Questo articolo è stato pubblicato il 19 luglio 2019 sul numero 1316 di Internazionale

Le orme sono ancora lì, l’impronta a righe degli stivali di Neil Armstrong incrostata di polvere. Non c’è atmosfera sulla Luna, non c’è vento e non c’è acqua. Le impronte non vengono spazzate via e non c’è nessuno che le calpesti. Micrometeoriti velocissimi, particelle in miniatura che viaggiano a più di cinquantamila chilometri all’ora, bombardano continuamente la superficie della Luna, ma sono così infinitesimali che erodono le cose al ritmo più o meno inavvertibile di 0,1 centimetri ogni milione di anni. Perciò, se non saranno colpite da una meteora sprofondando in un cratere, queste impronte dureranno per decine di milioni di anni.

Quest’estate ricorre mezzo secolo da quando Armstrong fece la prima passeggiata lunare della storia, anche se a livello cosmologico è passato appena uno schioccare di dita. “L’uomo è sulla Luna!”, gridò Walter Cronkite al telegiornale della Cbs, senza fiato, mentre il mondo osservava rapito. I ragazzi lontani da casa nei campi estivi marciarono dalle loro tende nel folto dei boschi fino alle sale mensa per crollare seduti davanti al piccolo schermo, mentre gli istruttori armeggiavano con le antenne portatili. “È un piccolo passo per un uomo”, fu la frase immortale pronunciata da Armstrong mentre scendeva dalla scaletta del modulo lunare il 20 luglio 1969, “ma un balzo gigantesco per l’umanità”. E poi posò il suo stivale grigio e bianco nella polvere e lasciò quella prima impronta.

Cosa resta davvero di quel momento? A cosa serviva la missione? E cosa si lasciava dietro, qui sulla Terra? Cinquant’anni dopo, inondazioni rese più frequenti dal cambiamento climatico hanno cominciato a portare via la base da cui fu lanciato l’Apollo 11, il Kennedy space center in Florida (la Nasa ha spedito della sabbia per cercare di puntellare le dune devastate), mentre uragani aggravati dall’innalzamento del livello dei mari minacciano il centro di controllo della missione Apollo 11, il Johnson space center in Texas. Houston, abbiamo un problema.

Immagini storiche
Molta della bellezza, della meraviglia e dell’estatico sgomento della spedizione sulla Luna si ricordano soprattutto guardando le fotografie scattate dagli astronauti statunitensi con speciali macchine svedesi, le Hasselblad, usate per la prima volta nel 1962 sul Mercury 8, che aveva la missione di orbitare intorno alla Terra. Come spiega la fotografa e curatrice Deborah Ireland in Hasselblad and the Moon landing (Ammonite 2019), i tre astronauti dell’Apollo 11 Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins dovevano dividersi due Hasselblad. “Accidenti, ridammi la macchina fotografica”, disse Aldrin mentre si avvicinavano alla Luna. L’immagine iconica della singola impronta mostra l’orma dello stivale di Aldrin, non di Armstrong, e fu Aldrin a scattare la foto di Armstrong che aveva appena piantato la bandiera degli Stati Uniti, accanto alla base che chiamarono Tranquillity. Collins rimase sul modulo di comando e servizio, in orbita. “Che stai facendo, Mike? Cosa fotografi?”, chiese Armstrong a Collins durante il viaggio di ritorno sulla Terra, mentre continuavano a osservare la superficie lunare. “Oh, non lo so”, rispose Collins. “Sto solo sprecando pellicola, probabilmente”. Non fu sprecata. Le foto rimangono straordinarie.

Eppure, prima del luglio 1969, molti critici pensavano che l’intero programma fosse uno spreco. Prima dell’allunaggio non ci fu mai un momento in cui l’opinione pubblica statunitense appoggiasse la missione, racconta Roger D. Launius, storico della Nasa in pensione, nel suo Apollo’s legacy: perspectives on the Moon landings (Smithsonian 2019). Costò 25,4 miliardi di dollari (180 miliardi di dollari di oggi) e negli anni sessanta era la maggiore voce di spesa del governo statunitense, fatta eccezione per la guerra in Vietnam. Malgrado l’indiscutibile ingegno di tecnici e scienziati e l’intrepido coraggio degli astronauti, quelli che criticavano la missione continuavano a definirla uno spreco.

Ma dopo lo strabiliante trionfo dell’allunaggio, con conseguente dilagare della moda dei moon boot, sia l’indifferenza generale sia lo scetticismo furono dimenticati. Li hanno dimenticati anche alcuni di questi nuovi libri, che sono per lo più celebrativi.

“Fino a quando sulla Terra prevarranno il razzismo, la povertà, la fame e la guerra, noi come paese civile avremo fallito

“L’uomo è sempre andato dove è stato capace di andare”, disse Collins in una sessione congiunta del congresso degli Stati Uniti nel settembre 1969, e sono le parole con cui James Donovan sceglie di concludere Shoot for the Moon: the space race and the extraordinary voyage of Apollo 11 (Little, Brown 2019). I primi libri di Donovan sono fanfaronesche ricostruzioni della battaglia di Alamo, The blood of heroes, e dell’ultima resistenza di Custer, A terrible glory, in cui gli uomini trionfano perfino quando sono sconfitti. Questa è anche la sua idea dell’Apollo, una posizione che non lascia spazio, per esempio, alle donne. “Se credete che andare sulla Luna sia difficile, provate a restare a casa”, disse Barbara Cernan, moglie di Gene Cernan, che faceva parte dell’equipaggio dell’Apollo 10 ed era il comandante dell’Apollo 17. Potete leggere di lei in The astronauts’ wives club di Lily Koppel (Hachette 2013), ma non la troverete nella ricostruzione di Donovan. Non troverete una sola parola neppure sulla pilota Jerrie Cobb, detentrice di numerosi record, che nel 1961 diventò la prima di 13 donne a qualificarsi per diventare astronauta. La Nasa si rifiutò di farle volare, come ha spiegato Martha Ackmann in The Mercury 13 (Random House 2004). Cobb dette battaglia. “Cerchiamo solo un posto nel futuro spaziale del nostro paese, senza discriminazioni”, dichiarò davanti a una commissione d’indagine del congresso, nel 1962. Nel 1998, quando aveva 67 anni, disse: “Darei la vita per volare nello spazio, la darei veramente”. È morta nella primavera scorsa a 88 anni. Sulla Luna le sue impronte non ci sono.

L’allunaggio è una questione di memoria pubblica, il che è un altro modo per dire che è storia dibattuta. Nel 1971 Michael Collins diventò il direttore del National air museum della Smithsonian institution. È lui a scrivere l’introduzione di Apollo to the Moon: a history in 50 objects (National Geographic 2018), a cura di Teasel Muir-Harmony. La raccolta comprende un manufatto ottenuto in prestito dallo Smithsonian museum of african-american history: una lattina ricoperta da una foto del reverendo Martin Luther King e di Ralph Abernathy, suo successore alla guida della Southern christian leadership conference (Sclc). La Sclc usava questo tipo di lattine per raccogliere donazioni durante le sue iniziative, come quella promossa da Abernathy al Kennedy space center il 15 luglio 1969, il giorno prima del lancio dell’Apollo 11. Abernathy aveva un cartello con la scritta: “12 dollari al giorno per nutrire un astronauta. Noi potremmo nutrire un bambino affamato con 8”.

Muir-Harmony cita le parole di Abernathy, che avrebbe detto: “Alla vigilia della più nobile avventura dell’uomo, sono profondamente commosso dai traguardi raggiunti dal nostro paese nello spazio”, ma curiosamente taglia la parte significativa di quel discorso, che potete sentire pronunciare da Abernathy nelle scene iniziali di un ambizioso ed emozionante documentario in tre parti della Pbs/American Experience, Chasing the Moon, uscito insieme al libro che lo accompagna, Chasing the Moon: the people, the politics, and the promise that launched America into the space age (Ballantine 2019), del regista del film, Robert Stone, e di uno dei suoi produttori, Alan Andres. “A partire da oggi possiamo andare su Marte, su Giove e perfino nei cieli al di là”, disse Abernathy, “ma fino a quando sulla Terra prevarranno il razzismo, la povertà, la fame e la guerra, noi come paese civile avremo fallito”. Seguendo questo criterio, gli ultimi cinquant’anni di storia sono stati un susseguirsi di sconfitte.

La corsa alla Luna cominciò come una corsa alla Casa Bianca

In American moonshot: John F. Kennedy and the great space race (HarperCollins 2019), il migliore dei nuovi studi sulla missione americana nello spazio, ricco di ricerche e rivelazioni, lo storico Douglas Brinkley esamina attentamente questo e altri attacchi lanciati dagli attivisti dei diritti civili, come Whitney Young della National urban league. “Portare due uomini sulla Luna costerà 35 miliardi di dollari”, protestò Young. “Ne basterebbero dieci quest’anno per portare ogni povero del paese sopra la soglia ufficiale di povertà. C’è qualcosa di sbagliato da qualche parte”. Ma Brinkley conclude che, da un punto di vista puramente economico, la missione valeva quei soldi, visto che i suoi benefici si sono estesi a questioni di salute pubblica. “La tecnologia che gli Stati Uniti hanno ricavato dagli investimenti federali negli equipaggiamenti spaziali (ricognizione satellitare, attrezzature biomediche, materiali leggeri, sistemi di purificazione dell’acqua, migliori sistemi informatici e un sistema globale di ricerca e soccorso) ha più che compensato le spese”.

Christian Dellavedova

In One giant leap: the impossible mission that flew us to the Moon (Simon & Schuster 2019) Charles Fish-man suggerisce che le critiche al programma furono dimenticate perché nell’estate del 1969 quasi dalla sera alla mattina l’Apollo diventò un simbolo dell’esatto contrario del Vietnam: l’Apollo era il paese nella sua versione migliore, il Vietnam nella peggiore. Fishman non è particolarmente interessato a questo aspetto; gran parte del suo libro, invece, è una lunga argomentazione a favore della tesi che la missione meritava di essere realizzata, per ragioni che lasceranno perplessi molti lettori. “La corsa alla Luna non ha inaugurato l’era spaziale”, insiste, “ha inaugurato l’era digitale”. E sottolinea, in particolare, lo sviluppo dei circuiti integrati e l’elaborazione dei dati in tempo reale.

Ma c’è qualcos’altro, qualcosa di più importante di cui Fishman attribuisce il merito alla conquista della Luna: “Nel 1961, quando ebbe inizio la corsa alla Luna, nella cultura popolare non c’era nessuna percezione della tecnologia come di una forza nella vita quotidiana dei consumatori, a differenza di oggi”. Il suo argomento sembra funzionare così: l’Apollo non ci ha portato su Marte, o almeno non ancora, però ci ha portato Alexa! La controargomentazione potrebbe funzionare così: il mio paese è andato sulla Luna e tutto quello che ci ho guadagnato è questo schifoso stato di polizia.

La corsa alla Luna cominciò come una corsa alla Casa Bianca. Il 4 ottobre 1957, l’Unione Sovietica lanciò in orbita il primo satellite, lo Sputnik. L’opinione pubblica statunitense fu presa dal panico e i democratici decisero di usare questo panico a scopi politici. “La gente presto immaginerà un russo seduto sullo Sputnik con un binocolo che legge la posta alle sue spalle”, scrisse il 17 ottobre a Lyndon Johnson, candidato democratico alla vicepresidenza, il suo stratega George Reedy. “È una questione che, se gestita correttamente, potrebbe mettere al tappeto i repubblicani, unire il Partito democratico e farti eleggere presidente”. Ancora prima dello Sputnik, il senatore del Massachusetts John Fitzgerald Kennedy aveva ripetutamente attaccato il presidente Eisenhower accusandolo di non destinare finanziamenti adeguati al programma missilistico, che secondo lui aveva causato un ritardo degli Stati Uniti rispetto all’Unione Sovietica nella corsa agli armamenti e quello che Kennedy definì “un gap missilistico”. Nel novembre 1957, Johnson, in quanto leader della maggioranza, aprì le audizioni del senato sul ritardo degli Stati Uniti e ammonì il paese: “Presto i russi ci lanceranno bombe dallo spazio come bambini che lanciano pietre sulle automobili dai cavalcavia delle autostrade”.

La scrittrice e ambientalista Rachel Carson osservava con sgomento la creazione di questo “universo dell’era spaziale”. Gli uomini fantasticavano sulla “conquista dello spazio” da prima di H.G. Wells, come lei sapeva benissimo. “Prima dello Sputnik era facile liquidare tutto come fantascienza”, scrisse alla donna che amava, Dorothy Freeman, nel febbraio 1958. “Ora i progetti più inverosimili sembrano traguardi perfettamente raggiungibili. E sembra davvero possibile che l’uomo – per quanto psicologicamente poco preparato – prenda nelle sue mani molte delle funzioni di Dio”. Le audizioni di Johnson incoraggiarono Carson a scrivere un libro che per lungo tempo chiamò L’uomo contro la Terra, ma che alla fine fu pubblicato nel 1962 con il titolo Primavera silenziosa (Feltrinelli 2016).

Nel 1958, in Vita activa. La condizione umana (Bompiani 2017), Hannah Arendt descriveva il lancio dello Sputnik come un avvenimento della storia umana “secondo a nessun altro per importanza, neppure alla scissione dell’atomo”. Come Carson, Arendt non celebrava questi sviluppi, descritti dalla stampa dell’epoca come il primo “passo verso la fuga dalla prigionia degli uomini sulla Terra”. Una fuga? “Nessuno nella storia dell’umanità ha mai concepito la Terra come una prigione per gli uomini o ha dimostrato un tale desiderio di andarsene letteralmente da qui alla Luna”, scriveva Arendt, lamentando gli albori di un’epoca in cui la Terra veniva sentita come una prigione e lo spazio era l’ennesimo luogo da conquistare.

Il programma fu lanciato nell’ambito di una competizione tra partiti, ma fu ovviamente anche un fronte della guerra fredda

Nel 1958, l’anno in cui Carson cominciò a scrivere Primavera silenziosa e Arendt pubblicò Vita activa, il presidente Dwight Eisenhower fondò la Nasa, con la significativa e importante accortezza d’istituirla come ente civile.

In un discorso d’addio pronunciato il 17 gennaio 1961, tre giorni prima dell’insediamento di Kennedy, Eisenhower deplorava la corsa agli armamenti e accusava quello che definì “il complesso militare-industriale”. Il 12 aprile 1961, quando Kennedy non aveva ancora finito di sistemarsi nello studio ovale, i sovietici mandarono un uomo nello spazio, Jurij Gagarin. Cinque giorni dopo, Kennedy faceva i conti con la prima crisi della sua presidenza: la pasticciata invasione della baia dei Porci cubana, a sua volta un fallimento dell’intelligence e della tecnologia. A una conferenza stampa, un giornalista gli chiese: “Signor presidente, non crede che dovremmo cercare di arrivare sulla Luna prima dei russi?”. Il 5 maggio Alan Shepard diventò il primo americano a volare nello spazio, in una missione nota come Freedom 7. Il 25 maggio, in un messaggio al congresso, Kennedy si avvicinò a una decisione: “Questo paese dovrebbe impegnarsi a raggiungere l’obiettivo, entro la fine del decennio, di far atterrare un uomo sulla Luna e riportarlo sulla Terra sano e salvo”.

Kennedy aveva fatto campagna elettorale promettendo una nuova frontiera, e intendeva essere di parola. “‘Perché la Luna?’, chiedono alcuni”, disse in un emozionante discorso alla Rice university, a Houston, il 12 settembre 1962. “Siamo salpati in questo nuovo mare perché ci sono nuovi saperi da acquisire e nuovi diritti da conquistare, e devono essere conquistati e usati per il progresso di tutti”.

Ma se il programma fu lanciato nell’ambito di una competizione tra partiti, fu ovviamente anche un fronte della guerra fredda. Nel suo …The heavens and the Earth: a political history of the space age (Basic Books 1985) Walter A. McDougall, storico della University of Pennsylvania sostiene che il passaggio da Eisenhower a Kennedy, all’indomani dello Sputnik, cambiò la natura stessa della guerra fredda. “Se fino ad allora era stata una lotta militare e politica in cui gli Stati Uniti dovevano solo dare aiuto e conforto ai loro alleati sulle linee del fronte”, ha scritto McDougall, “la guerra fredda ora diventava totale, una competizione per la lealtà e la fiducia di tutti i popoli combattuta in ogni campo del progresso sociale, in cui i manuali di scienza e l’armonia razziale erano strumenti di politica estera quanto i missili e le spie”.

Per McDougall, un conservatore, la corsa alla Luna guidata dai democratici fu un passo sulla “strada della servitù”. “Formare x migliaia di ingegneri, raggiungere la Luna entro il 19xx, posizionare x missili nei silos a prescindere dal dispiegamento sovietico, pianificare una crescita economica dell’x per cento senza disoccupazione e senza inflazione, questi non erano incarichi assegnati da una società libera ma i dettami di un’economia di comando”.

Le persone attirate da questo argomento spesso lo sono anche dallo studio di Wernher von Braun, l’ex nazista ed ex ufficiale delle Ss che diresse il programma missilistico statunitense. Durante la seconda guerra mondiale, von Braun aveva presieduto alla produzione del missile tedesco V-2 (La “V” stava per Vergeltung, vendetta) in un impianto costruito all’interno del campo di concentramento di Mittelbau-Dora, dove i missili venivano montati dai detenuti. Diventare cittadino statunitense non sembrò diminuire lo zelo di von Braun per uno sviluppo tecnologico senza freni. “Non sentivamo nessuno scrupolo morale per il possibile abuso futuro della nostra creatura”, disse al New Yorker nel 1951. “Se non lo avessi fatto io lo avrebbe fatto qualcun altro” (la sua amoralità è al centro di una canzone registrata nel 1965 da Tom Lehrer: “Non dire che è ipocrita / di’ piuttosto che è apolitico / ‘Quando i missili sono in aria, a chi importa dove vengono giù? Questo non è di mia competenza’, dice Wernher von Braun”).

Le conseguenze apparentemente impreviste dello sviluppo di tecnologie che avrebbero portato l’uomo sulla Luna non erano la maggiore preoccupazione dell’amministrazione Kennedy, soprattutto perché molte di quelle conseguenze furono intenzionali: i missili possono portare anche le armi, e tutto quello che abbiamo imparato dalla missione sulla Luna ha avuto applicazioni militari, anche se la Nasa era un’agenzia civile. Se non erano allarmate dalle implicazioni della conquista dello spazio o dal futuro della guerra, le amministrazioni Kennedy e Johnson erano molto preoccupate dal movimento per i diritti civili. Edward R. Murrow, che aveva lasciato la Cbs per un incarico nell’amministrazione Kennedy, sollecitò il presidente a mettere un astronauta nero nella missione sulla Luna: “Non vedo nessun motivo per cui i nostri sforzi nello spazio esterno debbano riflettere così fedelmente la discriminazione che esiste su questo pianeta minore”.

Fu quindi reclutato Edward Dwight, che diventò il primo pilota nero dell’aviazione a essere addestrato nell’Aerospace research pilot school della base aerea Edwards. Ma, come ci racconta in Chasing the Moon, fu quasi costretto ad andarsene dal suo comandante, Chuck Yeager, che dette ordine alle altre reclute di non rivolgergli la parola. Nel frattempo, come racconta Brinkley, la Casa Bianca usò il programma spaziale per cercare di promuovere lo sviluppo economico del sud, soprattutto dopo l’arrivo di Johnson alla presidenza. “La Casa Bianca stava lavorando sodo per cambiare il vecchio sud”, scrive Brinkley, “anche usando la Nasa per portare posti di lavoro high-tech e un modo di pensare futuristico in regioni arretrate e lente ad abbandonare pregiudizi violenti e controproducenti”.

Nella misura in cui fu un progetto progressista con un grande intervento governativo, il programma spaziale non sopravvisse alla svolta conservatrice della politica statunitense. “Molti problemi cruciali di questo pianeta esigono un’alta priorità in termini di attenzione e di risorse”, disse Richard Nixon nel 1970 quando, da presidente, respinse la raccomandazione della Nasa di costruire una stazione sulla Luna da usare come base per l’esplorazione di Marte. Nella misura in cui fu un’altra battaglia della guerra fredda, il programma spaziale sopravvive solo nelle fantasie di Donald Trump, con la sua proposta di una forza armata spaziale. E se il programma spaziale implicava un ripudio dell’umanità stessa, l’eredità dell’Apollo è Alexa, e ci perseguita tutti.

Un piccolo passo per un uomo, un balzo gigantesco per l’umanità. Quello che ci ha lasciato la spedizione sulla Luna è la meraviglia della scoperta, la gioia della conoscenza, non l’eccezionalità dei macchinari ma la saggezza della bellezza e il potere dell’umiltà. Una sola immagine, la foto della Terra dallo spazio scattata da William Anders dall’Apollo 8 nel 1968, è diventata l’icona dell’intero movimento ambientalista. Le persone che hanno visto la Terra dallo spazio, non in fotografia ma nella vita reale, ripetono più o meno tutte la stessa cosa. “Basta passare anche poco tempo a contemplare la Terra dall’orbita, e i nazionalismi più radicati cominciano a erodersi”: così l’astronomo statunitense Carl Sagan una volta descrisse il fenomeno. “Sembrano gli scontri degli acari su una prugna”.

Questa esperienza, questa sensazione di trascendenza è così universale tra la minuscola manciata di persone che hanno avuto occasione di provarla che gli scienziati le hanno dato un nome. Si chiama effetto veduta d’insieme. Hai una sensazione d’interezza. I fiumi sembrano sangue. “La Terra è come una cosa vivente e vibrante”, ha pensato l’astronauta cinese Yang Liu vedendola. Colse Alan Shepard di sorpresa. “Se qualcuno prima del volo mi avesse chiesto ‘Ti lascerai prendere dall’emozione guardando la Terra dalla Luna?’, avrei risposto ‘No, assolutamente no’. Eppure, la prima volta che ho guardato la Terra dalla Luna ho pianto”. Il cosmonauta russo Jurij Artjushkin l’ha espresso così: “Non è importante in quale mare o lago osservi una chiazza d’inquinamento o nella foresta di quale paese scoppia un incendio o in quale continente si forma un uragano. Stai facendo la guardia a tutta la nostra Terra”.

Tutto questo è bellissimo. Ma ecco l’intoppo. Sono passati cinquant’anni. Il livello delle acque sta salendo. La Terra ha bisogno di essere protetta, e non solo da chi l’ha vista dallo spazio. Per salvare il pianeta non occorre una nuova corsa alla Luna, o su Marte, ma alla Casa Bianca, mettendo un piede davanti all’altro.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Questo articolo è stato pubblicato il 19 luglio 2019 sul numero 1316 di Internazionale.

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