Nella musica italiana le donne e gli uomini non sono uguali
In Italia la parità tra uomini e donne è un miraggio. Dall’economia alla cultura, le cifre sono impietose. Le donne che guidano i consigli di amministrazione delle aziende quotate in borsa sono solo il 33,5 per cento, dice l’Istat. In media una lavoratrice ha un salario inferiore a quello di un collega: per cento euro guadagnati dagli uomini, le donne ne guadagnano 66,6.
In parlamento le cose vanno leggermente meglio: le elette dopo il 4 marzo sono il 35 per cento, la percentuale più alta nella storia della repubblica. Spostandosi nel mondo della cultura, la situazione però è sconsolante. Solo dieci scrittrici hanno vinto lo Strega nei settant’anni di storia del premio. L’ultima è stata Margaret Mazzantini, nel 2003, quindici anni fa. Quest’anno – evento raro – le donne sono la metà sulle dodici candidature che andranno a comporre la cinquina finalista.
Il mondo della musica non fa eccezione. All’ultimo festival di Sanremo, per fare un esempio, in gara nella categoria Campioni c’erano solo quattro donne su venti concorrenti (un po’ meglio nella sezione Nuove proposte, con tre donne su otto).
Secondo una ricerca del Nuovoimaie, l’istituto che gestisce i diritti connessi (come per esempio i diritti che spettano agli esecutori dei brani o quelli per i pezzi che finiscono nelle colonne sonore) in Italia le interpreti sono l’8,7 per cento. La stessa percentuale di settant’anni fa. Dal 1984, da quando, cioè, si assegnano le targhe Tenco per il miglior album, considerate uno dei premi più prestigiosi della musica italiana, solo una volta ha vinto una donna: Carmen Consoli, nel 2010. E ancora: tra i primi venti posti nella classifica degli album più venduti in Italia nel 2017 ci sono solo due nomi femminili: Mina (in duo con Adriano Celentano) e Cristina D’Avena.
Se guardiamo al mondo dello streaming, il panorama è identico. Osserviamo due classifiche settimanali, in due periodi diversi dell’anno: in quella dei primi sette giorni di marzo, tra i venti brani più ascoltati su Spotify c’è solo una donna, Elettra Lamborghini. Nella settimana compresa tra il 18 e il 25 maggio, invece, figurano solo due nomi femminili: Francesca Michielin, in un brano di Carl Brave, e Dua Lipa.
La principale fonte di guadagno per l’industria musicale però non sono gli album o lo streaming (che ha comunque un peso crescente, visto che genera il 38,4 per cento dei ricavi). La maggior parte dei soldi gira attorno ai concerti e ai festival. E che spazio hanno le donne nella musica dal vivo? Poco, anche in questo caso, a giudicare dalla programmazione dei principali festival italiani: Rock in Roma, Miami, Ypsigrock, Club to Club (l’ultima edizione, novembre 2017), Lucca Summer Festival, Pistoia Blues, Umbria Jazz e Ferrara Sotto Le Stelle. Le manifestazioni sono state scelte in base a tre criteri: bacino di utenza, collocazione geografica e longevità (almeno cinque anni di attività alle spalle).
Leggendo i nomi in cartellone di questi festival, si nota che in media le donne (o i gruppi in cui almeno una donna è tra i componenti principali) sono poco meno di un quinto degli artisti in programma, il 19 per cento. Tutti gli altri (l’81 per cento) sono uomini. E questa è la media, perché guardando i casi singoli la situazione è perfino peggiore.
I più virtuosi sono l’Ypsigrock di Castelbuono, in Sicilia, (con il 33 per cento di presenze femminili), il Miami a Milano (25 per cento) e Ferrara Sotto Le Stelle (25 per cento). Gli esempi più negativi invece sono quelli del Lucca Summer Festival (11 per cento) e soprattutto del Rock in Roma, il più importante evento della capitale, che quest’anno non ha neanche un’artista nel suo cartellone principale. Per trovare delle musiciste bisogna guardare alle band che accompagnano i solisti, come quella di Roger Waters o di Caparezza, di Mannarino o di Macklemore.
Quindi anche nei casi più virtuosi la parità è un miraggio. Ma c’è una piccola consolazione: confrontando i dati con quelli di cinque anni fa, nel complesso è stato fatto un passo avanti. Nel 2013 la percentuale di donne presenti in questi otto festival era ferma al 15 per cento. Alcuni sono migliorati. Il Club To Club è passato dal 5 al 21 per cento (addirittura al 26 per cento, se si tiene conto dell’edizione estiva del festival torinese, il Viva!) ed è andato oltre, dando spazio in questi anni a diversi artisti transgender, il Pistoia Blues ha raddoppiato, salendo dal 7 al 14 per cento. Altri sono decisamente peggiorati: Ferrara Sotto Le Stelle è sceso dal 44 per cento all’attuale 25 per cento, il Rock in Roma nel 2013 era al 5 per cento.
“La musica è maschilista”
Da dove nasce il problema? Le artiste sono poche oppure i festival le ignorano? Cosa ne pensano le musiciste, le discografiche e le donne che lavorano nel mondo dell’editoria musicale?
“La situazione non mi sorprende: per le donne quasi tutto richiede un impiego di energie, di intelligenza, di creatività e una tenacia che non vengono richieste agli uomini”, commenta Carmen Consoli. “Sul palco salgono donne straordinarie. Ma, appunto, sono straordinarie. Il punto è che troppo spesso una donna deve essere dieci passi avanti rispetto a un uomo per poter trovare il suo spazio”, aggiunge Consoli.
La “cantantessa”, come lei stessa ama definirsi, ha un ottimo ricordo del 2010, quando è stata la prima donna a conquistare la targa Tenco per il miglior album. Ma pensa anche che il suo non dovrebbe restare un caso isolato. “Ricevere quel riconoscimento è stato un grande onore. Io però aspetto il momento in cui sarò l’ottava a vincerlo, o la quindicesima. Aspetto con ansia il giorno in cui si smetterà di contare quante musiciste sono premiate”, spiega Consoli.
Neanche Giulia Blasi, scrittrice, giornalista e conduttrice radiofonica e ideatrice della campagna #quellavoltache, è stupita dalla scarsa presenza di donne nei cartelloni dei festival italiani: “La musica è maschilista. È un club per ragazzi, dove i maschi dividono la saletta con altri maschi. È difficile che in questi ambienti riesca a entrare una donna”.
Secondo Blasi, inoltre, le poche che riescono a mettere piede in questo esclusivo club maschile faticano comunque a trovare la loro identità. “È un problema di autopercezione. Se quasi tutti i musicisti e gli autori di successo sono uomini, come fa una donna a immaginarsi su un palco? I modelli offerti dalla discografia non aiutano. Pensate ai talent show, che premiano le interpreti, meglio se telegeniche, e non le autrici. E poi esiste una discriminazione estetica. Un uomo non deve essere per forza bellissimo per piacere al pubblico, una donna di aspetto comune invece fa fatica, a meno che non abbia un carisma straordinario”.
Paola Zukar è una figura storica dell’hip hop italiano. È stata una delle prime a occuparsi di rap nel nostro paese. Ex redattrice della rivista specializzata Aelle, da qualche anno è la manager di rapper come Fabri Fibra, Marracash, Clementino e Tommy Kuti. “Per capire quel 19 per cento di donne presenti ai festival italiani dobbiamo andare alla radice del problema: in Italia ci sono poche donne con una carriera artistica importante alle spalle. La colpa non è dei festival, che hanno l’unico obiettivo di vendere biglietti e non possono far altro che prendere atto della situazione. Nei posti dove girano tanti soldi le donne sono poche, questa è una costante della nostra società”, spiega Zukar.
Prime pagine al maschile
Questo articolo è in un certo senso parte del problema, perché chi lo scrive è un uomo: in Italia infatti le firme, i volti e le voci sui giornali, online e nei servizi dei telegiornali sono perlopiù al maschile, nonostante le giornaliste siano il 41,6 per cento del totale. L’ha dimostrato la scrittrice Michela Murgia che ha esaminato le prime pagine del Corriere della Sera e della Repubblica, le ha fotografate e ha postato le immagini su Twitter, notando che la grandissima parte degli articoli di opinione è firmata da un uomo.
“È vero, nella mia carriera sono stata intervistata soprattutto da uomini, sempre bravi, sempre rispettosi del mio lavoro. Ma anche da tante giornaliste”, dice Carmen Consoli. “Però, il vero scandalo è che le donne che dirigono i nostri giornali, o le caporedattrici, sono delle mosche bianche. Nelle posizioni di leadership gli uomini sono la gran parte, per trovare delle donne negli stessi ruoli si passa alla categoria delle eccellenze. Anche la cultura dovrebbe dare il buon esempio, non solo il giornalismo”, aggiunge la cantautrice.
Paola Zukar è d’accordo: “Mi hanno colpito i commenti sotto i tweet di Michela Murgia. Alcune persone erano contrariate da quello che scriveva e hanno commentato: ‘Il caporedattore non va mica a vedere se sei donna o sei uomo, vede solo se sei bravo’. Chi fa questa obiezione dimostra di non aver capito il problema. Ragioniamo per assurdo: anche se in Italia non ci fossero giornaliste o musiciste brave, questo non vuol dire che il problema non esiste, anzi. Vorrei vedere la situazione contraria, con il cartellone di un festival fatto di sole donne. Vi immaginate le proteste”.
“La disparità di genere non è solo un problema del giornalismo. Riguarda anche altri settori culturali, come l’editoria: le donne sono il 70 per cento delle lettrici, ma gli uomini sono l’80 per cento degli autori premiati allo Strega. La disparità esiste in tutti gli ambienti culturali”, dice Giulia Blasi.
Dal rock al rap
La parità di genere cambia a seconda del tipo di musica che un festival propone. Non è un caso che siano tante le musiciste nelle manifestazioni come il Miami e l’Ypsigrock, dove dominano il cosiddetto indie e l’elettronica, due generi ai quali si avvicina una buona fetta di pubblico femminile. Negli eventi più orientati al rock/blues (che sono generi più tradizionalisti), come il Rock in Roma e il Pistoia Blues, la presenza femminile si assottiglia.
Il rap è uno dei generi musicali in cui il maschilismo è più presente. Negli Stati Uniti qualche figura è stata in grado di rompere un po’ gli schemi, come Queen Latifah, Lil’ Kim e, negli ultimi anni, Nicki Minaj e Cardi B, capaci di cantare il mondo e la sessualità dal punto di vista femminile.
In Italia storicamente le rapper sono poche, e spesso nei testi delle canzoni la donna è descritta come un oggetto. Ma Paola Zukar non ha una visione così negativa del fenomeno. “È vero, nel rap, non solo in quello italiano, c’è un maschilismo esplicito. Ma è esplicito. Per me la cosa più detestabile è l’ipocrisia della musica italiana, con le sue canzoni stereotipate e le sue tonnellate di amore mieloso, che non hanno fatto bene alla cultura del nostro paese, neanche all’emancipazione femminile”.
“L’hip hop è tradizionalmente molto maschilista, a partire da quello statunitense. Anche Kendrick Lamar lo è. Quando nel brano Humble dice che è stufo dei sederi photoshoppati, comunque vede il corpo femminile solo dalla sua prospettiva di uomo. Se guardiamo a fenomeni contemporanei del nostro paese, come la trap, la situazione è molto variegata ed è difficile dare un giudizio d’insieme: nei testi di Sfera Ebbasta e della Dark Polo Gang il maschilismo è evidente, in quelli di Ghali, Achille Lauro o Carl Brave no. Ma il maschilismo è presente anche nel cosiddetto indie. Comunque più passa il tempo, più ho l’impressione che questa cosa si stia superando”, spiega Giulia Blasi.
Le risposte degli organizzatori
“Purtroppo i protagonisti del nuovo mercato indie, trap, hip hop sono maschi. Per noi sarebbe solo un onore avere più artiste donne, ma la nostra line up è formata dagli artisti che possono arrivare al nostro target di pubblico. Abbiamo sollevato il problema anche nel 2016 quando abbiamo realizzato il palco dedicato alla sezione #Theitalianway, lamentandoci per la mancanza totale di nomi femminili”, spiega Maximiliano Bucci, ideatore del Rock in Roma, commentando i dati.
“Al Club To Club qualche anno fa è venuto a suonare Oni Ayhun, che insieme a Fever Ray ha fondato la band svedese The Knife, e ci ha chiesto come mai avevamo poche donne nel programma. Da quel momento ci siamo dati la missione di aumentare in maniera significativa il numero di donne sul palco, impegnandoci anche sul tema del superamento dei generi, per esempio ospitando musicisti transgender”, spiega Sergio Ricciardone, il direttore artistico del festival. “Entro il 2019 vorremmo arrivare alla parità assoluta tra uomini e donne al Club To Club. Infatti nel primo annuncio del programma del 2018, se ci fate caso, ci sono sette donne su quindici. Ma non è facile riuscirci, soprattutto nel panorama italiano”, prosegue.
“Perché ci sono poche donne ai festival italiani? È lo stesso motivo per cui non abbiamo mai avuto un presidente del consiglio donna. Più ti avvicini al potere e meno donne ci sono. Noi cerchiamo di distinguerci da questo punto di vista: nel nostro staff ci sono otto uomini e sei donne”, aggiunge Ricciardone.
Come risolvere il problema?
“L’unico modo per risolvere la questione, quando si mette in piedi il programma di un festival, si scrive un articolo, si fanno delle interviste o si pubblicano libri, è contare quante donne sono presenti. Serve uno sforzo iniziale, poi si va in automatico. E piano piano ti rendi conto che la qualità dei contenuti che proponi migliora, perché la prospettiva femminile ovviamente aggiunge valore. Dobbiamo uscire dalla mentalità secondo cui le donne sono incluse solo perché sono donne e gli uomini sono inclusi solo perché sono bravi”, spiega Giulia Blasi.
“Farsi strada in questo mondo non è per niente facile, lo dico da donna e da madre che ha dovuto fare molti sacrifici per tenere insieme famiglia e lavoro. Non nego che ho dovuto sgomitare e combattere contro il maschilismo, soprattutto quello implicito”, racconta Paola Zukar. “Se posso permettermi di dare un consiglio alle ragazze, gli direi: coltivate la vostra indipendenza economica, perché è l’unica cosa che permette di essere libere”.
Carmen Consoli, nonostante tutto, è ottimista per il futuro: “Sento che qualcosa sta cambiando, ora non è più una cosa fuori dal comune essere donna e salire sul palco imbracciando una chitarra. Qualcuno ha detto che i miei testi hanno fatto una piccola rivoluzione, scrivendo in prima persona di donne ‘tristi, annoiate e asciutte’ (come in Venere) o di ‘donne oggetto’ (come in AAA cercasi). Se è davvero così non posso che esserne felice”.