrottissimo ceto politico kirghiso, 123º su 167 posizioni nell’Indice di percezione della corruzione di Transparency international.
La sinofobia è palpabile e in parecchi si somma all’eterno vittimismo postsovietico: “I cinesi si sono approfittati del crollo dell’Urss e sono diventati ricchi, vendendo le loro merci a poco prezzo a noi kirghisi, che poi le abbiamo portate in tutta l’Asia centrale e la Russia”, si sente dire con un certo rancore. A nulla vale ricordare che almeno da trent’anni a questa parte i cinesi le vendono a tutto il mondo, quelle merci.
Storie transfrontaliere
Alla fine di agosto, un attentatore suicida si è fatto saltare in aria all’interno dell’ambasciata cinese di Biškek. È morto solo lui, la versione ufficiale lo descrive come un uiguro di passaporto tagico, un separatista musulmano dello Xinjiang, la regione più occidentale della Cina percorsa da un conflitto etnico a bassa intensità. Ma a molti qui, la versione ufficiale è parsa parecchio strana.
Così, la nuova via della seta – yi dai yi lui (One belt one road, Obor) – è soprattutto fatta di tante piccole storie transfrontaliere, ognuna con le sue specificità, al di là dei grandi numeri, dei grandi investimenti e dei grandi proclami come “prima vera proposta della Cina al mondo”. Per Pechino, è un problema inedito in ogni paese che attraversa. Il modello win-win, l’investimento massiccio che cala dall’alto, non sembra essere un sistema in grado, da solo, di inglobare tale complessità.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it