Quando muoversi era necessario per andare a lavorare, mi è capitato di passare attraverso un tunnel della metropolitana così sudicio e affollato che la poesia scritta sul soffitto appariva come uno scherzo crudele. “Svegliato tardi/ stanchissimo/ se in ritardo/ sarò licenziato/ perché questo dolore?/ Basta andare a casa/ e rifarlo daccapo”. “Il lamento del pendolare” che decora un passaggio sotterraneo della stazione 42nd Street di New York ha reso il rituale di andare a lavorare e tornare a casa, già di per sé cupo, decisamente dantesco. Ma nessuno ne metteva in discussione il senso. Il tragitto casa-lavoro, secondo le ricerche del vincitore del premio nobel Daniel Kahneman, era in cima alla lista dei peggiori momenti della nostra giornata. Secondo uno studio svizzero il pendolarismo sarebbe responsabile “di un benessere soggettivo sistematicamente più basso”.
E poi, durante la pandemia di covid-19, è successo qualcosa di bizzarro. Per molti di noi, la piaga che abbiamo passato una vita a bistrattare, ritenendola una fastidiosa perdita di tempo, è scomparsa. I lavoratori essenziali hanno continuato ad avventurarsi per strade e ferrovie – talvolta percorrendo tragitti dalla durata davvero punitiva –, ma molti altri hanno vissuto per più di un anno in un mondo senza pendolarismo. Alcuni pensano che non torneranno mai in ufficio, mentre altri stanno ricevendo avvisi di “ritorno al lavoro” in cui i loro capi spiegano che, a settembre, i loro glutei dovranno nuovamente posarsi sulle sedie degli uffici.
Ma qui comincia la parte strana. Molto persone finalmente libere di lavorare da casa hanno cominciato ad avvertire un senso di vuoto che non riescono bene a definire. Qualcosa dove tutti i teatri della vita si fondono in uno. Non esiste un inizio o una fine. Il viaggio dell’eroe non comincia mai. La soglia non viene mai varcata. Il saccheggio di Troia si confonde con i compiti di matematica di Telemaco. E i datori di lavoro – anche quelli che hanno fornito gli strumenti per lavorare da casa – si preoccupano. “Non fare più i pendolari potrebbe danneggiare, e non aiutare, la produttività del lavoratore a distanza”, aveva avvertito un rapporto della Microsoft dell’autunno 2020. Le conversazioni fuori dell’orario di lavoro sono aumentate del 69 per cento tra gli utenti della piattaforma di messaggistica dell’azienda, e i lavoratori erano meno coinvolti e più stanchi.
La “costante di Marchetti”
Nei bei tempi pre-pandemia pensavamo, con mentalità molto limitata, che il pendolarismo svolgesse un’unica funzione: farci raggiungere il posto di lavoro e farci tornare a casa. Ma è chiaro che c’era dell’altro, che non riuscivamo ad apprezzare. Che cos’era?
Nel 1994 il fisico italiano Cesare Marchetti fece notare che, nel corso di tutta la storia, gli essere umani hanno mostrato la volontà di dedicare circa sessanta minuti al giorno agli spostamenti. Treni a vapore, tram, metropolitane e automobili hanno permesso di coprire distanze più lunghe, ma i tempi degli spostamenti sono rimasti gli stessi. In media per uno statunitense il tragitto di sola andata da casa al lavoro è di circa 27 minuti.
La “costante di Marchetti”, come sono chiamati quei sessanta minuti, definisce generalmente quel che vivono le persone, non quel che potrebbero desiderare. Ma se si prendono le persone più ricche di ogni epoca – che possono permettersi di organizzare la vita come vogliono – e si calcola il tempo del loro spostamento da casa al lavoro, cosa si scopre? J.P. Morgan: un tragitto di circa 25 minuti in carrozza a cavallo. John D.Rockefeller: un tragitto in ferrovia sopraelevata di circa mezz’ora.
In un articolo del 2001 due ricercatori dell’università della California di Davis hanno cercato di definire il tempo ideale di un tragitto casa-lavoro. Si sono accordati sui 16 minuti. Naturalmente si trattava di una riduzione significativa dell’effettivo tragitto dei partecipanti allo studio (che era in media di mezz’ora). Ma non era zero. In realtà alcuni desideravano un tragitto più lungo. Quando gli è stato chiesto perché, hanno elencato i loro motivi: il senso di controllo che si ha nella propria automobile, il tempo di pianificare, di decomprimersi, di fare telefonate, di ascoltare audiolibri. È evidente, hanno scritto i ricercatori, che lo spostamento ha una certa “utilità positiva”.
Prima della pandemia, i ricercatori avevano cominciato ad analizzare quale fosse questa utilità. Mi sono rivolto a uno di loro, Jon Jachimowicz della Harvard business school, che ha confrontato WeWork (azienda che offre spazi di lavoro condivisi) con il suo sfortunato spin-off, WeLive. Presentato in vista dell’offerta pubblica iniziale dell’azienda – contestuale alla quotazione in borsa che si è poi rivelata un insuccesso – WeLive sosteneva di offrire “tutto ciò di cui hai bisogno per vivere, lavorare e giocare in un unico luogo”. Ma la sua espansione si è fermata a due sedi. Questo potrebbe avere qualcosa a che fare con il fatto che gli adulti hanno un desiderio limitato di trascorrere del tempo in spazi che gli ricordano i dormitori universitari. Ma, mi ha detto Jachimowicz, “se tutti odiassero il pendolarismo tanto quanto dicono, vedremmo questi spazi WeLive ovunque”.
La teoria del confine
Gail Sheehy ha scritto a proposito della “doppia vita del pendolare” per il New York Magazine nel 1968, tracciando un profilo delle specifiche personalità a bordo dei treni delle ore 5.25, 6.02 e 9.57 in partenza dalla Grand central station: “Si ha la sensazione molto forte di due vite che trovano nel treno una sorta di ponte”. La distanza tra queste due vite è stata studiata in un insieme di ricerche genericamente conosciuto come “teoria del confine”. È forse qui che apprezziamo la funzione più importante del pendolarismo.
In pratica la teoria del confine sostiene che, per quanto Facebook incoraggi i dipendenti a portare il loro “sé autentico” al lavoro, le persone hanno diversi sé, tutti autentici. Passare da un ruolo all’altro non è facile, e si chiama lavoro di confine. E il pendolarismo, come hanno scritto Blake Ashforth dell’Arizona state university e due collaboratori in un articolo seminale sull’argomento, “è in realtà un modo relativamente efficiente di facilitare uno spostamento allo stesso tempo fisico e psicologico tra i ruoli”.
Prendete lo spostamento mattutino in auto. Anche se superficialmente è una questione d’imboccare strade e uscite, dà anche vita a una sequenza in cui i sentimenti e gli atteggiamenti della vita domestica sono disattivati, sostituiti da pensieri di lavoro. Questo richiede tempo, e se non avviene, un ruolo può contaminare l’altro: ciò che i ricercatori chiamano “traboccamento di ruoli”. “Se a casa si agisce come un manager, c’è il rischio che quella notte si finisca a dormire sul divano”, mi ha spiegato Jachimowicz. “E se si risponde come un genitore al lavoro…”, è strano.
Jachimowicz e i suoi colleghi hanno scoperto che i lavoratori che si sono impegnati in una “disamina chiarificatrice dei ruoli” durante il tragitto mattutino da casa – pensando deliberatamente alla giornata lavorativa – hanno detto di essere più soddisfatti sia al lavoro sia a casa, rispetto a quelli che hanno semplicemente sognato a occhi aperti o riflettuto su problemi personali. Saltare questo compito cognitivamente difficile li lasciava in un limbo, che rendeva ogni luogo più stressante.
Staccare
La tecnologia può aiutare. In un esperimento del 2017, un’équipe della Microsoft ha installato un programma chiamato SwitchBot sui telefoni dei pendolari. Prima dell’inizio e della fine di ogni giornata di lavoro, il bot poneva alcune semplici domande. Una sessione mattutina aiutava i partecipanti a passare in modalità lavoro, mentre gli inviti a staccare alla fine della giornata – “Come ti sei sentito oggi al lavoro? C’è qualcos’altro che vorresti condividere?”– hanno generato qualcosa d’inatteso. “Si potrebbe pensare che le persone avrebbero semplicemente raccontato la loro giornata”, mi ha detto Shamsi Iqbal, un ricercatore che ha contribuito a progettare lo studio. Nel rivivere la loro giornata, invece “se ne liberavano” (e di conseguenza inviavano meno email dopo la fine del turno).
Perché era una cosa buona? Perché la capacità di staccarsi dal lavoro, ha spiegato Iqbal, è una delle caratteristiche di un buon lavoratore. Una nuova ricerca mostra che questo è fondamentale per facilitare il ringiovanimento mentale. Senza, l’esaurimento cresce, lo sforzo aumenta e la produttività alla fine cala.
Ma tutte queste ricerche sono state fatte prima della pandemia, ed erano volte ad aiutare i pendolari a muoversi meglio. Ora dobbiamo chiederci: e se il pendolarismo non tornasse più, o almeno non tutti i giorni della settimana? Possiamo sostituirlo?
Giacca da lavoro
Quando alcuni anni fa ho rinunciato al mio pendolarismo, sono giunto a una consapevolezza. L’odore del vagone ristorante, il riprendere la borsa a tracolla, il rumore delle scarpe sul pavimento dell’atrio d’ingresso – tutti gli indizi sensoriali che mi dicevano che ero un giornalista professionista che arrivava a Manhattan per lavoro – sarebbero spariti. Dopo un breve periodo di giubilo, ho cominciato a chiedermi se arrivare al lavoro fosse lo stesso che andare a lavorare. Se volevo sostituire il mio pendolarismo con qualcos’altro, dovevo elaborare una strategia.
Ho sviluppato una serie di trucchi. Abbinare l’ambiente circostante al compito da svolgere mi è apparso importante. Per il lavoro di ricerca, era meglio muoversi tra gli scaffali di una vicina biblioteca; per scrivere, meglio nei caffè. Fare il pendolare direttamente dalla scrivania al tavolo da pranzo era una cattiva idea. Meglio prima una corsa o una passeggiata fuori. Ma niente passeggiate di mattina. Al mattino si cammina come se si fosse in ritardo per qualcosa. E soprattutto: una giornata in cui si rimane in pigiama è una giornata improduttiva. Perciò, se una scadenza incombe, è il caso d’indossare la giacca da scrittura. Quando si è vestiti da ufficio, è impossibile portare fuori la spazzatura o innaffiare il prato senza la sensazione forte che dovresti fare qualcos’altro. Per esempio il tuo lavoro.
Sono stato felice di trovare un intero documento accademico intitolato Enclothed cognition (Cognizione vestita) che ha corroborato questa mia intuizione. Quando alle persone si chiede di fare un compito difficile che necessita di concentrazione visiva, fanno circa la metà degli errori se prima indossano un camice bianco. Il camice ha un potere simbolico, dice l’articolo.
Rituali
Come si è svolto il resto della mia routine? Ho chiesto consiglio a Ezra Bookman, un progettista di rituali aziendali (sì, esiste un lavoro del genere) che lavora a Brooklyn: “Ogni volta che parlo con i clienti mi dicono tutti la stessa cosa: i dipendenti sono esauriti, non riescono a separare quello che succede a casa da quello che succede fuori”.
Così ha escogitato alcuni rituali per sostituire il pendolarismo e segnare l’inizio e la fine di ogni giornata. Le idee che ha proposto ai clienti includono diverse illuminazione degli ambienti, stretching di riscaldamento, passeggiate senza telefono e, come mi ha dimostrato su Zoom, un bel panno blu sul computer quando ci si disconnette, come se anche lui avesse bisogno di una buona notte di sonno.
“I rituali creano attrito”, mi ha detto Bookman. Come il pendolarismo, “ci rallentano. Sono assolutamente antitetici alla maggior parte della nostra vita, che è tutta una questione di efficienza e velocità”. Un rituale che ha funzionato per Bookman è stato cambiare la password del suo portatile in DeepBreath (RespiroProfondo): “Mi aiuta a collocarmi nel tempo e a chiedermi: ‘Bene, cosa sto facendo qui?’”.
Iqbal, la ricercatrice della Microsoft, ha detto che era proprio questa l’idea all’origine del “pendolarismo virtuale” che la sua azienda ha lanciato. Un colpetto virtuale sulla spalla – “Pronto a finire la tua giornata di lavoro?” – ti segnala che è il momento di staccare. La sequenza di spegnimento ti fa mettere un segnalibro su ciò a cui stavi lavorando. Ti invita a “prendere un minuto per respirare e resettare”, ed è sincronizzato, per chi lo vuole, con un filmato di meditazione rilassante. Perché il lavoro è finito.
Tutto questo per dire: grazie a esercizi di meditazione, cambi di vestiti e chatbot, anche voi potrete replicare quello che il pendolarismo ha fatto per voi. Nel frattempo, abbiate finalmente una parola gentile per cose che abbiamo insultato tutta la vita: per le autostrade e le metropolitane, per la folla e la sporcizia, per i bagel e i caffè sballottati, per il traffico bloccato e i terribili stridori nei tunnel. Due vandali ottimisti della metropolitana l’hanno fatto dieci anni fa. Stanchi dell’eterno lamento di quella poesia sotterranea, hanno brevemente sostituito il passaggio “why the pain” (perché questo dolore?)” con un “much to gain” (molto da guadagnare)”.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul mensile statunitense The Atlantic.
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