Il 2 dicembre la Corte internazionale di giustizia dell’Aia, nei Paesi Bassi, ha cominciato a esaminare quello che potrebbe essere il caso più grande nella storia del principale organo giudiziario delle Nazioni Unite.
Per due settimane i 15 giudici ascolteranno le argomentazioni dei rappresentanti di più di cento paesi e organizzazioni, per trovare la risposta a due domande cruciali: quali sono gli obblighi dei governi nella lotta al cambiamento climatico in base al diritto internazionale, e a che conseguenze vanno incontro se non li rispettano?
Il parere della Corte è stato richiesto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2024, su pressione dei Piccoli stati insulari in via di sviluppo (Sids), una coalizione di paesi minacciati dall’innalzamento del livello dei mari, che ha raccolto un’iniziativa lanciata da un gruppo di studenti delle isole Figi quattro anni prima.
Secondo la loro tesi, questi paesi hanno contribuito in maniera insignificante alla crisi climatica e ambientale, ma sono estremamente esposti ai suoi effetti. Avrebbero quindi diritto all’aiuto dei paesi industrializzati responsabili della maggior parte delle emissioni di gas serra, ma non riusciranno mai a ottenerlo in misura adeguata finché gli accordi internazionali in materia saranno basati su impegni volontari.
Questa opinione ha appena trovato conferma alla conferenza di Baku sul clima, dove i paesi ricchi hanno accettato di fornire a quelli poveri solo trecento miliardi di dollari all’anno per finanziare gli sforzi di mitigazione e adattamento, meno di un terzo di quanto era stato richiesto, e ai negoziati per un trattato internazionale sulla plastica a Busan, in Corea del Sud, che si sono chiusi con un nulla di fatto perché un pugno di paesi petroliferi ha rifiutato le misure sostenute dalla maggioranza degli stati partecipanti.
L’inadeguatezza dell’approccio multilaterale su cui si basano le conferenze delle Nazioni Unite di fronte all’urgenza della crisi ha spinto attivisti e organizzazioni di tutto il mondo a rivolgersi ai tribunali per costringere i governi e le aziende ad aumentare l’impegno o a pagare il prezzo della loro inerzia.
Ma se alcuni paesi hanno delle norme ambientali rigorose che possono offrire una base legale a queste iniziative, il diritto internazionale è molto più vago e non prevede strumenti per far rispettare gli obiettivi stabiliti da accordi come quello di Parigi del 2015.
Il parere della Corte internazionale di giustizia, atteso per la metà del 2025, non è destinato a cambiare le cose, dato che non sarà vincolante. Ma la speranza dei promotori del caso è che un pronunciamento chiaro in favore del dovere di ridurre le emissioni e compensare i danni possa essere preso come riferimento dai tribunali nazionali e contribuisca a porre le basi di una giurisprudenza internazionale sul clima che comincia a delinearsi.
A maggio il Tribunale internazionale del diritto del mare, un altro organo delle Nazioni Unite, ha emesso un altro parere non vincolante secondo cui le emissioni di gas serra sono a tutti gli effetti equiparabili all’inquinamento marino e che gli stati hanno l’obbligo di ridurle.
E a settembre Vanuatu e altri stati insulari del Pacifico hanno proposto di inserire l’ecocidio tra i reati perseguibili dalla Corte penale internazionale.
Questo testo è tratto dalla newsletter Pianeta
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