Dentro la bolla con Marracash
Viviamo tutti, chi più chi meno, dentro una bolla. La tecnologia ci ha portato a isolarci dagli altri, in particolare dopo la pandemia. Come ricordava Matthew Shaer in un pezzo uscito un paio di mesi fa sul New York Times Magazine e tradotto su Internazionale, la solitudine è ormai un’epidemia e “un tema di salute pubblica globale”. “Quando parliamo di solitudine includiamo tutte le questioni che le turbinano pericolosamente intorno: alienazione e isolamento, sfiducia e disconnessione e, soprattutto, la sensazione che molte delle istituzioni e delle tradizioni che un tempo ci tenevano uniti siano meno disponibili”, scriveva Shaer.
Nel nuovo disco di Marracash, È finita la pace, pubblicato a sorpresa il 13 dicembre, la solitudine è onnipresente e il termine “bolla” è una delle parole chiave, oltre a essere presente graficamente sulla copertina.
La solitudine è quella dell’io contro tutti dei primi brani in scaletta, Power slap e Crash, nei quali il rapper della Barona rivendica la sua diversità – e superiorità – rispetto al resto della scena hip-hop italiana. In questi pezzi dissa, come si dice in gergo, Fedez, Lazza e tutti i suoi colleghi che vanno a Sanremo e scrivono hit estive (“Ti ricordo, bimbo, chi saresti con ’sta sberla / senza Sanremo, senza l’estivo, senza Petrella”), se la prende con l’esecutivo di Giorgia Meloni (“Governo di fasci che dice frasi preistoriche, pensano che basti riempire il vuoto con l’ordine”) e con il mondo della comunicazione (“Senza passaggi cruciali, casi umani fanno passaggi da Cruciani”), mentre dipinge un paese ormai senza punti di riferimento (“Ora non c’è più nemmeno l’arte a consolarci”). La società descritta dalle rime di Marracash è frammentata, isterica. E la sua generazione è alla deriva, come nella canzone Gli sbandati hanno perso, che cita Il grande Lebowski.
La solitudine torna anche nella parte centrale del disco, nella quale s’impone l’introspezione: È finita la pace campiona Ivan Graziani ed è ammantata di malinconia, l’ottima Detox/Rehab esplora i demoni interiori, mentre in Soli c’è un sample riuscito a metà di Uomini soli dei Pooh. Il rapper milanese conferma di avere una facilità di scrittura e una profondità senza pari in Italia e tiene insieme tutti i temi in modo brillante grazie al suo flow, siano essi il “genocidio a Gaza” o l’economia (in Factotum, dove il lavoro non nobilita l’uomo).
Marracash in questo momento nel mondo dell’hip-hop italiano è il più brillante a osservare la realtà e sa prendere posizione e smarcarsi quando necessario. Il problema del suo nuovo disco – che è il capitolo finale della serie inaugurata con l’ottimo Persona e proseguito con l’altrettanto buono Noi, loro, gli altri – è più che altro musicale. La scelta di non avere ospiti e di fare un disco crudo e diretto (alla GNX, per citare il suo artista di riferimento Kendrick Lamar) è interessante, ma al tempo stesso È finita la pace è l’episodio meno ricco della trilogia.
I ritornelli, in particolare, sono il suo punto debole perché non vanno mai a segno come dovrebbero. Se brani del recente passato come Qualcosa in cui credere, Greta Thunberg o Cosplayer univano rap, cantautorato e pop in modo irresistibile, stavolta si fa fatica a trovare momenti così d’impatto. È finita la pace dice cose interessanti e importanti, ma forse poteva dirle un po’ meglio.
Questo testo è tratto dalla newsletter Musicale.
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