Negli ultimi mesi nello Yemen abbiamo visto accentuarsi alcune tendenze che erano già in atto: il deteriorarsi della situazione umanitaria, la riduzione del coinvolgimento dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, il collasso dell’accordo di Riyadh e la mancata concretizzazione dell’accordo di Hodeida. A questa lista bisogna aggiungere la vasta offensiva degli huthi nel nordest, le inondazioni, la rapida diffusione del covid-19 e, più recentemente, la dichiarazione di “autonomia” da parte del Consiglio di transizione del sud (Cts). Considerando le esperienze passate, sarebbe imprudente ipotizzare che le cose non possano ulteriormente peggiorare.
Arabia Saudita: come uscire dal pantano?
Alla fine del 2019 l’Arabia Saudita sembrava determinata a uscire dal pantano yemenita, quasi cinque anni dopo essersi lanciata in un intervento militare sempre più infruttuoso. Gli attacchi aerei erano diminuiti drasticamente, e l’accordo di Riyadh tra i separatisti del Cts e il governo internazionalmente riconosciuto del presidente Abd Rabbo Mansur Hadi aveva l’obiettivo di ristabilire la collaborazione all’interno della coalizione contro gli huthi. Le trattative, in corso per mesi, erano cominciate dopo gli attacchi missilistici del settembre del 2019 contro importanti impianti di produzione e raffinazione del petrolio in Arabia Saudita. Anche se gli attacchi erano stati rivendicati dagli huthi, gli indizi facevano pensare piuttosto alla mano dell’Iran. Questo evento traumatico per l’Arabia Saudita è stato la molla che ha spinto il regno a tentare seriamente di interrompere il proprio coinvolgimento nella guerra nello Yemen.
All’inizio del 2020 questo piano è stato rimesso in discussione da un’offensiva huthi nel nordest del paese. Gli huthi hanno prima conquistato Nehm, la linea del fronte, a soli sessanta chilometri a est della capitale Sanaa, che era rimasta stabile per quasi quattro anni. Poi hanno preso il controllo di gran parte del governatorato di Al Jawf, arrivando quasi a tagliare la principale strada che collega lo Yemen all’Arabia Saudita e minacciando i giacimenti di petrolio e di gas di Marib. Questa città, con la sua numerosa popolazione, è rimasta circondata e forma come un’isola nel territorio controllato dagli huthi. I sauditi hanno reagito intensificando i raid aerei, mentre continuano i combattimenti a terra.
Il 9 aprile, nonostante tutto, i sauditi hanno mostrato la loro determinazione a chiudere questo capitolo annunciando un cessate il fuoco unilaterale di due settimane, che è stato poi prolungato per tutto il mese di Ramadan. Gli huthi hanno ribattuto proponendo un ambizioso progetto di accordo di pace globale con i sauditi. La bozza di accordo marginalizza il governo di Hadi e sottolinea che i protagonisti del conflitto sono gli huthi e i sauditi, rinviando le discussioni sul futuro politico dello Yemen a un dibattito interno al paese.
In questo periodo i combattimenti a terra e gli attacchi aerei sono proseguiti. Alla fine della terza settimana di “cessate il fuoco”, a metà maggio, ci sono stati 145 raid aerei con 577 bombardamenti. Riassumendo, gli huthi hanno compiuto dei significativi progressi militari e interrotto quattro anni di stallo sul fronte settentrionale, lasciando i sauditi in attesa di una risposta alla loro offerta di pace. Gli huthi hanno preso l’iniziativa, il che solleva la questione di quali siano i loro obiettivi ultimi e la loro effettiva volontà di lasciare che “i sauditi la facciano franca”. Di recente non si sono avute più notizie sui progressi dei colloqui tra sauditi e huthi.
Nuovi problemi a sud
All’inizio del 2020 le prospettive per l’accordo di Riyadh di riconciliare il Cts e il governo di Hadi erano già cupe, dopo che nell’agosto 2019 i separatisti del sud avevano cacciato con la forza da Aden il governo yemenita riconosciuto a livello internazionale. Questo ha coinciso con il ritiro ufficiale degli Emirati con tutto il loro equipaggiamento militare, sebbene abbiano lasciato sul campo alcune milizie allineate con il Cts, che loro hanno addestrato, equipaggiato e finanziato. Gli Emirati hanno appoggiato ufficialmente l’accordo di Riyadh – il principe ereditario Mohamed bin Zayed ha presenziato alla firma – ma la loro posizione attuale non è chiara. Dall’estate del 2019 hanno fornito supporto aereo al Cts nel corso di alcuni scontri nel paese, e lo scorso 25 aprile il leader autoproclamato dell’organizzazione, Aydaroos al Zubaidi, ha annunciato “l’autonomia” da Abu Dhabi. Per aumentare l’ambiguità, l’unica risposta ufficiale degli Emirati a questo annuncio (che viola l’accordo di Riyadh) è stata un tweet del ministro Anwar Gargash che, senza condannare esplicitamente il Cts, ha scritto che l’accordo di Riyadh dev’essere attuato e che nessuno deve intraprendere iniziative unilaterali.
Secondo quanto previsto dall’accordo di Riyadh, alla coalizione internazionale a guida saudita spetta il compito di verificare l’applicazione del patto e di affrontare la situazione nel sud. Dopo il ritiro degli Emirati i sauditi si ritrovano dunque soli. Non sono riusciti a far applicare le clausole sul ridispiegamento, che doveva vedere una riduzione della presenza militare del Cts e il parziale ritorno delle forze governative ad Aden. La tensione tra le due parti si è inasprita per tutto il corso dell’operazione, e la guerra tra il Cts e le forze governative è infine deflagrata l’11 maggio ad Abyan. L’interruzione temporanea dei combattimenti durante l’Aid è tutt’ora in vigore poiché Al Zubaidi è impegnato nei negoziati a Riyadh, su invito delle autorità saudite, preoccupate da questo nuovo problema per la loro exit strategy dallo Yemen.
Il Cts aveva parecchi motivi per prendere l’iniziativa: gli abitanti di Aden sono sempre più arrabbiati per la mancanza di elettricità e di acqua; la situazione economica è così dura che perfino le milizie non vengono pagate, figuriamoci i dipendenti statali; la disoccupazione dilaga; la crisi umanitaria è esasperata dalla mancanza di fondi; c’è l’emergenza legata alla diffusione del covid-19 e, a coronare il tutto, le devastanti inondazioni del 21 aprile. Aden è ormai teatro di manifestazioni quasi quotidiane contro il Cts e il governo Hadi. E nascono dei dubbi sulle capacità dei leader separatisti, visto che il loro governo ha aggravato, invece di migliorare, la situazione.
La dichiarazione di autonomia ha rivelato anche i limiti geografici dell’influenza dei separatisti meridionali: tutti i governatorati dell’est, inclusa l’isola di Socotra, se ne sono dissociati. Solo i governatorati più vicini ad Aden l’hanno sostenuta. In pochi giorni a Socotra, una regione che negli ultimi tre anni è stata contesa tra i separatisti e il governo sono scoppiati dei combattimenti dall’esito tuttora incerto. Sul piano internazionale, la dichiarazione è stata universalmente condannata dai paesi arabi, dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dall’inviato speciale dell’Onu, dall’Unione europea e dai principali stati del mondo, che ne hanno sottolineato l’impatto negativo sui tanti problemi del paese.
Hodeida e il fallimento dell’Onu
Come se tutto questo non bastasse, un altro “successo” è andato in frantumi in questi ultimi due mesi. L’accordo di Stoccolma del dicembre 2018 è stato presentato come un importante progresso e un primo passo verso un accordo di pace più esteso e completo. L’unica parte di questo accordo a essersi concretizzata, la Missione Onu per il supporto dell’accordo di Hodeida (Unmha) ha faticato per tutto il 2019. Ha registrato progressi limitati, tra cui il più importante è stato la significativa diminuzione dei combattimenti a Hodeida e dintorni, oltre all’aver impedito un’offensiva della coalizione potenzialmente disastrosa sulla città e sul suo porto.
Il comitato congiunto per il ridispiegamento ha a malapena cominciato a fare il suo lavoro: a marzo un cecchino huthi ha ucciso un osservatore inviato dal governo Hadi, spingendo l’esecutivo riconosciuto a livello internazionale a ritirarsi dal comitato, che a quel punto non ha più potuto fare niente. Considerata l’emergenza sanitaria legata al covid-19 è poco probabile che i tentativi per rilanciare il comitato porteranno a una ripresa dei lavori in tempi rapidi. In questa fase è legittimo affermare che l’operazione è a un punto morto, anche se l’Onu cercherà di rivitalizzarla quando le condizioni saranno favorevoli. Nel resto del governatorato una guerra a bassa intensità prosegue senza sosta.
È diventato evidente che lo Yemen è uno dei paesi dove la carestia rischia di uccidere milioni di persone
Nel 2019 sono emersi i problemi degli interventi umanitari dell’Onu nel territorio controllato dagli huthi, perché sono venuti alla luce episodi in cui gli huthi hanno cercato di indirizzare gli aiuti verso determinate persone o in cui hanno dirottato questi fondi a vantaggio di funzionari e istituzioni della loro amministrazione. Questo ha impedito all’Onu di elaborare la sua annuale valutazione dei bisogni per il 2020, o un piano di intervento umanitario. Le Nazioni Unite hanno annunciato di aver bisogno di 3,4 miliardi di dollari per quest’anno, senza fornire dettagli e senza tenere l’abituale conferenza dei donatori. Il 15 giugno il totale dei finanziamenti ricevuti ammontava a 720 milioni di dollari, provenienti per oltre la metà da Germania, Regno Unito, Arabia Saudita e Unione europea.
Ad aprile, nel corso della riunione mensile del Consiglio di sicurezza dell’Onu sullo Yemen, il sottosegretario agli affari umanitari delle Nazioni Unite non ha fatto cenno né alla valutazione dettagliata dei bisogni né al piano, semplicemente dichiarando che per mancanza di fondi molti dei progetti umanitari e sanitari sarebbero stati costretti a chiudere i battenti nelle settimane successive, e che per operare fino a luglio l’organizzazione aveva bisogno di più di 900 milioni di dollari, soprattutto per distribuire le derrate alimentari del Programma alimentare mondiale (Pam).
È diventato evidente che lo Yemen è uno dei paesi dove la carestia rischia di uccidere milioni di persone, come effetto secondario della pandemia di covid-19, che implica un crollo della produzione e delle esportazioni alimentari mondiali, una diminuzione dei fondi umanitari internazionali e l’interruzione delle linee di comunicazione. Questi fattori non fanno altro che aggravare il disastro, in un paese dove circa 2.800 strutture sanitarie funzionano solo parzialmente in un sistema che già prima della guerra era totalmente inadeguato. E se da una parte l’Onu afferma di prepararsi ad affrontare il covid-19 nello Yemen, dall’altra avverte che questo avverrà a scapito della lotta contro il colera. Questa malattia ha già colpito quasi un milione di persone nel 2019 e nei primi quattro mesi di quest’anno sono stati registrati più di 110mila casi. Anche la dengue, la malaria, la chikungunya e altre malattie sono diffuse a livello epidemico.
Un panico giustificato
Il primo caso registrato di covid-19, annunciato il 9 aprile, è stato individuato a Shihr, nell’Hadramawt, e il paziente ora è guarito. Da allora i contagi sono stati almeno 705 (dati aggiornati al 15 giugno), un numero sicuramente sottostimato. Tutti si aspettano un peggioramento della situazione e un numero di vittime elevato, considerata la debolezza fisica degli yemeniti, provati da anni di malnutrizione e servizi sanitari inadeguati, per non parlare della mancanza di centri di cura specializzati.
I 40 milioni di dollari stanziati dall’Onu per la lotta al covid-19 sono palesemente insufficienti. Un’iniziativa del settore privato lanciata dalla fondazione Hayel Saeed Anam ha messo insieme alcune aziende internazionali per acquistare e distribuire dispositivi di protezione in tutto lo Yemen. Davanti alla crisi gli yemeniti sono combattuti tra l’incredulità e il panico. Le reazioni delle autorità in tutto il paese non promettono nulla di buono per i prossimi mesi, caratterizzate come sono dalle reciproche accuse, razzismo, xenofobia, censura, disinformazione sistematica e decisioni impulsive.
Nelle ultime settimane il numero di casi e di decessi è aumentato notevolmente, e le diverse “autorità” hanno reagito in modi contrastanti ma ugualmente inadeguati, suscitando ancora di più il panico e la paura. Ad Aden centinaia di persone sono morte di patologie misteriose con sintomi simili a quelli del covid-19, ma gli ospedali respingono i pazienti e alcuni hanno perfino chiuso. Secondo Medici senza frontiere (Msf) ogni giorno in città vengono seppellite un’ottantina di persone. A Sanaa le autorità non forniscono dati sui decessi o sui casi registrati, e ostacolano la diffusione delle informazioni. Tuttavia sono emersi rapporti che parlano di più di 2.500 casi e di almeno 320 morti nelle prime tre settimane di maggio. Tutte le autorità hanno ordinato misure di isolamento per i quattro giorni di festa dell’Aid ma non è stato fatto nulla per farle rispettare.
Come se non bastasse, a fine aprile il paese è stato colpito da alluvioni devastanti che hanno causato danni ingenti nelle città di Sanaa, Aden e Marib. L’approvvigionamento di acqua potabile e di elettricità si è interrotto per milioni di persone, mentre altre 150mila ne hanno subìto le conseguenze dirette. Il numero dei morti non è stato alto, ma molti hanno perso i loro beni e le poche scorte alimentari che avevano messo da parte per il Ramadan.
Il 22 maggio sono stati i trent’anni dell’unificazione pacifica tra la Repubblica Araba dello Yemen (nord) e la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (sud), da cui nacque lo stato di oggi. Avrebbe dovuto essere un’occasione di festeggiamenti. Ma dato che la maggior parte degli yemeniti è nata dopo il 1990 pochi ricordano il periodo precedente o i sogni legati all’unità. In tutto il paese gli yemeniti attendevano con impazienza la libertà di movimento, uno stato democratico multipartitico, una prosperità che combinasse i servizi sociali del regime socialista con un fiorente settore privato, una legge che concedesse uguali diritti alle donne, il consumo di qat nei giorni festivi, sicurezza, stabilità, e tanto altro ancora. Sono stati amaramente delusi. In questo periodo buio, alla generazione dei più giovani bisognerebbe ricordare la speranza e l’ottimismo di quegli anni perché imparino le lezioni di un’epoca che era tanto promettente.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
Questo articolo è uscito sul sito di approfondimento sul Medio Oriente Orient XXI.
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