Tra il piano terra e quello rialzato di palazzo Baldelli, a Cortona, si snoda la mostra Giovane fotografia italiana, un progetto mirato a valorizzare gli autori emergenti. I curatori, Ilaria Campioli e Daniele De Luigi, hanno messo insieme dei lavori che combinano fotografia e immaginazione “per tentare una più autentica comprensione del reale, scomponendo e ricomponendo le informazioni e il sapere”. È la prima cosa che ho visitato in un palazzo che nell’ultima edizione del festival Cortona on the move ospita sedici mostre, un piacevole tour de force da cui sono uscita piena di idee e sensazioni.
Tra gli autori di Giovane fotografia italiana sono rimasta colpita da Nowhere near di Alisa Martynova. Il progetto ha vinto quest’anno il secondo premio nella categoria Ritratti al World press photo e mette in relazione due temi apparentemente distanti: lo spazio e i migranti.
C’incontriamo davanti al teatro Signorelli, nel brusio e il viavai delle letture portfolio, che si svolgono sotto il portico del palazzo. Andiamo in un bar non particolarmente bello, dove già temo che il concerto incessante di piattini e tazzine sovrasti la registrazione della nostra intervista.
Nata nel 1994, Alisa Martynova è russa, ma da qualche anno vive a Firenze, dove si è diplomata alla scuola di fotografia della Fondazione Studio Marangoni. Ha un sorriso e degli occhi grandi, quando le parli capisci subito che la sua mente è costantemente affollata d’intuizioni e ricerche che in questo momento della sua vita, senza arroganza e presunzione, proietta sulla fotografia.
Nowhere near parla d’immigrazione attraverso una metafora, scientifica, ma che mi ha suscitato una strana commozione. Parla delle stelle che in seguito alla collisione di due buchi neri cominciano a orbitare nello spazio, a vagare nell’ignoto senza una meta precisa. Nei suoi paesaggi spaziali Martynova ritrae dei migranti, persone che come le stelle dei buchi neri si ritrovano a orbitare in posti sconosciuti, dove non avevano pensato di arrivare e restare, intrappolati da un sistema più grande che governa il loro destino.
In Italia, la fotografa si trova ad assistere al dibattito sul fenomeno migratorio, sui respingimenti, i centri di accoglienza, il razzismo e l’integrazione. “Volevo capire cosa c’era dietro le immagini dei giornali, le opinioni diverse delle persone che ascoltavo e volevo capire anche la mia opinione su questa cosa”, mi racconta. Così quando al primo anno della scuola di fotografia le chiedono di ritrarre degli sconosciuti, decide di incontrare i migranti ospitati dai centri di accoglienza tra Firenze e Livorno. All’inizio è un reportage tradizionale, ma successivamente preferisce discostarsi da una forma che è stata e viene continuamente esplorata, anche con risultati eccellenti, dai fotografi di tutto il mondo.
Il progetto viene messo da parte. Ci torna all’ultimo anno di scuola, con un po’ più di esperienza e di chiarezza anche sul suo metodo. “Ho provato vari approcci, come quello autobiografico, ma non voglio parlare di me, voglio parlare delle storie degli altri che considero importanti”. I migranti le raccontano di sentirsi come in un limbo, a causa delle differenze culturali e linguistiche. Da qui Martynova cerca una metafora universale in grado di trasmettere una sensazione così straniante. “Non volevo essere didascalica ma parlare con i simboli, con i segni, e il movimento delle stelle combaciava con quella scelta”. Mi confida che in fondo, quel liceo scientifico tanto odiato le è tornato utile, soprattutto perché nel tempo capirà che per trasmettere sensazioni preferisce partire da elementi freddi e distaccati.
In Nowhere near vediamo ritratti di migranti ambientati in paesaggi che potrebbero essere su pianeti lontani, oppure sulla costa maremmana, o in Africa. In un processo durato tre anni, la fotografa porta avanti contemporaneamente le interviste e la ricerca di luoghi adatti in giro per l’Italia. Mostra gli scatti ai migranti e scopre che gli ricordano i loro paesi nativi. Grazie a questo aggancio riesce a lavorare su due livelli, le radici e lo spazio: “Non volevo dimenticare né l’uno né l’altro”.
A Martynova piace giocare con la luce e l’esposizione. Può essere un flash, una luce continua mista a quella naturale, e addirittura quella del telefono. “Preferisco tornare quattro volte nello stesso posto finché non ottengo quello che voglio”, racconta, e aggiunge: “All’inizio dei miei studi ero attratta dalla luce ‘sbagliata’ dei flash e a scuola sperimentavo molto su questo. Poi ho imparato a controllare sia la luce sia l’errore”.
L’allestimento di palazzo Baldelli ci proietta subito davanti a un ritratto in una cornice di legno intorno al quale sono dislocate su due stanze delle scatole nere, in cui è possibile vedere all’interno attraverso dei visori. Un meccanismo che lascia nello spettatore una forte suggestione; forse è per questo che all’inizio della nostra intervista le confesso subito la mia commozione.
Realizzare Nowhere near le ha lasciato addosso molte sensazioni, in particolare in termini di risposta da parte di chi ha partecipato al progetto, perché di migrazione si deve parlare, e per un artista è necessario innescare meccanismi di riflessione e lasciare che il messaggio circoli, anche usando metafore insolite. Prima di andare via dal nostro bar di Cortona, Martynova ammette che un aspetto autobiografico c’è sempre in ogni lavoro che fa e sta “in come sento e vivo la storia che mi raccontano”.
Le mostre di Cortona on the move sono esposte fino al 3 ottobre. Questa intervista è stata realizzata grazie alla collaborazione del festival e di Canon Italia.
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