Silvio Berlusconi è morto il 12 giugno 2023. Aveva 86 anni. Questo articolo è stato pubblicato il 4 luglio 2003 sul numero 495 di Internazionale.
L’ultima polemica ha avuto un’origine inaspettata: il Quirinale. Nonostante i forti dubbi sulla sua costituzionalità, Carlo Azeglio Ciampi ha firmato, facendola entrare in vigore, una legge sull’immunità che serve a proteggere il capo del governo italiano, Silvio Berlusconi, da un procedimento penale estremamente imbarazzante.
Adesso lo zar dei mass media che governa a Roma deve risolvere rapidamente un altro spinoso problema con la stessa sfrontatezza. Il problema è questo: Berlusconi trasmette più programmi televisivi di quanto gli sia consentito dalla legge. Entro la fine dell’anno dovrà vendere una delle sue tre televisioni, oppure trasmettere i programmi via satellite.
Per evitarlo alcuni deputati della sua coalizione – fra cui i suoi avvocati – hanno preparato un progetto di legge che dovrebbe consentirgli di trasmettere quanto e come vuole. Ma stavolta Ciampi si è messo di traverso e ha discretamente inviato ai parlamentari un messaggio inequivocabile: questa legge salva-Berlusconi non la firma. Non dopo tutte le altre.
Poteri occulti
Finalmente un po’ di sabbia negli ingranaggi fin troppo oliati della politica italiana. Finora nella repubblica di Berlusconia valeva una sola regola: è legge quello che serve all’ometto – è alto un metro e 64 – dall’ego ipertrofico; mentre quello che gli dà fastidio va eliminato. Berlusconi è sceso in politica – l’ha detto lui stesso – per risolvere i suoi problemi giudiziari ed economici. E finora lo ha fatto in un modo che sarebbe inimmaginabile nelle democrazie europee. L’Italia è stata rifatta secondo le esigenze del suo capo di governo.
Tra poco non si potrà più parlare di divisione dei poteri, uno dei fondamenti dello stato democratico. Perché Berlusconi è capo dell’esecutivo, cioè del governo; controlla il potere legislativo, dove fa approvare leggi tagliate su misura per lui; e si sta dando parecchio da fare per smantellare l’indipendenza dell’ordine giudiziario.
I mezzi d’informazione non garantiscono più la loro funzione di critica e di controllo del potere: il 90 per cento dei telespettatori vede programmi che subiscono l’influenza diretta o indiretta di Berlusconi. L’uomo più ricco d’Italia (patrimonio stimato: tra i sei e i dieci miliardi di euro; imponibile 2001: oltre undici milioni di euro) controlla un impero che comprende circa 150 aziende, partecipazioni bancarie e assicurative, con un giro d’affari annuo di 4-5 miliardi di euro. A lui appartengono, in tutto o in parte, oltre a Italia1, Canale5 e Rete4, anche emittenti radiofoniche, società distributrici di film, home video, società di produzione, una catena di oltre duecento sale cinematografiche, la più grande concessionaria di pubblicità del paese, Publitalia, e la casa editrice con il maggior volume d’affari d’Italia, la Mondadori, che pubblica fra l’altro il settimanale d’attualità più venduto, Panorama. Del quotidiano Il Giornale è proprietario – per via della legge contro i monopoli – suo fratello. Ha 25mila dipendenti, migliaia di collaboratori e di impiegati in aziende da lui controllate.
L’Europa accetta in silenzio, con vergogna, il fatto che è giunto il turno del líder
Il suo partito, Forza Italia, è lo schieramento parlamentare più numeroso e gli obbedisce ciecamente. Berlusconi l’ha fondato come fosse un’azienda, e molti deputati e senatori forzisti provengono dalle fila dei suoi consiglieri personali: i collegi elettorali sono stati spartiti fra di loro.
Appena entrato in carica, Berlusconi si è dedicato a metter ordine nella Rai. Quelli che lo criticavano sono stati cacciati con l’accusa di fare un “uso criminale” (parole sue) della loro visibilità mediatica. È stato “spento” perfino il programma di Enzo Biagi, che ogni sera dopo il telegiornale della prima rete parlava alla coscienza dell’intera nazione per cinque minuti. E aveva l’indice di ascolto più alto della Rai.
Nel dicembre scorso, il rapporto sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione, commissionato del parlamento europeo, ha avvertito che “in una democrazia non dovrebbe esserci posto” per una simile “potente miscela di interessi” (politica e mass media). E il Consiglio d’Europa ha constatato: “Il conflitto d’interessi fra la carica politica del signor Berlusconi e i suoi interessi privati nell’economia e nei mass media costituisce una minaccia al pluralismo degli organi d’informazione”.
Un semestre difficile
Dal 1 luglio, per sei mesi, Berlusconi sarà presidente del consiglio europeo, che riunisce tutti i capi di stato e di governo dell’Unione. L’Europa accetta in silenzio, con vergogna, il fatto che è arrivato il turno del líder máximo venuto dal Tevere di mettersi al timone e diventare per sei mesi Mister Europa.
Occhi chiusi e andare avanti: questo è il motto dei suoi quattordici colleghi. Per una volta, a Bruxelles, il cambio alla guida dell’Unione torna d’attualità. Già, perché quello che preoccupa i suoi partner dell’Ue non è solo la quantità di poteri che Berlusconi detiene. Quello che rende davvero nervosi i politici dell’Unione europea è l’umiliante consapevolezza di essere rappresentati da un signore che molti europei giudicano un furfante.
Sebbene a tratti Berlusconi avverta intorno a sé un “odore di santità”, fin dall’inizio della sua carriera è stato più volte circondato da un’aura di ambiguità. Tanto per cominciare, la provenienza del capitale iniziale del suo impero è poco chiara. Vari testimoni hanno deposto nelle aule di tribunale sui rapporti di Berlusconi e dei suoi collaboratori con la mafia siciliana (cosa che finora non è mai stata provata). La sua ascesa economica e politica è stata accompagnata da una serie di denunce penali e di processi per truffa, evasione fiscale e falso in bilancio.
Indubbiamente Berlusconi è stato eletto democraticamente. Il 13 maggio 2001 il risultato è stato chiaro: 177 dei 315 seggi al senato e 368 dei 630 alla camera sono andati ai candidati della coalizione guidata da Berlusconi, la Casa delle libertà. La coalizione di centrodestra deve parte del successo ai suoi forzieri stracolmi. La campagna elettorale è costata 50 milioni di euro. L’Ulivo non era in condizione di competere. Anche le armi propagandistiche erano impari: da gennaio alla fine di aprile del 2001, sulle tv di Berlusconi il candidato dell’Ulivo, Francesco Rutelli, è apparso in tutto per 42 minuti, Berlusconi per quasi cinque ore. A questo si aggiunga il talento di Berlusconi per lo spettacolo politico. Giorno dopo giorno ha allestito e continua ad allestire – in qualità di regista e protagonista – il Berlusconi Show: re Silvio, il buon padre di famiglia, l’imprenditore di successo, l’amministratore di tutti gli italiani. Fa continue dichiarazioni, soprattutto dal suo sfarzoso ufficio di villa San Martino ad Arcore, con i rubinetti d’oro e 147 camere.
Quanto alle sue uscite sulla scena internazionale, il Cavaliere le prepara con grande scrupolo. In occasione del vertice del G8 di Genova, due anni fa, si è occupato personalmente di far appendere dei frutti aggiuntivi agli alberi di limone un po’ spogli messi all’ingresso del municipio. Sempre personalmente ha curato gli arredi in gesso e polistirolo utilizzati al posto delle antichità romane in occasione del vertice Nato-Russia che si è svolto il 28 maggio 2002 a Pratica di Mare.
Con quali soldi Berlusconi si è avviato negli anni settanta a diventare un magnate dei mass media?
Anche nei suoi contatti personali con i colleghi, Berlusconi cerca di fare “bella figura”. Al presidente statunitense George W. Bush è stato simpatico a prima vista, come anche al russo Vladimir Putin. Il premier italiano sforna battute, suona il pianoforte, canta, prende tutti sottobraccio e assicura a ciascuno di essere il “suo migliore amico”.
Sembra che fin da giovane Berlusconi sia stato capace, diligente e seducente. È nato il 29 settembre 1936 in un quartiere piccolo borghese di Milano, figlio di Luigi Berlusconi, impiegato di banca, e di Rosa, casalinga. Suo padre è l’esempio vivente di dove si può arrivare con la solerzia e la parsimonia. Il giovane Silvio studia giurisprudenza e intanto lavora: rappresentante di aspirapolveri, cantante e intrattenitore sui piroscafi da crociera, poi in un’impresa di costruzioni. Qui si fa largo fino a diventare direttore delle vendite. Nel 1961 si mette in proprio e già nel 1963 la sua ditta, la Edilnord, costruisce appartamenti per quattromila persone alla periferia di Milano. Più tardi nasce la città-satellite Milano2.
Alle radici di un impero
Come abbia finanziato questi progetti resta avvolto dal mistero. Sembra che il padre, andato in pensione, l’abbia aiutato a raccogliere i capitali necessari. Si è parlato di finanziatori svizzeri, ma chi fossero, non è ancora stato chiarito. Il 31 marzo 1975 a Milano viene creata la Finanziaria d’investimento Fininvest. Tre anni dopo nasce la Fininvest Roma. Il 7 maggio 1979 le due ditte si fondono dando vita alla Finanziaria d’investimento Fininvest, con sede a Milano. Fra le due Fininvest, prima e durante la fusione, scorrono grandi quantità di denaro: importi milionari vagano qua e là, il capitale iniziale viene versato e ritirato, crediti e debiti cambiano colonna sui registri. Per un osservatore esterno si tratta di un trasferimento finanziario permanente all’apparenza privo di senso.
A questo partecipano attivamente, a partire dal giugno 1978, alcune holding che vengono create una dopo l’altra e denominate Holding italiana 1, Holding italiana 2, Holding italiana 3, eccetera. Nella prima tornata ne nascono 23; alla fine (siamo nel 1981) sono 38. I fondatori ufficialmente registrati di queste scatole cinesi sono tutt’altro che noti: si trattava di persone perbene ma dal reddito limitato, casalinghe, pensionati. Di fatto dietro a 35 delle 38 imprese ci sono Silvio Berlusconi e i suoi amici.
Lui sostiene di aver voluto aggirare le sciocche formalità burocratiche e abbreviare i tempi. E per questo le ha intestate a suoi conoscenti. Ma questa versione suscita molti dubbi. La giungla di società e il vorticoso spostamento di importi milionari avevano, così sostengono gli esperti, un unico scopo: occultare la provenienza del denaro che alla fine approdava sui conti di Berlusconi intestati alla Fininvest. Si sospetta addirittura che le Holding italiana 1, 2, eccetera abbiano riciclato denaro della mafia.
Per questo nel 1994 è stata avviata un’indagine giudiziaria contro Berlusconi e contro il suo più stretto collaboratore e amico di vecchia data, Marcello Dell’Utri. Con un faticoso lavoro di anni, gli specialisti della direzione investigativa antimafia hanno spulciato montagne di ricevute e scontrini. Sembra che nelle casse dell’azienda di Berlusconi, fra il 25 febbraio 1977 e l’agosto 1978, siano piovuti in tutto 16 miliardi e 940 milioni di lire. E – cosa tutt’altro che usuale – una parte consistente di questa somma è stata versata in contanti.
Da allora non sono più cessate le voci secondo cui il capitale iniziale di Berlusconi era formato da denaro sporco. Alcuni pentiti sostengono che per anni Berlusconi e Dell’Utri hanno fatto affari – e buoni affari – con i boss di Cosa Nostra.
Antonino Giuffrè – il rappresentante del “boss dei boss” Bernardo Provenzano – catturato nell’aprile del 2002, ai primi di gennaio di quest’anno ha dichiarato davanti a un tribunale di Palermo che Berlusconi a quei tempi si sarebbe addirittura incontrato con il boss Stefano Bontade. Il supertestimone ha accusato soprattutto Marcello Dell’Utri. Secondo il teste, Dell’Utri sarebbe stato una sorta di trait d’union fra la mafia e Berlusconi. In seguito, decollato il progetto di Forza Italia, Provenzano avrebbe detto personalmente a Giuffrè che con la nuova formazione politica si era “in buone mani”. Di loro “ci si poteva fidare”.
Non è stato possibile verificare queste testimonianze, visto che Stefano Bontade è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco il 23 aprile 1981 e che Bernardo Provenzano è latitante da quasi quarant’anni.
È morto anche un altro personaggio interessante che faceva parte della mafia siciliana, l’ex capo clan della famiglia di Porta Nuova, Vittorio Mangano. All’inizio degli anni settanta si era trasferito con moglie, madre e figli nella villa di Berlusconi ad Arcore. Con mansioni di “factotum”, sostiene lo stesso Berlusconi.
Mangano fu ufficialmente assunto – sostiene sempre il premier – “per intercessione di Dell’Utri”, come “stalliere”, cioè come responsabile di un “previsto allevamento di cavalli”, che naturalmente non è mai stato avviato. Invece, secondo il giudice antimafia Paolo Borsellino, le mansioni di Mangano erano tutt’altre. Sarebbe stato “una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel norditalia”, sostenne Borsellino nel 1992, pochi giorni prima di venire ucciso dalla mafia.
Secondo il magistrato, Cosa Nostra a quei tempi cercava contatti con il nord economicamente fiorente per riciclare i soldi ricavati dalla droga e investire i capitali in modo redditizio. Con il pretesto di fare visita a Mangano, ha dichiarato Giuffrè, gli emissari della mafia siciliana avrebbero potuto incontrarsi senza problemi anche con Berlusconi. Per il Cavaliere, le accuse sono tutte supposizioni e calunnie senza prove. E in effetti di provato non c’è nulla. Condanne non ce ne sono mai state. Tutte le indagini contro di lui, per esempio per riciclaggio di denaro sporco, sono state archiviate.
Meno fortuna ha avuto Dell’Utri: è ancora in attesa di giudizio. Sostiene di non conoscere l’ambiente mafioso siciliano. Però – ma solo perché “quel giorno si trovava per caso a Londra per visitare una mostra” – il 19 aprile 1980 siede fra gli ospiti del banchetto nuziale del capo clan di Cosa Nostra Jimmy Li Fauci. Quando la polizia di Varese, nella notte dell’11 novembre 1983, irrompe in casa del presunto mafioso Ilario Legnaro, in sua compagnia trova Dell’Utri.
Nelle settimane precedenti alle elezioni europee del 1999, intercettando le telefonate tra i boss della mafia siciliana gli inquirenti ascoltano frasi come: “Dobbiamo fare in modo che Dell’Utri venga eletto”. Altrimenti – questa è la motivazione – si ritroverà nei pasticci. E infatti solo l’immunità ottenuta in quanto deputato europeo lo ha protetto dal carcere.
Ma l’accusa più pesante contro Dell’Utri e Berlusconi la lancia un pentito davanti alla corte d’appello di Caltanissetta. Qui, nell’aprile del 2000, ben 37 esponenti della cupola mafiosa sono giudicati colpevoli di aver fatto saltare in aria nel 1992 il giudice antimafia Giovanni Falcone, sua moglie e le sue guardie del corpo. Uno dei testimoni, Salvatore Cancemi, ha dichiarato che gli spettacolari attentati del 1992 rientravano in una strategia politica mafiosa: eliminare i politici “che avevano voltato le spalle alla mafia”. I clan volevano aprire la strada ad altri, da cui attendersi “un vantaggio per tutta Cosa Nostra”. Il boss Salvatore Riina, ha aggiunto Cancemi, gli aveva confidato esplicitamente a chi si riferiva: “Berlusconi e Dell’Utri”. Loro – avrebbe detto Riina – sarebbero “un vantaggio per tutta Cosa Nostra”.
Pentiti o bugie?
Ma quanto ci si può fidare dei pentiti di mafia? Fino a che punto si può credere alle loro dichiarazioni, per le quali di regola non esistono prove? Per i giudici di Caltanissetta, la deposizione del superteste è “spontanea e conclusiva”, e per giunta confermata nelle sue parti importanti da altri cinque pentiti. Per Berlusconi e Dell’Utri, invece, sono tutte invenzioni.
Con quali soldi Berlusconi si è avviato alla fine degli anni settanta a diventare un magnate dei mass media? A quel tempo non era cosa facile, perché la legge permetteva soltanto alla tv di stato, la Rai, di trasmettere su scala nazionale. Ma lui, furbo, copia programmi identici su molte cassette, le fa distribuire a tutte le sue tv e le manda in onda simultaneamente in ogni regione.
Nel 1984 un giudice mette fine a quelle trasmissioni che di fatto convergevano in un unico programma nazionale. Le emittenti di Berlusconi vengono spente e la gente protesta. Non si accontenta più della Rai, troppo addomesticata, non vuole più perdersi il mondo colorato e scintillante delle tv berlusconiane. Dopo tre giorni di sospensione delle trasmissioni, il primo ministro Craxi annulla per decreto la sentenza del giudice.
Da quel momento – con l’appoggio del leader socialista, suo testimone di nozze e padrino di una delle sue figlie – Berlusconi costruisce una catena di emittenti televisive nazionali e un quasi-monopolio della tv privata con leggi e decreti su misura. Tuttavia neanche la fortunata simbiosi fra politica e tv commerciale ha potuto impedire che la “prima repubblica” italiana sprofondasse in un pantano di corruzione. Con l’operazione Mani pulite alcuni magistrati milanesi scoperchiano un sistema di corruzione e nepotismo, Tangentopoli. Il pericolo minaccia anche Berlusconi. Il magnate delle tv si trova di colpo davanti a questo problema: i suoi vecchi amici politici hanno perso il potere. Così, l’uomo di Milano decide di scendere in politica.
Nel giugno 1993, quando i partiti di sinistra vincono le elezioni amministrative, il progetto politico fin lì coltivato senza entusiasmo viene attuato con ogni mezzo. Sulla base di un manifesto messo insieme a partire da citazioni di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, viene fondata l’Associazione nazionale dei club Forza Italia, Anfi.
Club del genere Berlusconi li ha fatti fondare in tutto il paese da amici, soci in affari, dipendenti. Alcuni uomini di punta della Fininvest, che prima vendevano assicurazioni e servizi finanziari, adesso vanno in giro per l’Italia con valigette piene di bandierine e di adesivi. Ma la grancassa per Forza Italia l’hanno battuta le tv di Berlusconi, mentre una serie di centralinisti telefonavano agli italiani con questo messaggio martellante: “Perché non fonda un club di Forza Italia? Lei diventa il presidente, il materiale e gli statuti glieli mandiamo noi”.
Nel marzo del 1994, circa un milione di persone sono organizzate nei club di Forza Italia, i cui promotori spesso sono riconoscibili dai Rolex regalati e dalle cravatte chiassose. Parallelamente, a partire dall’ottobre 1993, i 26 capi dei distretti di Publitalia si sono messi in cerca di candidati idonei per le due camere del parlamento. I potenziali parlamentari forzisti sono stati reclutati pescando fra quattromila “contatti”.
Insieme ai suoi alleati di destra Forza Italia vince le elezioni politiche del 1994 con una netta maggioranza. Appena entrato in carica, il nuovo governo parte all’attacco contro i giudici di Mani pulite e comincia ad addomesticare la Rai. Ma non tutto va come dovrebbe.
Un decreto del ministro della giustizia, Alfredo Biondi, viene subito ribattezzato dagli italiani “decreto salvaladri”. Corruzione e concussione venivano retrocessi a trasgressioni di scarsa importanza. Ma il ricordo della palude della corruzione è ancora troppo fresco: migliaia di italiani protestano e il governo deve ritirare il decreto.
Il 22 novembre 1994, nel corso di una conferenza delle Nazioni Unite a Napoli, i giudici inviano al capo del governo un avviso di garanzia, comunicandogli che è indagato con l’accusa di aver corrotto dei funzionari della finanza. In quel periodo Berlusconi tenta anche di ridurre le pensioni. Per i suoi alleati della Lega Nord è troppo: Umberto Bossi abbandona la coalizione, mettendo fine al primo governo Berlusconi. A quel tempo Bossi sosteneva che la combinazione di potere politico e di controllo delle televisioni “violava la costituzione” ed era un’“anomalia”.
Secondo lui era necessario che una commissione d’inchiesta parlamentare chiarisse una buona volta da dove venivano i soldi di Berlusconi, che lui chiamava “Berluskaiser” e “il mafioso di Arcore”. A quel punto Berlusconi dice di non voler “mai più” avere a che fare con il rozzo Bossi. Ma nel 2001 entrambi, tornati amici, danno vita a un nuovo governo insieme al presidente di An, Gianfranco Fini, e alcuni partiti eredi della Democrazia cristiana.
In campo
Berlusconi dunque è stato costretto a buttarsi in politica e a conquistare il potere per salvare se stesso e il suo impero. Enzo Biagi racconta che lo stesso Berlusconi gli avrebbe confessato: “Se non entro in politica, mi fanno fallire e finisco in prigione”.
Effettivamente, in alcune occasioni ci è andato vicino. La prima condanna – cui naturalmente è seguito un lieto fine – Berlusconi l’ha ricevuta nel 1990 dalla corte d’appello di Venezia. Riguardava la sua appartenenza alla P2. In tribunale Berlusconi aveva giurato di non averci niente a che fare. Ma quando il fondatore della P2, Licio Gelli, è fuggito all’estero – coinvolto nel fallimento della banca del Vaticano e implicato in attentati dell’estrema destra – la polizia gli ha trovato in casa un elenco degli iscritti alla loggia segreta. Fra i 962 nomi c’era anche quello di Silvio Berlusconi, con la tessera numero 1.816. Berlusconi ha spiegato che la tessera gli era stata spedita chissà quando, senza che lui l’avesse richiesta, e che l’aveva buttata.
Ma poco dopo si è dovuto presentare di nuovo davanti al giudice, con l’accusa di aver corrotto dei funzionari della guardia di finanza. È stato condannato a due anni e nove mesi di prigione. Poi naturalmente il tribunale di grado superiore gli ha concesso le attenuanti in tre casi e nel quarto lo ha prosciolto per mancanza di prove. Due anni e quattro mesi, invece, la sentenza del cosiddetto processo All-Iberian 1, in cui Berlusconi era accusato di aver versato finanziamenti illeciti – 21 miliardi di lire – al partito del suo grande protettore, Craxi. Ancora una volta, Berlusconi ha avuto fortuna: il tribunale di secondo grado ha sentenziato che il reato era caduto in prescrizione.
Nello stesso modo si sono conclusi anche altri processi. Sembra che ci siano irregolarità fiscali anche nell’acquisto del terreno intorno alla sua seconda villa di Macherio. Sembra inoltre che quando ha acquistato il calciatore Gianluca Lentini per il Milan, Berlusconi abbia pagato in nero sei miliardi di lire.
Berlusconi crede fermamente che la magistratura non possa fargli nulla: solo il popolo può giudicarlo
Ma non sempre la fortunata conclusione dei processi è piovuta dal cielo o è stata determinata dal fatto che i mulini della giustizia a lui tanto invisa ci mettono molto tempo a macinare a suo favore. Non appena tornato al potere, nel maggio del 2001, Berlusconi ha messo al lavoro governo e parlamento sulla riforma della giustizia. Già nell’ottobre di quell’anno, l’Italia ha reso più difficile la collaborazione giudiziaria internazionale. La validità probatoria di documenti esteri – per esempio gli estratti conto delle banche svizzere – è stata assoggettata a procedure burocratiche molto complesse. Da un giorno all’altro tante prove raccolte con un lavoro di anni hanno perso ogni valore.
Inoltre l’Italia ha impedito a lungo nell’Unione europea che il mandato di cattura internazionale valesse anche per reati come truffa, corruzione e riciclaggio. Solo dopo un lungo mercanteggiamento è stato accettato un accordo pesantemente annacquato. “Nessun milanese che lavora verrà consegnato a Forcolandia” (così l’alleato Bossi ha definito l’Europa).
Ma l’impegno più grande degli assistenti di Berlusconi è il processo Sme. Sembra che nel 1986, all’epoca della privatizzazione dell’industria alimentare di stato, la Sme, Berlusconi abbia cercato di facilitare le cose con delle tangenti. I magistrati di Milano hanno ricostruito gli spostamenti di circa centomila euro, passati per diversi intermediari e finiti sul conto svizzero di un giudice romano. Nel dicembre 2001 il ministro della giustizia, Roberto Castelli, ha tentato di sostituire un giudice del processo Sme e provocare la sospensione del procedimento. La corte d’appello ha invece deciso che il giudice poteva restare ancora un anno.
Poi, nel novembre 2002, il parlamento ha approvato una legge sul trasferimento dei procedimenti penali. Adesso un imputato, se ha motivo di dubitare dell’imparzialità dei suoi giudici, può chiedere che il processo sia spostato. I difensori di Berlusconi e di Cesare Previti avevano più volte richiesto il trasferimento del processo da Milano a Brescia: se ci fossero riusciti la sua fine per prescrizione sarebbe stata di fatto inevitabile. La magistratura ha di nuovo opposto resistenza.
Alla fine di aprile Previti è stato condannato in un altro processo per aver versato tangenti in occasione dell’acquisizione della Mondadori. La sentenza contro Previti faceva prevedere il peggio per Berlusconi nel caso, del tutto analogo, della Sme.
A questo punto il capo del governo italiano ha ingaggiato una guerra aperta contro la “giustizia politicizzata”. Secondo lui, i giudici di Milano erano dei cospiratori di sinistra; le “toghe rosse“ operavano con una “logica golpista”. A questa situazione bisognava mettere fine “nell’interesse del paese e dei suoi cittadini”. In una “democrazia liberale”, l’ordine giudiziario non può “farsi il governo che preferisce”. Lui, invece, evidentemente vorrebbe farsi la giustizia che preferisce. In ogni caso, nella sua coalizione di governo, la Casa delle libertà, la libertà ce l’ha chi se la prende.
La Casa delle libertà
Berlusconi crede fermamente che la magistratura non possa fargli nulla: secondo lui “soltanto il popolo” può giudicarlo, visto che è stato il popolo a eleggerlo. Nel frattempo, i sudditi di re Silvio si sono arrabbiati. La sua popolarità è in calo, e oggi non è detto che sarebbe rieletto. Il suo governo è diviso, il suo bilancio è deludente. Può contare unicamente sull’incrollabile determinazione con cui l’opposizione continua a dilaniarsi. Ma questo solo finché non tornerà il suo unico rivale pericoloso e l’unico che può dare speranza all’Ulivo: l’ex primo ministro, e attualmente presidente della Commissione europea, Romano Prodi, che prevedibilmente nel 2006 si candiderà contro Berlusconi.
Prodi non è affatto contento di dover collaborare strettamente per sei mesi con Berlusconi. Secondo un suo assistente, organizzerà il lavoro “in modo intenso, com’è solito fare”. Ma che cosa pensi davvero Prodi sul prossimo presidente del consiglio dell’Unione europea è tutt’altro che un mistero. Neanche i colleghi di Berlusconi guardano con entusiasmo ai prossimi sei mesi. Il presidente francese Jacques Chirac considera il premier di Roma un “pallone gonfiato”: insomma, Berlusconi ha problemi di ego. E da quando è entrato in carica i rapporti fra Italia e Francia si sono nettamente raffreddati.
Anche a Berlino sono finiti i tempi in cui Germania e Italia proponevano iniziative comuni per la riforma dell’Unione. L’Italia è considerata un partner poco affidabile con inclinazioni antieuropee. Solo che nessuno lo vuol dire ad alta voce. Il massimo che attualmente sono disposti ad ammettere i diplomatici di Berlino è che i rapporti con gli italiani “sono tutt’altro che facili”. Invece il governo britannico vede Berlusconi sotto una luce nettamente migliore. Sulla riforma del mercato del lavoro nell’Unione europea, il premier Tony Blair ha stabilito con i colleghi italiani una stretta collaborazione.
Ma ciò che tanto irrita i politici di Bruxelles, a proposito di Berlusconi, non è il fatto che difenda attivamente gli interessi dell’Italia e metta insieme cose che non c’entrano nulla per ricattare gli altri con il potere di veto: questa è prassi corrente. Quello di cui si dubita è che Berlusconi sia in grado di condurre la sua presidenza in modo imparziale.
Per ora i capi di stato e di governo si trattengono in modo elegantemente diplomatico. Nessuno pensa ad applicare contro l’Italia di Berlusconi l’articolo 7 della convenzione europea, che consente l’apertura di un procedimento quando uno stato membro viola principi importanti come la libertà di stampa o lo stato di diritto.
Da Berlusconi non proviene alcuna minaccia, argomentano i partner europei, perché sottoscriverebbe quasi tutto pur di ottenere che la simbolica firma della nuova costituzione europea si tenga a Roma. Così gli è stato promesso.
Spetta dunque agli elettori italiani decidere quanto a lungo sono disposti a sopportare il loro tribuno della plebe. Del resto sembra che i moniti della magistratura, gli appelli degli intellettuali, le rivelazioni dei media, lo scherno dall’estero, le manifestazioni di massa contro l’indisturbata occupazione dello stato da parte del suo premier producano lentamente qualche effetto. Nell’autunno del 2001, era soddisfatto del governo di Berlusconi il 42 per cento degli italiani (il 33 per cento era insoddisfatto e il 25 incerto). Adesso, secondo un sondaggio della scorsa settimana, soltanto il 29 per cento è soddisfatto, mentre gli scontenti sono passati al 48 per cento.
Summit e lustrini
Per questo la presidenza di turno dell’Unione europea capita proprio al momento giusto: Berlusconi ha intenzione di accendere un vero e proprio fuoco d’artificio di vertici europei. Alle riunioni ufficiali del consiglio sembra si aggiungeranno oltre venti incontri “informali” (di solito sono otto ogni sei mesi): “Un’ubriacatura di meeting”, commenta sarcastico un diplomatico italiano.
Per sei mesi l’Europa dovrà dominare i titoli di apertura dei giornali e dei notiziari radiotelevisivi d’Italia. Non solo: l’Europa sarà lui, il presidente del consiglio europeo, il portavoce di tutti i capi di stato e di governo dell’Unione. Il tutto gli servirà come sfondo ornamentale per riconquistare lustro e prestigio.
Per questo Berlusconi guarda oggi in modo diverso al club degli stati del vecchio continente. Nell’autunno del 2001, diceva a La Repubblica: “Sono pronto ad abbandonare l’Europa” se gli europei, e innanzitutto la Germania e la Francia, “non comprendessero che le cose a Roma sono cambiate”. Oggi invece parla in modo del tutto diverso: “La mia passione europeistica è fuori discussione”, assicurava recentemente a Valéry Giscard d’Estaing.
Del resto è vero che Berlusconi non ha uguali in tutto il continente: “Mostratemi un solo uomo, in Europa, che abbia costruito un impero come il mio”, ama vantarsi. Ogni tanto però viene colto da un attacco di modestia: “Soltanto Bill Gates mi mette in ombra”.
(Traduzione di Marina Astrologo)
Questo articolo è stato pubblicato il 4 luglio 2003 sul numero 495 di Internazionale.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it