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Cat Power nel segno di Dylan

Cat Power in concerto all’auditorium Parco della musica, Roma, 7 luglio 2024. (Rock in Roma)

Quando Cat Power sale sul palco dell’auditorium Parco della musica di Roma sono quasi le nove e venti. Mentre cammina verso il microfono, con i tacchi alti e una giacca scura elegante, il chitarrista e il tastierista della sua band hanno già cominciato a suonare gli accordi di She belongs to me. Lei, con la stessa discrezione con cui ha fatto il suo ingresso in scena, comincia a cantare, e a colorare il brano di Bob Dylan con la sua voce. La terza data del suo tour italiano è dedicata proprio al progetto Cat Power sings Dylan: The 1966 Royal Albert Hall concert, con il quale l’artista di Atlanta ripropone per intero il mitico concerto del cantautore di Duluth (che in realtà fu a Manchester), quello in cui la prima parte era acustica (e applaudita) e la seconda era elettrica (e fischiata, al punto che uno spettatore urlò a Dylan “giuda” prima di Like a rolling stone per aver tradito la purezza del folk degli esordi). Anche se, va detto, lo rifà a modo suo.

Premessa: maneggiare il materiale di quel concerto è una scelta di grande coraggio, perché il rischio di uscirne con le ossa rotte è altissimo. Bob Dylan nel 1966 era all’apice della creatività e dell’iconoclastia (ancora oggi rivedere i video di quelle esibizioni in cui sfida i puristi con spirito proto-punk è uno spasso). Stava trasformando per sempre la musica americana con la sfrontatezza che solo un genio può avere. Per Cat Power il rischio di finire in uno scialbo tributo o, peggio ancora, rifugiarsi nel copia-incolla c’era tutto. Ma la cantante di Atlanta, per fortuna, con la sua voce riesce a fare quello che in un certo senso ha sempre fatto Dylan: reinterpretare, portare le cose da un’altra parte.

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Come detto, nella prima metà ci sono versioni per voce, chitarra e armonica di capolavori come Visions of Johanna, Desolation row (per quanto mi riguarda il vertice assoluto della produzione di Mr. Zimmerman) e Mr. Tambourine man. Nella seconda invece ecco la band al completo (nel 1966 erano i The Hawks, che poi sarebbero diventati The Band) per brani più energici come Tell me, momma e Just like Tom Thumb’s blues (altro capolavoro), fino alle conclusive Ballad of a thin man (questa non riuscita perfettamente a Cat Power) e l’immancabile Like a rolling stone. Peccato solo per qualche vuoto di troppo nei posti della Cavea, piena solo nelle parti centrali e tristemente spelacchiata in quelle laterali. Ma, si sa, l’estate è piena di concerti e non possono andare tutti bene.

Cat Power se la cava divinamente con i brani acustici, mentre incide di meno in quelli elettrici. Ringrazia, spesso in italiano, tra un brano e l’altro. Ogni tanto si gira di spalle, per farsi qualche tiro di sigaretta. Nel complesso, però, il concerto di Roma dimostra che è tornata in ottima forma, che canta ancora in modo meraviglioso e che può permettersi perfino di tenere in piedi 11 minuti di Visions of Johanna senza sfigurare. Quante persone in circolazione ci riuscirebbero? Davvero poche.

Postilla finale e doverosa sulla Cavea: non ci sono posti del genere in Italia. Roma ha un milione di problemi con le strutture dedicate alla musica dal vivo, soprattutto d’inverno, ma non si può che parlare bene dell’Auditorium. Lo spazio esterno estivo, in particolare, è il giusto compromesso tra una grande e una piccola arena, ha un’acustica perfetta e una visuale impeccabile. Si capisce che gli stessi artisti “sentono” le vibrazioni del posto, dando il meglio di sé. Negli ultimi due mesi alla Cavea ho visto tre concerti: gli Smile, i Fontaines D.C. e appunto Cat Power. Sono stati i tre migliori dell’estate. Sarà un caso? Non credo.

Questo testo è tratto dalla newsletter Musicale.

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