Questo articolo è stato pubblicato il 3 agosto 2012 nel numero 960 di Internazionale.
Junko Kitahama ha il volto livido, la bocca spalancata, la testa riversa all’indietro come quella di un uccello morto. Dietro le lenti della maschera subacquea, gli occhi sbarrati fissano il sole. Non respira.
“Soffiale sulla faccia!”, grida un uomo che nuota vicino a lei. Un altro le solleva la testa per tenere il mento fuori dall’acqua e urla: “Respira!”. Da una barca qualcuno chiede dell’ossigeno. “Respira!”, ripete l’uomo. Ma Kitahama, che è appena tornata in superficie dopo essere scesa in apnea a più di cinquanta metri di profondità, non respira né si muove. Sembra morta.
Poi si mette a tossire, sussulta, contrae le spalle e sbruffa. Mentre riprende i sensi il suo volto si rilassa. “Stavo nuotando e…”, sorride, poi aggiunge, “all’improvviso ho cominciato a sognare!”. Due uomini l’avvicinano lentamente al gommone con la bombola d’ossigeno. Mentre si riprende, attaccata alla mascherina, un altro apneista si prepara a un’immersione ancora più profonda.
Kitahama è giapponese. È una degli oltre centotrenta atleti di trentuno nazionalità diverse che si sono dati appuntamento qui – al largo della città greca di Kalamata, nelle acque turchesi della baia di Messenia – per i campionati mondiali di apnea profonda del 2011, organizzati dall’Associazione internazionale per lo sviluppo dell’apnea (Aida). Per una settimana ogni partecipante sarà impegnato in una sfida con se stesso e con gli altri: raggiungere la massima profondità senza svenire, perdere il controllo dei muscoli o annegare. Chi vince riceve una medaglia.
Quanto in profondità possono andare? Nessuno lo sa. L’immersione in apnea agonistica è uno sport nuovo e dal 1996, l’anno dei primi campionati mondiali, i record sono stati sempre battuti, a volte nel giro di pochi mesi. Fino a cinquant’anni fa gli scienziati credevano che un essere umano in apnea non potesse scendere oltre i cinquanta metri. Di recente, però, quella soglia è stata ripetutamente raddoppiata o triplicata. Nel 2007 Herbert Nitsch, un austriaco di 42 anni, è sceso a 214 metri di profondità stabilendo un nuovo record mondiale. Nel giugno del 2012 è sceso a -244 metri, più del doppio della lunghezza di un campo da calcio.
Nessuno è mai annegato in una gara ufficiale, ma nella pratica non agonistica sono morte tante di quelle persone che l’immersione in apnea è considerata il secondo sport estremo più pericoloso dopo il base jumping. Secondo uno studio internazionale, tra il 2005 e il 2008 il numero di incidenti mortali è quasi triplicato, passando da 21 a 60 all’anno.
Tutto sotto controllo
Solo alcuni di questi incidenti hanno fatto notizia. L’apneista francese Audrey Mestre, moglie di Francisco “Pipín” Ferreras, il pioniere di questo sport, è morta nel 2002 durante una discesa con zavorra a 171 metri di profondità. Ancora oggi si discute delle presunte responsabilità di Ferreras, che si era occupato delle misure di sicurezza. Nel giugno del 2011 Adel Abu Haliqa, uno dei fondatori di un club di apneisti negli Emirati Arabi Uniti, è annegato a Santorini, in Grecia, mentre cercava di scendere a -70 metri. Il suo corpo non è ancora stato ritrovato. Un mese dopo il belga Patrick Musimu, ex campione mondiale, è morto mentre si allenava da solo in una piscina a Bruxelles.
Gli agonisti assicurano che all’origine di questi incidenti c’è sempre la negligenza: le vittime erano scese in acqua da sole o affidandosi ad apparecchi ausiliari, due comportamenti molto rischiosi. “L’immersione in apnea agonistica è uno sport sicuro, con regole e controlli rigorosi”, spiega il campione mondiale neozelandese William Trubridge. “Altrimenti non lo farei”. Nelle oltre 39mila immersioni agonistiche degli ultimi dodici anni, osserva Trubridge, non c’è mai stato un incidente mortale.
Trubridge e i suoi colleghi sperano di migliorare l’immagine di questo sport grazie a eventi come i campionati mondiali. A Kalamata, uno dei centri per l’apnea agonistica più noti, possono contare sul sostegno delle autorità, che in occasione dei campionati del 2011 hanno organizzato una cerimonia d’apertura sul lungomare. Come in un’olimpiade in miniatura, centinaia di persone tra atleti, allenatori e assistenti sventolano bandiere e cantano inni nazionali su un palco enorme. Dietro di loro, quaranta musicisti eseguono un’improbabile versione della colonna sonora di Rocky, mentre su un maxischermo scorrono le immagini sgranate di alcune vecchie immersioni.
Poi le luci del palco calano, lo schermo si oscura e gli altoparlanti si spengono. Qualche istante dopo nel cielo notturno esplode una raffica di fuochi d’artificio. I partecipanti applaudono, mentre le poche centinaia di abitanti del posto guardano perplesse. I campionati mondiali di immersione in apnea sono ufficialmente cominciati.
Le regole
Due giorni dopo la cerimonia d’apertura, in una mattinata calda e senza vento, raggiungo la marina di Kalamata, dove Yanis Georgoulis, un tizio del Québec dall’aria trasandata, mi aspetta per accompagnarmi in barca alla prima gara. Anche se c’è chi spera di renderlo popolare, questo sport ha un problema intrinseco: è quasi impossibile da seguire. Tutto si svolge sott’acqua, non ci sono riprese video per il pubblico e anche solo avvicinarsi alla scena dell’azione è una sfida logistica. Oggi la base d’appoggio è una piccola flotta di barche, piattaforme e attrezzature che sembrano uscite dal set di Waterworld.
Mentre prendiamo il largo all’ombra delle montagne frastagliate della costa, ripasso mentalmente le complicate regole dell’apnea agonistica. La gara comincia la sera prima dell’immersione, quando gli a-tleti comunicano alla giuria la profondità che pensano di raggiungere. L’informazione è segreta, e ogni partecipante cerca di indovinare cosa faranno gli avversari. “È come una partita a poker”, mi spiega Trubridge. “Devi sfidare gli altri atleti, ma anche te stesso”. Tutti sperano che gli avversari abbiano scelto un obiettivo meno ambizioso o, in caso contrario, che facciano fiasco. Il risultato non è valido se l’atleta non rispetta una lunga serie di requisiti tecnici durante e dopo l’immersione, oppure se perde conoscenza prima del ritorno in superficie (il cosiddetto blackout, che costa la squalifica). I blackout non sono frequenti in gara, almeno così mi dicono, ma avvengono abbastanza spesso da rendere necessarie alcune misure di sicurezza, tra cui la presenza di soccorritori, l’uso di un sonar, che consente di localizzare l’apneista dalla base d’appoggio, e di un cavetto di sicurezza agganciato alla caviglia dell’atleta per impedire che si allontani dal cavo guida: un’eventualità potenzialmente fatale.
Qualche minuto prima di ogni immersione, un piattello di metallo rivestito di velcro bianco è attaccato al cavo guida e portato alla profondità indicata dall’atleta la sera prima. Il giudice di gara comincia il conto alla rovescia, l’apneista si immerge e segue il cavo fino al piattello, da cui deve strappare un cartellino prima di risalire in superficie.
Chi compie con successo l’immersione è sottoposto a una serie di test, chiamati “protocollo di superficie”, per verificare la lucidità mentale e le abilità motorie degli atleti: bisogna togliersi la maschera, fare un rapido segnale con la mano al giudice e dire “I’m ok”. Chi supera i test riceve un cartellino bianco e l’immersione è considerata valida.
“Le regole servono a garantire che dall’inizio alla fine della prova l’atleta abbia il pieno controllo della situazione”, spiega Carla Sue Hanson, portavoce dell’Aida. “La parola chiave dell’apnea agonistica è proprio questa: controllo”. Finché è tutto sotto controllo, non importa se (come a volte succede) si rompono i vasi sanguigni del naso e l’apneista riemerge con la faccia di Sissy Spacek in Carrie di Stephen King. “Ai giudici non interessa l’aspetto degli atleti”, assicura Hanson. “Se le regole sono rispettate, il sangue non è un problema”.
Dopo un’ora raggiungiamo le altre barche. Non ci sono tifosi. Sono ammessi solo i giudici di gara, gli atleti, gli allenatori e pochi assistenti. Oggi siamo una quindicina in tutto. Sulla barca gli apneisti fanno riscaldamento muovendosi a passi lenti e pesanti, con gli occhi sgranati, assorti nella meditazione. Uno, due, tre: scivolano in acqua come lontre, poi si mettono a pancia in su, in apparente stato semicomatoso, mentre i loro allenatori li avvicinano lentamente a una delle tre cime attaccate alle barche. Un giudice annuncia un minuto al via, poi la gara comincia.
In piedi sulla barca, con lo stomaco che mi si stringe, mi chiedo se tutto questo sia normale e, se lo è, perché diavolo sia permesso
L’immersione in apnea comprende varie discipline: quella di oggi si chiama “assetto costante senza pinne” (constant weight without fins, Cnf). Gli atleti s’immergono contando solo sui loro muscoli, sui polmoni e su una zavorra facoltativa che, se usata, dev’essere riportata in superficie. Delle sei specialità dell’apnea agonistica, che vanno dalle discipline di profondità come l’immersione libera (l’atleta può usare il cavo guida per spingersi in fase di discesa e di risalita) a quelle che si svolgono in piscina come l’apnea statica (l’atleta trattiene semplicemente il respiro), il Cnf è considerata la più pura. Il campione è Trubridge, che nel dicembre del 2010 ha battuto il record mondiale raggiungendo i 101 metri di profondità. Oggi proverà a toccare i -93 metri: meno del suo record, ma è comunque l’obiettivo più ambizioso in programma. Prima del suo arrivo una decina di atleti sono già pronti a immergersi.
Il giudice di gara sul primo cavo comincia il conto alla rovescia da dieci, annuncia l’official top (l’inizio della prova) e riprende a contare: “Uno, due, tre, quattro, cinque…”. La prima atleta, l’olandese Wendy Timmermans, ha tempo fino a trenta per immergersi. Inspira le ultime boccate d’aria, mette la testa sott’acqua e va giù. Mentre il suo corpo scende tra le ombre del Mediterraneo, l’addetto alla sicurezza comunica la profondità raggiunta a intervalli di pochi secondi. Due minuti più tardi, dopo aver toccato i 52 metri di profondità, Timmermans riemerge e supera il protocollo di superficie, stabilendo un nuovo record nazionale. Un altro atleta parte dal secondo cavo, un altro ancora si prepara sul terzo.
L’apneista sul cavo tre fa un ultimo respiro, scende a -60 metri, raggiunge il piattello e, dopo tre interminabili minuti, torna in superficie. “Respira!”, grida il suo allenatore. L’atleta sorride, sussulta, poi respira. Ha il viso smorto. Prova a togliersi la maschera, ma le mani sono irrigidite e tremano. La mancanza di ossigeno ha provocato una perdita del controllo muscolare. L’atleta galleggia con lo sguardo assente e una smorfia ebete sul volto, probabilmente senza sapere dove si trova.
Dietro di lui un altro apneista riemerge. “Respira! Respira!”, urla un assistente. L’uomo ha il volto livido e non respira. “Respira!”, ripete un altro. Alla fine tossisce, scuote lievemente la testa ed emette un suono lieve e stridulo, simile al verso di un delfino.
Queste scene si ripetono per mezz’ora. In piedi sulla barca, con lo stomaco che mi si stringe, mi chiedo se tutto questo sia normale e, se lo è, perché diavolo sia permesso. Tutti gli atleti firmano una liberatoria in cui si dichiarano consapevoli dei rischi di attacco cardiaco, blackout, intossicazione da ossigeno e annegamento. Ma ho la sensazione che queste gare vadano avanti soprattutto perché le autorità locali non hanno idea di cosa succede in alto mare.
Il campione
Arriva Trubridge: occhiali da sole, cuffie sulle orecchie, torace enorme da cui partono gambe e braccia affusolate. Vedo i suoi polmoni giganteschi alzarsi e abbassarsi da una distanza di dieci metri. È così assorto nella sua meditazione che quando entra in acqua, attacca il cavetto alla caviglia e si prepara all’immersione sembra quasi morto. “Cinque, quattro, tre, due, uno”, scandisce il giudice. Trubridge si immerge e scende rapidamente. Quando il giudice annuncia “venti metri” affondo lo sguardo nell’acqua azzurra e limpida. Trubridge allunga le braccia sui fianchi e va giù senza sforzo, sparendo tra le ombre degli abissi. È un’immagine bella e paurosa al tempo stesso. Provo a trattenere il respiro insieme a lui, ma dopo trenta secondi mi arrendo.
Trubridge supera i 30, i 45, poi i 60 metri di profondità. Dopo quasi due minuti di immersione, l’addetto alla sicurezza annuncia il touchdown – a -93 metri – e comincia a seguire la risalita. Sono passati 3 minuti e 43 secondi quando Trubridge riappare dall’oscurità. Ancora qualche bracciata e torna in superficie, espira, si toglie gli occhialetti, fa un cenno di conferma e dice con il suo spiccato accento neozelandese: “I’m ok”. Sembra quasi annoiato, come se la sua mente e il suo corpo fossero indifferenti al fatto che si è appena immerso – senza pinne né altro – a una profondità pari a trenta piani.
I due giorni successivi sono di riposo. Martedì, a metà mattina, nel cortile dell’hotel Messinian Bay, le squadre si riuniscono ai tavoli per discutere di strategie e scrivere ai familiari preoccupati. Sono quasi tutti uomini sopra i trent’anni, dal fisico asciutto. Alcuni sono bassi, altri tozzi, ma quasi tutti hanno la testa rasata e indossano magliette senza maniche, sandali a strappo e pantaloncini larghi. Non hanno certo l’aspetto di chi fa uno sport estremo.
Anche se l’immersione è uno degli sport acquatici più in crescita, è difficile immaginare, almeno per ora, che l’apnea agonistica diventi una disciplina olimpica: sembra davvero troppo pericolosa. Chiedo a Trubridge di spiegarmi la fisica e la fisiologia delle sue immersioni, e dopo un po’ lo stomaco mi si richiude. Nei primi 10 metri sott’acqua i polmoni, pieni d’aria, trattengono il corpo in superficie. Per andare in profondità servono spinte energiche e una costante compensazione dell’orecchio medio. “In questa fase consumi fino al 15 per cento delle tue energie”, dice Trubridge. E rimangono ancora 180 metri.
Superati i 10 metri, la pressione sul corpo raddoppia, comprimendo i polmoni a circa metà delle dimensioni normali. All’improvviso ti senti leggerissimo, come se il corpo fosse sospeso in uno stato privo di gravità chiamato “equilibrio idrostatico”. Poi succede una cosa sorprendente: continuando a scendere, il corpo non è più spinto verso la superficie, ma attirato inesorabilmente verso il fondo marino. Se allunghi le braccia sui fianchi puoi scendere senza nessuno sforzo.
A 30 metri la pressione quadruplica, la superficie del mare diventa quasi invisibile e devi chiudere gli occhi per prepararti alla morsa degli abissi.
Ancora più giù, a 45 metri, si entra in uno stato onirico indotto dagli alti livelli di anidride carbonica e azoto nel sangue. A 90 metri la pressione è così forte che i polmoni diventano piccoli come arance e il cuore batte a meno della metà del ritmo normale per conservare ossigeno. Perdi parte del controllo motorio. Quasi tutto il sangue delle braccia e delle gambe affluisce al centro del corpo, mentre i vasi sanguigni delle zone periferiche si restringono. I vasi polmonari si dilatano per reggere all’eccesso di pressione.
Poi arriva la parte più difficile. Devi aprire gli occhi, sforzarti di allungare la mano semiparalizzata per staccare un cartellino dal piattello e cominciare la risalita. Il peso dell’acqua oppone resistenza e bisogna attingere alle poche energie rimaste per nuotare verso la superficie. Risalendo a 60, 45, 30 metri di profondità, i polmoni avvertono un bisogno quasi insostenibile di respirare, la vista si appanna e il torace è in preda a contrazioni per via dell’accumulo di anidride carbonica nel sangue. Bisogna sbrigarsi per evitare un blackout. Solo quando la massa di acqua azzurra si trasforma in un bagliore di luce, puoi dire di avercela fatta.
Appena riemergi, vedi tutto girare e ti urlano che devi respirare. Te ne stai fermo, stremato, cercando di riprendere i sensi abbastanza in fretta per superare il protocollo di superficie. Ti togli gli occhialetti, fai un segno al giudice, dici “sto bene” e cedi il posto al prossimo.
Come può venire in mente a qualcuno di voler fare una cosa simile? E di poterci riuscire? Quando gli chiedo come si è avvicinato a questo sport, Trubridge risponde scrollando le spalle: “Sono sempre stato attratto dal mare. I miei primi ricordi sono legati all’acqua”. Nato vicino alla cittadina inglese di Haltwhistle, Trubridge non aveva neppure due anni quando i suoi genitori decisero di vendere casa, comprare una barca a vela di 13 metri, caricare lui e suo fratello Sam e partire all’avventura. Per nove anni vissero in barca, diretti a ovest. William e Sam per divertirsi si sfidavano in gare di apnea. “Forse arrivavamo a otto-dieci metri”, dice, ridendo. “Ripensandoci, era un gioco molto pericoloso”.
A dodici anni Trubridge viveva con la famiglia ad Havelock North, una cittadina sulla costa orientale della Nuova Zelanda. Un giorno, quando studiava biologia genetica all’università di Auckland, ha deciso di mettersi alla prova attraversando in apnea una piscina di 25 metri. Una vasca ha tirato l’altra, e Trubridge si è pian piano appassionato allo sport.
A poco più di vent’anni, dopo aver lavorato un po’ a Londra come fattorino d’albergo, Trubridge è andato in Honduras per seguire questa passione. “Ricordo che un giorno sono sceso a una ventina di metri e mi sono sdraiato sul fondale, e lì mi sono rilassato, meditando, osservando altre forme di vita, sentendomi parte di quel mondo”, racconta. “Non dover respirare per un minuto o due è la sensazione più straordinaria e rasserenante che si possa immaginare”.
A quel punto ha deciso di dedicarsi a tempo pieno alle immersioni. Si allenava ogni giorno per ore, nuotando e facendo esercizi di yoga e respirazione. Aveva fatto canottaggio e da ragazzo era stato campione di scacchi, la combinazione di esercizio fisico e mentale gli riusciva naturale. “Per immergersi in apnea il corpo, la mente e lo spirito devono essere coordinati e indirizzati verso un unico scopo”, dice. Quando non era in acqua traduceva manuali sulle immersioni in apnea, insegnava e studiava filmati. Dopo due anni di giri tra l’America Centrale, le Bahamas e l’Europa, era diventato uno dei migliori apneisti del mondo. Tra il 2007 e il 2010, Trubridge ha battuto 14 volte i record mondiali nelle specialità di assetto costante senza pinne e immersione libera. Oggi lui e sua moglie Brittany passano l’inverno alle Bahamas e l’estate in Europa. Per guadagnarsi da vivere tengono dei corsi tra una gara e l’altra. Mi chiedo cosa leghi Trubridge a questo sport. Sicuramente non i soldi né la fama: gli apneisti pagano circa 700 dollari per partecipare ai campionati mondiali, più le spese di trasferta, e possono vincere al massimo una medaglia. E al di fuori dell’ambiente non li conosce quasi nessuno. “Non ho scelta”, dice quasi sottovoce. “Confrontarsi con il mondo sottomarino rispettando le sue condizioni, trattenendo il respiro, dà un senso di pace infinita. Sono fatto per stare in mare”.
Blackout
È giovedì e le acque della baia di Messenia, agitate dal maltempo, sono passate dall’azzurro cristallino al grigio. Per ora non piove, ma le nuvole incombono minacciose, e la visibilità sotto la superficie è ridotta a una decina di metri. Alle nove di mattina i primi atleti sono già in acqua.
Per questa gara usano la monopinna, un triangolo di plastica, vetroresina o carbonio largo quasi un metro e attaccato a scarpette di neoprene. Rispetto alle pinne tradizionali (una per piede), la monopinna assicura una spinta più energica con uno sforzo minore. Gli atleti, quindi, scenderanno a profondità superiori di circa il 25 per cento rispetto a quelle di lunedì. Il record mondiale in questa categoria, chiamata “assetto costante” (constant weight, Cwt), è di 125 metri ed è stato stabilito nel 2012 da Alexej Molchanov. Fino al 2009, solo dieci apneisti al mondo si erano avvicinati a questa soglia. Oggi quindici atleti proveranno ad arrivare a -100 metri, un traguardo quasi senza precedenti.
Il britannico David King è uno di loro. Cogliendo tutti di sorpresa, ha annunciato che cercherà di raggiungere una profondità di 102 metri per stabilire un nuovo record nazionale. Secondo i suoi compagni di squadra, negli ultimi dodici mesi non ha mai superato gli 80 metri.
Il giudice comincia il conto alla rovescia. King si bagna la testa, fa una capriola e va giù. Dalla barca lo vedo allontanarsi nell’acqua grigia come un faro che scompare nella nebbia.
“Mio Dio, sta volando”, dice Hanli Prinsloo, un’apneista sudafricana che mi ha raggiunto a prua. In questo sport la velocità non è per forza un vantaggio. Più l’atleta va veloce, maggiore sarà il suo dispendio di energie e minore la quantità di ossigeno che avrà a disposizione per la risalita.
“Ottanta metri, novanta metri”, dice il giudice di gara. “Touchdown”, annuncia, e King comincia a risalire.
“Novanta metri, ottanta metri”. Poi il giudice fa una pausa. La velocità di King si è dimezzata rispetto alla discesa. A 60 metri, gli aggiornamenti arrivano più a rilento. A 40 metri si interrompono del tutto.
Passano cinque secondi. King è sott’acqua da più di due minuti. “Quaranta metri”, ripete il giudice. Pausa. “Quaranta metri”.
Mi guardo intorno con un brutto presentimento. I giudici, gli atleti e gli assistenti tengono lo sguardo fisso sull’acqua increspata e aspettano. Aspettano.
“Trenta metri”.
A quanto pare King si muove, ma troppo lentamente. Passano altri cinque secondi. Dovrebbe già essere tornato in superficie, ma è ancora a trenta metri di profondità. Altri cinque secondi. “Trenta metri”, ripete il giudice.
Altri cinque secondi. Nell’acqua non si vede niente: nessun segnale di King, nessun gorgoglio in superficie, nessun movimento. “Trenta metri”. Silenzio. “Trenta metri”.
“Blackout!”, grida un soccorritore. King ha perso conoscenza a una profondità pari a dieci piani. I soccorritori si tuffano in acqua.
Circa trenta secondi dopo, l’acqua intorno al cavo comincia a ribollire di schiuma bianca. Ricompaiono le teste dei due soccorritori, coperte dalla muta. In mezzo a loro c’è King. Ha il viso cianotico e non si muove. Il collo è rigido.
I soccorritori gli tengono la testa fuori dall’acqua. King ha le guance, la bocca e il mento coperti di sangue. “Respira! Respira!”, gli urlano. Nessuna risposta. Gocce di sangue cadono in mare.
“Rianimazione!”, grida il giudice. Un soccorritore appoggia la bocca su quella insanguinata di King e soffia. Il suo allenatore, Dave Kent, gli urla nell’orecchio: “Dave! Dave!”. Nessuna risposta. Passano dieci secondi e ancora niente.
Qualcuno chiede dell’ossigeno, Georgoulis sbraita: “Perché nessuno chiama un medico? Fate venire un elicottero!”. Tutti urlano.
Resta da vedere chi riuscirà a togliersi dalla mente gli incidenti di oggi per immergersi, nell’ultimo giorno di gara, ancora più in profondità
Dietro di noi, sul primo cavo, un altro apneista si immerge. E un altro ancora torna in superficie privo di conoscenza. I soccorritori spostano il corpo inanimato di King su una delle barche e gli mettono una maschera per l’ossigeno sul viso. Ancora nessuna reazione. I muscoli facciali sono paralizzati in un sorriso debole, gli occhi spalancati e smarriti fissano il mare aperto. Sulla barca tutti sono convinti che King sia morto. Ma ormai siamo a oltre dieci metri da lui ed è difficile capire cosa sta succedendo. I soccorritori continuano a premere sul petto e a dargli colpetti sul viso, chiamando: “Dave! Dave!”.
Poi, come per miracolo, King muove le dita, sbruffa, respira. Il viso riprende colore e gli occhi si aprono, per poi richiudersi lentamente. Respirando profondamente, King tocca la gamba del suo allenatore per fargli capire che sta bene.
Dopo tutto questo, Trubridge tenta un’immersione a -118 metri sul primo cavo, ma risale prima di arrivare al piattello e non supera il protocollo di superficie. L’apneista britannica Sara Campbell torna indietro dopo appena 22 metri, rinunciando al tentativo di battere il record mondiale. “Non ce l’ho fatta”, dice. È troppo scossa dall’incidente di King, che ora viene trasportato con un motoscafo in ospedale. Intanto c’è un altro blackout sul secondo cavo. E un altro ancora sul terzo.
La gara prosegue per altre tre ore. L’ultima immersione della giornata è quella di un esordiente ucraino che tenta una prima discesa a -40 metri. Quando torna in superficie e si toglie la maschera per fare il segno di ok, un fiotto di sangue gli cola dal naso. L’immersione è valida lo stesso. Il sangue non è un problema.
La sera, in albergo, gli atleti si rilassano. Dei 93 apneisti che hanno gareggiato, 15 hanno provato a superare i 100 metri di profondità. Tra questi, due sono stati squalificati, tre si sono ritirati e quattro hanno perso conoscenza: un tasso di insuccesso del 60 per cento. King è in ospedale. Nessuno lo sa per certo, ma gira voce che abbia riportato una frattura della laringe, una cosa abbastanza frequente nelle immersioni in profondità. Niente di grave, dicono.
“Queste cose in genere non succedono”, ripetono gli apneisti. Io credo invece che siano la norma, solo che qui nessuno vuole ammetterlo. Resta da vedere chi riuscirà a togliersi dalla mente gli incidenti di oggi per immergersi, nell’ultimo giorno di gara, ancora più in profondità.
Guillaume Néry, un francese di 29 anni che ha vinto la gara di assetto costante, non sembra per niente turbato. Lo incontro a metà mattinata, il giorno dopo l’incidente che è quasi costato la vita a King, in compagnia degli altri componenti della sua squadra. “Non c’ero, quindi non so esattamente cosa sia successo”, dice con un forte accento francese. “Credo però che tutti abbiano commesso un errore, non solo King. Erano concentrati sul traguardo dei cento metri e non sulle loro emozioni”. Néry è diventato famoso nel 2010 con Free fall, il filmato di una sua immersione in una dolina delle Bahamas profonda 202 metri. Su Youtube è stato visto più di dieci milioni di volte. “Ho imparato molto tempo fa che la pazienza è la chiave per riuscire in questo sport”, dice. “Devi dimenticare il traguardo, divertirti e rilassarti”.
Non tutti la prendono con filosofia come fa lui. “Avere un blackout è come farsela addosso”, afferma Sebastian Näslund, un apneista svedese. “È imbarazzante per te e per chi ti sta intorno”.
Fred Buyle, che negli anni novanta è stato uno dei primi a fare apnea agonistica e oggi si è ritirato, è d’accordo. “Secondo me quel tizio è un coglione”, dice, riferendosi a King. “Abbiamo tutti pensato che fosse morto. Faccio questo sport dal 1990 e non avevo mai visto una scena simile”.
Un’altra dimensione
Sabato, l’ultimo giorno di gara, il sole è caldissimo, l’aria ferma e il mare calmo e limpido: le condizioni ideali. La disciplina di oggi è l’immersione libera, che prevede l’uso della fune per raggiungere la profondità stabilita. Rispetto alle prove di assetto costante con le pinne, queste immersioni sono meno profonde, ma possono durare parecchio (a volte più di quattro minuti) e seguirle è una vera tortura. Ieri sera l’organizzatore dell’evento, Stavros Kastrinakis, ha invitato gli atleti a “riconoscere i propri limiti”. Questa volta le profondità dichiarate sembrano meno ambiziose, ma c’è comunque chi spera di superare i record nazionali e mondiali.
Nel corso della mattinata ci sono altri episodi di blackout, ma sembrano meno gravi rispetto a quelli dei giorni scorsi. O forse mi sto solo abituando alla vista di corpi inerti e volti cianotici. Quasi tutti gli atleti si riprendono rapidamente e nuotano in silenzio verso la barca, vergognandosi di essersi spinti, ancora una volta, oltre i loro limiti. Seguo un’altra decina di immersioni. Poi arrivano gli apneisti di alto livello: il polacco Mateusz Malina batte il record nazionale con un’immersione a 106 metri di profondità. La russa Natalia Molchanova, campionessa del mondo femminile, stabilisce il record mondiale di 88 metri.
Antonio Koderman raggiunge i -105 metri segnando un nuovo traguardo per la Slovenia. Néry batte il record francese con -103 metri. Trubridge arriva a -112 quasi senza sforzo. In un’ora vengono battuti sette record nazionali. Tutti gli atleti hanno il controllo della situazione. Lo sport è tornato a essere bello e pauroso.
Poi sul secondo cavo scoppia il panico. I soccorritori hanno perso – letteralmente – un apneista ceco, Michal Riian. Si trova ad almeno 60 metri di profondità, ma il sonar non lo rileva più. Per qualche ragione si è allontanato dal cavo guida. I soccorritori si immergono, ma dopo un minuto tornano in superficie a mani vuote. Passano trenta secondi. Nessuna traccia di Riian.
Sul primo cavo, Sara Campbell sta per immergersi. Sotto di lei, tre minuti e mezzo dopo essere sceso dal secondo cavo (e a più di dieci metri dal suo punto di partenza), spunta Riian, si toglie gli occhialetti e dice: “Non mi toccate. Sto bene”. Poi raggiunge la barca da solo. Una volta a bordo, si lascia cadere su una sedia accanto a me, sorride e dice: “Accidenti, che immersione strana!”.
Prima della gara, come al solito, l’allenatore ha attaccato alla caviglia destra di Riian il cavetto di sicurezza. Quando l’atleta ha fatto la capriola ed è sceso a candela, il velcro di chiusura del cavetto si è staccato. I soccorritori hanno visto il cavetto libero e si sono precipitati a fermare Riian, ma lui era già lontano, ad almeno 30 metri di profondità. Senza rendersi conto di nulla, ha chiuso gli occhi, si è concentrato sulla meditazione e ha proseguito la discesa. Invece di andare dritto, però, ha deviato di 45 gradi rispetto alla linea del cavo. Quando ha allungato la mano verso il piattello, si è accorto che non c’era nulla. “Ero completamente perso”, racconta. “Mi sono rimesso a testa in su e ho guardato intorno a me, ma vedevo solo blu”.
A quella profondità, anche nel mare più limpido, è impossibile orientarsi. Tutte le direzioni sembrano uguali: la pressione dell’acqua è così forte che non sai se ti stai muovendo verso l’alto o verso il basso, verso ovest o verso est. Per un attimo Riian si è fatto prendere dal panico. Poi si è calmato. “In una direzione c’era un po’ più luce”, racconta. “Ho pensato che la superficie fosse da quella parte”. Si sbagliava: stava procedendo in senso orizzontale. Mentre nuotava cercando di rimanere calmo e cosciente, ha visto un cavo bianco. “Sapevo che se avessi trovato il cavo, mi sarei salvato”, dice. Le probabilità di trovare un cavo a circa ottanta metri di profondità erano probabilmente pari a quelle di indovinare un certo numero alla roulette due volte di seguito. Eppure Riian si è imbattuto nel cavo di Sara Campbell, l’ha afferrato, ha puntato verso la superficie ed è riuscito a emergere prima di annegare.
L’ultima sera atleti, allenatori e giudici si ritrovano sulla spiaggia per le cerimonie di chiusura. Il dj mette musica europop a tutto volume e centinaia di persone ballano e bevono sotto il cielo stellato. Un falò scalda i corpi nudi e bagnati di chi non ha resistito alla tentazione di un ultimo tuffo.
Poi vengono annunciati i vincitori. Nel complesso, gli atleti hanno battuto due record mondiali e 48 nazionali. Ci sono stati 19 episodi di blackout. Trubridge ha vinto l’oro sia nell’assetto costante senza pinne sia nell’immersione libera. “Ma il vero vincitore è Riian”, dice Trubridge, sorseggiando una birra accanto alla moglie Brittany. King, l’atleta che appena due giorni fa ha avuto quel tremendo blackout, cammina tra la folla, sorridente e a quanto pare in perfetta salute. Néry, da perfetto francese, fuma una sigaretta.
“Il senso di comunità qui è molto forte”, spiega Hanli Prinsloo. “È come se non avessimo altra scelta. Dobbiamo stare in acqua, abbiamo deciso di passarci la vita e ne accettiamo i rischi”. Beve un sorso del suo cocktail, poi aggiunge: “Ma veniamo anche ricompensati”.
Comincio a capire il suo punto di vista. Gli apneisti possono accedere a un mondo che tutti gli altri vedono solo dalla superficie, da barche, tavole da surf e aerei a diecimila metri d’altezza. La maggior parte di noi vive in un ambiente protetto, ma anche limitato: non scoprirà mai l’autentica meraviglia, la potenza, la forza e la bellezza del mare. I veri misteri della natura si rivelano solo a chi punta oltre, si spinge all’estremo e va più in profondità.
Per gli apneisti, l’accesso all’universo nascosto che occupa il 70 per cento del nostro pianeta vale il prezzo da pagare: blackout, laringi fratturate e tutto il resto. In fondo, cos’è un po’ di sangue rispetto a un viaggio nell’altra dimensione?
(Traduzione di Enrico Del Sero)
Questo articolo è stato pubblicato il 3 agosto 2012 nel numero 960 di Internazionale.
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