Rieducazione e sparizioni, lo stato di diritto secondo Pechino
C’è stato un momento, ultimamente, in cui mi è parso di vivere in una distopia. Stavo intervistando Michael Caster, l’attivista per i diritti umani che ha denunciato in un libro le “sparizioni forzate” in Cina. Parlavamo su Skype dei due casi simili di Meng Hongwei e Fang Bingbing, avvenuti a distanza di pochi giorni.
A un certo punto è comparsa sul mio telefono la notizia del South China Morning Post che annunciava la “legalizzazione”, da parte della Cina, di quei centri di rieducazione in cui sarebbero detenute circa un milione di persone appartenenti alle minoranze etniche musulmane dello Xinjiang: cittadini cinesi di etnia soprattutto uigura, ma anche kazaca. Sono stato io ad annunciarlo a Caster, che si è detto per nulla sorpreso.
Fan Bingbing ha 37 anni ed è la più famosa attrice cinese. Anzi, con produzioni internazionali come X-men e Iron man in curriculum, è una star anche a livello internazionale. L’anno scorso Forbes l’aveva messa al primo posto nella classifica delle star cinesi più pagate, con un reddito di circa 300 milioni di yuan (38 milioni di euro). Era scomparsa a luglio dopo essere stata accusata in uno show televisivo di avere firmato per il film Cell phone 2 un “contratto yin e yang”, cioè due documenti diversi che riportavano retribuzioni diverse: una di 50 milioni di yuan – quella effettiva – e una di dieci milioni di yuan, quella dichiarata alle autorità.
Il 3 ottobre è stata condannata per evasione fiscale a pagare circa 884 milioni di yuan (112 milioni di euro) e si è appreso che era stata sottoposta a “sorveglianza residenziale in un luogo designato”, una forma di detenzione di solito usata per i dissidenti e gli attivisti. Nel suo caso, si ritiene che il trattamento non fosse particolarmente duro – pare sia stata rinchiusa in un hotel di lusso – ma resta comunque il fatto che è sparita per tre mesi.
Il caso di Bingbing corrisponde al detto cinese “uccidi il pollo per spaventare le scimmie”
“Senza le buone politiche del partito e dello stato, senza l’amore della gente, non ci sarebbe Fan Bingbing”, ha scritto l’attrice sulla sua pagina del social Weibo, che è seguita da 62 milioni di fan, appena è ricomparsa. Si è pentita e ha chiesto scusa.
Fan era accusata di avere evaso più di 200 milioni di yuan, quindi tra importo da restituire e multa, dovrà sborsare circa il quadruplo di quel valore.
Il suo caso corrisponde al detto cinese “uccidi il pollo per spaventare le scimmie”, cioè deve servire da esempio: nessuno può sperare di farla franca, anche se è ricco e famoso.
Un caso clamoroso all’Interpol
Meng Hongwei ha 64 anni, fino a pochi giorni fa era viceministro della pubblica sicurezza cinese e soprattutto presidente dell’Interpol, l’organizzazione internazionale che coordina le polizie di 192 paesi. Era arrivato a Pechino il 25 settembre, poi è scomparso. Sua moglie ha denunciato la sparizione il 4 ottobre, aggiungendo che il marito le aveva inviato un messaggio su WeChat con scritto “aspetta la mia chiamata”, seguito quattro minuti dopo da un altro messaggio con l’emoji di un coltello, interpretato come segnale di pericolo. Poi il silenzio.
La magistratura francese ha quindi aperto un’indagine, mentre l’Interpol chiedeva formalmente a Pechino di fornire informazioni su Meng. Il 7 ottobre le autorità cinesi hanno confermato che Meng è sotto inchiesta per corruzione. Nel frattempo l’Interpol comunicava di aver ricevuto le dimissioni irrevocabili del suo presidente, già sostituito con il sudcoreano Kim Jong-yang.
Il caso è clamoroso perché è la prima volta che Pechino fa sparire il massimo rappresentante di un’organizzazione internazionale, anche se cittadino cinese, e lo fa sparire mentre è in carica.
Secondo Le Parisien, Meng sarebbe finito sotto inchiesta per aver favorito un’impresa nel ramo della sicurezza informatica, indiscrezione ancora tutta da confermare.
Campi di rieducazione legalizzati
Arriviamo così al 10 ottobre, quando la Cina ha “legalizzato” i centri di rieducazione. Il governo regionale dello Xinjiang non ha dovuto fare altro che inserire una nuova clausola nel suo regolamento “antiestremismo”, in base alla quale le autorità locali possono creare “centri di formazione professionale per educare e trasformare le persone che sono state influenzate dall’estremismo”.
Finora, i funzionari cinesi avevano sempre negato l’esistenza di questi campi, salvo ammettere che alcuni colpevoli di reati minori erano inviati in centri dove gli insegnano un lavoro per farli rientrare nella società civile. Le testimonianze di chi ci è passato raccontano invece una realtà ben diversa, con sistematiche violenze e lavaggio del cervello per estirpare le pratiche religiose e inculcare fedeltà alla madrepatria e al partito.
Di Xinjiang abbiamo parlato più volte, l’ultima proprio in relazione ai campi di detenzione, è un argomento per forza di cose ricorrente. Quindi, appena posso, provo a discuterne anche con amici cinesi, generalmente giovani, cosmopoliti, spesso critici verso il proprio governo.
Ebbene, direi che salvo pochissime eccezioni la loro percezione del problema è capovolta rispetto alla nostra: ciò che per noi è “repressione”, per loro è “sicurezza” e in generale finiscono per sposare la linea di Pechino. L’ultima volta, un amico che stava per andarci con la moglie a fare una vacanza-lampo mi ha detto piuttosto soddisfatto che adesso “lo Xinjiang è il posto più sicuro del mondo”. Gli ho chiesto quale fosse per lui il principale problema da quelle parti. Ci ha pensato un po’ e poi ha proferito: “Io penso che la sicurezza sia una cosa importante”.
Quanto a Fan Binbing, ho chiesto un commento sulla vicenda a un altro amico cinese. Mi ha detto: “Non riesco a capire quale fosse il legame di Fan con la politica”, dando per scontato che una ricca e famosa finisce nei guai solo se pesta il piede sbagliato nelle alte sfere del potere. Evidentemente, quel legame con la politica salta invece immediatamente all’occhio nel caso di Meng Hongwei.
Nei commenti in rete sulla condanna dell’attrice – dove la vicenda è diventata subito l’argomento più discusso – la gente si è divisa tra chi ha giudicato giusta la sanzione economica, a fronte di un pentimento sincero, e chi invece si è chiesto come mai Fan Bingbing non sia stata anche incriminata: chi è ricco e famoso deve solo mettere mano al portafoglio, è stata la recriminazione di molti.
Stato di diritto? Domande sul fatto che una donna sia sparita nel nulla per tre mesi e poi sia riemersa dal nulla condannata e pentita? Che un alto funzionario di un’organizzazione internazionale scompaia all’aeroporto di Pechino? Oppure sul fatto che un’intera regione sia trasformata in uno stato di polizia? Neppure l’ombra.
Bisogna tenere presente quest’ordine di priorità, questa visione capovolta del problema, quando valutiamo le mosse di Pechino. Parlando dell’oltraggio inferto all’Interpol con l’arresto di Meng Hongwei, si dice in questi giorni che difficilmente un cinese sarà considerato d’ora in poi un serio candidato a dirigere un organismo internazionale, visto che il giorno dopo potrebbe sparire a discrezione del partito.
Perché dunque una mossa così controproducente dopo che per anni la Cina ha chiesto più voce in capitolo nelle organizzazioni internazionali, ha cercato di piazzare qualcuno dei suoi nei ruoli chiave, si è autorappresentata come capofila dei paesi emergenti che reclamano più potere decisionale nella stanza dei bottoni globale?
Il bene supremo
“La Cina ha un atteggiamento molto pragmatico”, dice Michael Caster. “Non penso abbia intenzione di rinunciare al proprio ruolo nelle organizzazioni internazionali. Semplicemente, quando si tratta di scegliere tra il diritto internazionale e ragioni di politica interna, sceglie inevitabilmente le seconde”. Resta un paese introverso che nonostante il suo nuovo ruolo di superpotenza, pone la stabilità interna sopra a tutto. Non sappiamo ancora perché Meng sia finito nei guai, ma sicuramente doveva essere ritenuto un pericolo esiziale se Pechino ha deciso di rischiare con la sua sparizione le sue future candidature alla governance globale.
“Se le organizzazioni internazionali non corrispondono alla sua agenda”, continua Caster , “molto semplicemente la Cina se ne crea di proprie, alternative”, come per esempio si disse ai tempi della fondazione della Asian infrastructure investment bank, la banca d’investimenti cinese alternativa (per Pechino “complementare”) alla Banca mondiale e alla Asian development bank.
Nello specifico della legalità, da anni si parla di yifa zhiguo, cioè di “stato di diritto”, sì, ma con “caratteristiche cinesi”. Corrisponde a una concezione della legge come strumento del potere politico e non come insieme di regole a cui lo stesso potere è sottoposto: rule by law e non rule of law.
Rientra in questa idea la “legalizzazione” di pratiche inaccettabili per il diritto internazionale, qualcosa che la Cina sta facendo sempre di più ultimamente: si sperimenta per qualche anno una procedura extragiudiziale – come è successo per le sparizioni forzate di dissidenti o funzionari corrotti – e poi la si inserisce nel codice.
Meng Hongwei sarebbe detenuto in base a una nuova norma, detta liuzhi (detenzione), creata con la “legge di supervisione nazionale” a marzo di quest’anno. Il suo scopo dichiarato era quello di accorpare la “sorveglianza residenziale in un luogo designato” e lo shuanggui, una forma extragiudiziale di detenzione riservata ai membri del partito, mettendole nero su bianco in una procedura “legale”.
Aggiunge Michael Caster: “Vorrei essere chiaro. Il liuzhi non è una pratica extragiudiziale, perché è stata inserita nel codice. Ma è contraria ai princìpi del diritto internazionale”.
Ai tempi del concepimento, le autorità dissero che la nuova legge serviva a prevenire gli abusi da parte dei funzionari di pubblica sicurezza. L’ultima bozza prevedeva che i familiari e i datori di lavoro di un sospetto fossero informati subito dopo il suo arresto e gli interrogatori fossero filmati. Ma non si faceva riferimento all’assistenza legale e, quanto meno nel caso dell’ex potente Meng Hongwei, sembrerebbe non esserci traccia neppure delle altre garanzie.