I computer dovrebbero essere invisibili
La gioia che un tempo provavo quando usavo un computer si è trasformata in buona parte in angoscia. Queste macchine fornivano un modo unico e coinvolgente di fare le cose, che si trattasse di scrivere, fare acquisti su internet, comunicare con gli altri o guardare un film. Ma oggi i dispositivi e i servizi fanno di tutto per convincerci a sostituire ogni attività con l’uso del computer. Ormai il tempo che passo a usare i computer è lo stesso che dedico a cercare di evitarli.
Per sottrarmi all’influenza delle macchine provo a immergermi in attività più concrete, come la cura del prato o le politiche di sviluppo urbano. Eppure respingere i computer, considerarli incompatibili con queste attività, sembra poco lungimirante. Possibile che queste macchine magiche e potenti siano inutili per scopi più modesti?
Me lo sono chiesto mentre ero in sella a una bicicletta durante un pomeriggio d’autunno insolitamente caldo. Sul manubrio avevo appena montato Omata One, un dispositivo realizzato da una startup di Los Angeles. Somiglia a un orologio complicato, oppure al contachilometri di un’auto sportiva di lusso. L’ho acceso girando una rotella e una grossa lancetta rossa ha segnalato che si stava attivando il segnale gps. Qualche istante dopo, mentre pedalavo, la lancetta indicava dieci, quindici, venti chilometri all’ora.
La cosa più interessante era l’aspetto assolutamente banale della questione. È un misuratore di velocità. Su una bicicletta. E quindi? Eppure il risultato è inedito.
Esiste una velocità perfetta per osservare il mondo da una bici, ed è circa di 30 chilometri all’ora
Lo smartphone nella mia tasca vibra: un sms, una notifica di Slack o chissà che altro, e mi ricordo il perché. Oggi i computer cercano di trascinare al loro interno le attività che le persone svolgono al di fuori di essi. Ma Omata mi sta spingendo altrove. Mi invita a concentrarmi sull’attività non informatica che sto praticando, invece di ricordarmi di tutte le altre, digitali, che potrei scegliere al suo posto. Cosa succederebbe se più computer avessero questa stessa ambizione?
“Pedalare in bici è una vera esperienza analogica”. Rhys Newman, l’amministratore delegato di Omata, ha un accento gallese che fa suonare il suo discorso più profondo, quasi spirituale. “Si tratta di un essere umano che controlla in modo analogico una macchina in base al suo sforzo fisico”. Non un fatto spirituale, quindi, ma corporeo. Usare la tecnologia per facilitare un’attività fisica, invece che per sostituirla.
Rhys Newman e Julian Bleecker, il cofondatore di Omata e responsabile tecnologico dell’azienda, si sono conosciuti mentre lavoravano alla Nokia. Facevano parte di un team segreto dell’azienda, un gruppo di lavoro chiamato “everyday adventure” che aveva sede a Los Angeles, dove i due progettavano prodotti per l’attività all’aperto, tra i quali una fotocamera e un misuratore di prestazioni sportive.
Da principale produttore mondiale di cellulari, la Nokia ha perso il 93 per cento del suo valore tra il 2000 e il 2013, quando la Microsoft ha comprato la sua divisione di dispositivi mobili. L’azienda era impreparata all’arrivo degli smartphone. Tra il 2000 e il 2007 si era preoccupata di ridurre le dimensioni e il costo dei telefoni, aumentando l’efficienza delle batterie. Dopotutto erano telefoni per gente comune, non marchingegni da dirigenti come i BlackBerry. Quando l’iPhone aveva dimostrato che questo approccio era sbagliato, la Nokia aveva cercato di seguire le orme della Apple (e poi della Samsung), creando dispositivi con più connettività, con schermi più grandi e macchine fotografiche migliori. L’obiettivo era ormai di massimizzare l’attenzione più che di facilitare la comunicazione.
Il progetto di Newman e Bleecker era nato più o meno quando la Nokia stava toccando il suo punto più basso. Nel tentativo disperato di rovesciare il corso degli eventi, il gruppo di Los Angeles sperava di trovare un punto di forza usando una fotocamera connessa. I due avevano pensato alla loro preferita: la Leica, l’azienda tedesca produttrice di macchine fotografiche a telemetro. La linea ammiraglia della Leica, la M, nel 2006 aveva un sensore digitale, ma per il resto era completamente meccanica. Per fotografare occorreva regolare manualmente la messa a fuoco e l’apertura. Per questo motivo, una Leica va usata con una certa consapevolezza, che rende il processo di creazione dell’immagine non solo un mezzo ma un obiettivo. Questa consapevolezza avrebbe poi fatto la sua comparsa in Omata, uno strumento che promette un “legame più profondo con la bici”.
Piedi, gambe, cuore, polmone, pedali, catene e marce collaborano per far andare avanti la bicicletta
I prodotti “everyday adventure” della Nokia sono stati cancellati nell’autunno del 2014 e Bleecker e Newman si sono ritrovati a spasso nelle colline e nelle spiagge assolate di Los Angeles. Mentre lavoravano alla Nokia, Newman, un appassionato ciclista, aveva convinto Bleecker a dedicarsi al suo stesso passatempo.
Come in una Leica, il tachimetro dall’aria analogica di Newman e Bleecker trasuda buona progettazione e qualità dei materiali. Invece di uno schermo con un’infinità di dati mostra solo velocità, distanza, dislivello e tempo trascorso. Il risultato è ricco di dettagli, come in uno strumento complesso. Dopo la Apple, l’attenzione per il dettaglio è diventata sinonimo di minimalismo. Ma uno schermo enorme capace di mostrare qualsiasi cosa è davvero minimalista? La realtà è che diventa più complicato e più rischioso concentrarsi sulle informazioni.
Osservando gli indicatori sul dispositivo noto qualcosa di strano. Quando è inattivo, il misuratore di velocità indica verso sinistra, a ore nove. A ore 12 si trova un ampio indicatore con scritto 18 miglia all’ora (30 chilometri). Newman era impaziente di spiegarmi il motivo. “Tutti i ciclisti lo sanno”, mi ha spiegato. “Esiste una velocità alla quale diventa confortevole osservare il mondo in movimento, ed è circa di 30 chilometri all’ora”. Quando raggiungi questa velocità, la lancetta principale di Omata indica la direzione verso la quale ti stai muovendo. È come se il misuratore ti stesse sostenendo e fremesse d’orgoglio.
L’apparenza analogica di Omata nasconde tutti i componenti elettronici che permettono al dispositivo di funzionare. “Non si direbbe che dentro c’è un computer”, dice Bleecker. In realtà lo fanno funzionare un microregolatore, un sensore gps, un barometro e una serie di motori. Dopo il giro in bici, può essere collegato a un computer o connesso senza fili a uno smartphone per scaricare altri dati, come prestazioni, distanze, mappe e così via. “Il nostro obiettivo non è liberarsi dell’informatica”, spiega Bleecker, “ma nasconderla”.
Febbre analogica
Al giorno d’oggi, le persone cercano di nascondere l’informatica fuggendo lontano dai computer, come faccio io quando mi dedico alla cura del prato. Le macchine “si nascondono” dentro gli uffici o nelle tasche delle giacche in modo che i proprietari possano dedicarsi ad altre attività. In alcuni casi, il desiderio di sfuggire ai computer degenera in nostalgia. La parola “analogico” indica ormai, come prima cosa, la nostalgia per il passato, un modo di opporsi ai bit o addirittura di abbandonarli a favore degli atomi di materia. Ma la linea che separa analogico e digitale non è così netta.
Scrivendo sul New York Times nel 2015, Rob Walker osservava una “febbre analogica” nella cultura contemporanea, una controrivoluzione rispetto a quella digitale. Walker rilevava altrettante prove di questa febbre nella crescita delle vendite dei dischi in vinile e nel declino degli ebook a vantaggio della carta stampata.
La cosa appare sensata ma, volendo essere precisi, il semplice fatto di “non essere un computer” non rende una cosa analogica. I dispositivi analogici trasmettono informazioni tramite una rappresentazione variabile di tali informazioni. Creano una rappresentazione analogica, in forma fisica, di un segnale d’origine. Un orologio meccanico, per esempio, misura il passaggio del tempo con una serie di lancette, mosse da una molla caricata, che attraversano la superficie visibile dell’orologio. Nel caso di una bicicletta, come suggerisce Newman, il carter muove la bicicletta proporzionalmente allo sforzo fisico del ciclista.
I dispositivi digitali, invece, provocano un’ondata di movimento a intervalli regolari, convertendo tali misure in valori nascosti che sono poi manipolati dai dispositivi elettronici. Dal momento che i computer sono macchine che di solito rilevano, immagazzinano e manipolano i segnali digitali che ne derivano, il termine “digitale” ha finito per indicare qualsiasi cosa utilizzi la tecnologia informatica. A sua volta l’aggettivo “analogico” ha cominciato a essere usato per tutto quanto “non comporta l’uso di computer”, e non di trasmissione continua di un segnale dotato di massa fisica.
Si tratta di un piccolo cambio di senso, ma la confusione che ne deriva rende meno chiare le differenze tra il mondo informatico e quello non informatico. Alcuni degli esempi di Walker sono analogici nel senso originario del termine. Un disco in vinile, per esempio, registra un flusso continuo di suono sotto forma di scanalature sulla superficie di un disco. Le vibrazioni che hanno prodotto tali scanalature vengono in seguito percorse dall’ago del giradischi, che le amplifica per permettere l’ascolto.
Ma un libro cartaceo è un mix di metodi. La stampa in offset è un processo analogico, ma oggi molti libri “analogici” sono stampati digitalmente. Per rilegarli occorre piegare, tagliare e incollare, tutti processi che non sono né analogici né digitali, bensì ibridi. Anche i libri sono ibridi: un documento digitale è inutile senza un dispositivo sul quale leggerlo, fatto di circuiti, vetro, metallo e plastica. Se le persone tendono a dividere il mondo tra oggetti informatici e non, allora non c’è da stupirsi se i computer sono contrapposti a tutto quanto esiste al di fuori di essi.
Se un dispositivo deve svolgere un solo compito, allora deve farlo in modo straordinario
Oggi quasi tutto è ibrido. Anche dispositivi all’apparenza analogici sono in parte anche ibridi. I veicoli moderni, per esempio, sono perlopiù controllati dai computer. In passato, premendo l’acceleratore si apriva una valvola che portava carburante e aria nel motore. Ma oggi il pedale è solo un regolatore dell’iniettore di carburante, che è gestito da un computer.
Omata somiglia più a una cosa del genere che a un giradischi o perfino a un orologio da polso. Le sue lancette non sono alimentate meccanicamente come in un orologio, ma funzionano come dei display per i dati. La radio gps del dispositivo segnala il cambiamento di posizione della bicicletta, traducendolo in velocità e distanza. Un barometro digitale calcola l’altitudine grazie al cambio di pressione barometrica. Il microregolatore trasforma queste letture in input di dati per la posizione delle lancette. Le sue componenti elettroniche attivano poi una serie di motori passo-passo, che fanno muovere dolcemente le lancette in modo da mostrare le giuste misure sul dispositivo.
Questo stesso procedimento viene usato in altri strumenti dotati di contachilometri e apparentemente analogici, prova ulteriore del fatto che esperienze apparentemente analogiche sono anche informatiche. L’obiettivo ingegneristico di Omata non era creare un misuratore di velocità digitale, come ne esistono da tempo. Era quello di ridurre le componenti del motore passo-passo in modo che potessero entrare in un computer montato su un manubrio invece che nel cruscotto di un veicolo.
Anche se non priva di ostacoli, questa decisione era fondamentale per nascondere il computer. Bleecker inizialmente aveva preso in considerazione una componente di un produttore di orologi svizzero, ma era troppo debole e rozza. Ha così optato per quel tipo di motori usati nelle macchine fotografiche con messa a fuoco automatica, capaci di muovere un peso considerevole mantenendo comunque un punto focale specifico.
La precisione digitale, inoltre, crea l’illusione di un funzionamento analogico. La frequenza di campionamento del sensore gps di Omata calcola una risoluzione inferiore a un metro, che è meno della distanza tra le due ruote di una bicicletta. Anche se il dispositivo effettua molti calcoli digitali, ha una risoluzione tale da far sembrare analogico il risultato. Esattamente come un ebook è una fusione di plastica, vetro, silicone e software, un misuratore di velocità è una fusione di microregolatori, sensori, motori e visori e puntatori metallici o di plastica.
Nel mondo delle biciclette circola molto denaro, con o senza nostalgia
Allora da dove deriva la tentazione di definire questo dispositivo “analogico”? Secondo Bleecker la propensione alla nostalgia è il desiderio di provare esperienze specifiche con materiali reali. “Perché mai qualcuno vorrebbe una Leica quando ha già un iPhone?”, riflette Bleecker. “Quel che conta è il contesto dell’uso. Il modo in cui vieni spinto a usare quella macchina per creare un’esperienza”. Saper usare l’apertura e il telemetro per decidere l’inquadratura e l’esposizione di un’immagine è diverso dallo scattare un ritratto usando l’intelligenza artificiale, per poi condividerlo sui social network. Il termine “analogico” è ormai usato per descrivere un’attività svolta con uno scopo, specialmente se è uno scopo che va oltre il fatto di usare semplicemente un computer.
Quando si parla di biciclette, lo scopo di pedalare può essere l’esercizio, la competizione, lo svago o il trasporto per andare e tornare dal lavoro. Ma questi sono solo obiettivi. L’esperienza di andare in bicicletta, secondo Bleecker e Newman, sta nel far convivere biologia umana e movimento meccanico. Piedi, gambe, cuore, polmone, pedali, catene e marce collaborano per far andare avanti la bicicletta. Il loro dispositivo, sperano, contribuirà a orientare i ciclisti in questo rapporto mutevole tra corpo e bicicletta.
Il computer continua a rimanere dietro le quinte, registrando e immagazzinando i dati come farebbero uno smartphone o un tradizionale ciclocomputer. Mentre si pedala non servono troppi dati. Il ciclista è incoraggiato a concentrarsi sulle informazioni che contribuiscono a “mantenere il piacere della corsa in bici”: velocità, distanza e dislivello. Secondo Bleecker questo interesse per un’esperienza specifica giustifica l’ossessione alla base del design di Omata. “Se un dispositivo deve svolgere un solo compito, allora deve farlo in modo straordinario”.
Il prezzo di un’esperienza
Questa ossessione ha un prezzo. Al prezzo di 550 dollari, Omata potrebbe essere liquidato come un capriccio per gente ricca. L’ho portato da Pro Bikes, un negozio di biciclette di Atlanta. Il responsabile clienti del negozio, John Eckert, è andato in estasi per il design e la qualità dei materiali, prima di sogghignare quando ha saputo il prezzo. “Chiunque può scaricare gratuitamente un’app che fa le stesse cose”, mi ha detto Eckert, prima di ammettere che un ciclocomputer Garmin dotato di gps può costare altrettanto, se non di più. Uno di questi è attaccato al manubrio di una bicicletta su cui ha messo le mani da poco e il cui valore complessivo è probabilmente superiore ai diecimila dollari. Nel mondo delle biciclette circola molto denaro, con o senza nostalgia.
Le fonti d’ispirazione del design di Omata ricevono critiche simili. Le macchine fotografiche Leica e gli orologi svizzeri costano migliaia di dollari. Il loro prezzo potrebbe scendere sensibilmente con volumi di vendita più elevati. Ma questo non è successo. Sono invece spuntate molte alternative: fotocamere reflex e compatte, orologi al quarzo o digitali. Alternative più economiche che producono risultati simili.
Quello che però non offrono sono esperienze simili. Come imparare a valutare l’esposizione o a determinare la zona di messa a fuoco con un telemetro. O il rituale di ricaricare manualmente un orologio meccanico. Esperienze come queste erano diventate fuori moda, non perché fossero spiacevoli ma perché alternative più economiche le avevano rese obsolete. Così facendo, l’esperienza si è trovata a essere subordinata allo scopo.
A volte il computer sparisce totalmente nei sistemi integrati, come nelle automobili
Lo smartphone è l’esempio definitivo di un contesto d’azione unificato. È un orologio, un telefono, una fotocamera, un ciclocomputer, qualsiasi cosa insomma. Ma il prezzo da pagare per questa praticità è stato la rinuncia alle esperienze fisiche di tutte le attività che sono state automatizzate dagli smartphone. I dispositivi specializzati, semplicemente, non possono competere con la potenza e l’onnipresenza dei computer. E così i computer sono diventati la strada da seguire per raggiungere ogni obiettivo e la distrazione che ostacola il raggiungimento di questi obiettivi.
Non sono un ciclista e, a dire la verità, far sì che la lancetta puntasse dritta ai 30 chilometri orari, più che stimolarmi, mi terrorizzava. Ma quando mi sono sforzato di scalare una collina, potevo vedere questo sforzo rappresentato dal movimento della lancetta. Ogni sbandata e discesa era visibile, e tracciava un arco sul dispositivo invece di aggiornare dei numeri astratti su un display a cristalli liquidi. Mi sono sentito più in sintonia con la mia bicicletta e con il tragitto.
Mentre me ne torno a casa dopo il mio giro di prova, penso al desiderio di Bleecker di “nascondere il lato informatico”. Cosa succederebbe se ogni cosa avesse l’umiltà di chi rifiuta la tecnologia, senza rinunciare per questo alla potenza della tecnologia? E se l’Apple Watch avesse tratto ispirazione dalla Leica invece che dall’iPhone?
Ansimante, apro la porta di casa e accendo la luce. A fissarmi c’è un dispositivo programmabile che ho installato per controllare le luci della veranda. È un piccolo marchingegno che registra la data, l’orario, la longitudine e la latitudine e poi accende automaticamente le luci all’approssimarsi del tramonto, spegnendole quando si avvicina l’alba. È programmato per l’ora legale ed è dotato di un super-condensatore in caso di blackout. Fa tutto questo senza un dispositivo intelligente per la casa o una connessione alla rete. A un costo di circa 35 dollari.
L’interruttore mi ricorda che il sogno di un’informatica nascosta e discreta è già una realtà. È solo che i computer nascosti sono già di per sé invisibili. Prima che gli smartphone e l’internet delle cose spingessero i computer in primo piano, questo genere di dispositivi erano chiamati sistemi integrati. È un nome che indica i computer progettati per scopi specifici e installati all’interno di un apparato che li ospita.
I sistemi integrati sono ovunque. Sono nelle calcolatrici. Nei forni a microonde e nelle lavastoviglie. All’interno di macchine fotografiche e termostati. Dentro strumenti medici e automobili. Dal momento che i sistemi integrati sono costruiti per un uso specifico, possono funzionare in modo semplice, limitando sia i costi sia l’energia necessaria per farli funzionare. Per questo motivo richiedono anche una maggiore abilità nella progettazione e nella produzione.
I sistemi integrati sono ovunque, ma la maggior parte delle persone non sa nemmeno che esistono. La storia dei computer, passati da essere uno strumento a essere uno stile di vita è anche la storia della loro maggiore visibilità. Bill Gates sognava “un computer per ogni scrivania di ogni casa”. Gli adesivi della Intel Inside rendevano i microregolatori nascosti dell’azienda visibili quanto meno come nome. Gli smartphone hanno spinto le persone ad aggrapparsi ai computer, facendone una parte fondamentale della loro esistenza. E oggi dispositivi come Amazon Echo e Google Home stanno trasformando i computer, in qualche modo, in persone di famiglia. Ovunque i computer ci urlano: “Eccomi! Sono un computer!”.
Eppure anche i microonde sono dei computer, almeno in parte. Lo stesso vale per lavatrici, automobili e perfino gli interruttori della luce, a volte. Sono ormai anni che questi sistemi discreti “nascondono il loro lato informatico”. La loro funzione è servire altri scopi. Come riscaldare il caffè o azionare le luci della veranda. A volte il computer scompare totalmente nei sistemi integrati, come nelle automobili. Altre volte scompare dopo l’installazione, come nel mio interruttore per le luci. Omata può forse apparire come un ciclocomputer per ciclisti facoltosi e di sicuro, in parte, lo è. Ma è anche il precursore del ritorno della discrezione dei computer. Non mira a cambiare il mondo, né ad allontanare i ciclisti dai loro smartphone. Ma è un oggetto che potrebbe rendere un po’ più piacevole un giro in bicicletta.
Immaginate cosa succederebbe se la tecnologia fosse più spesso così. Non un computer per qualsiasi cosa, ma qualsiasi cosa con un computer all’interno.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato da The Atlantic.
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