Da Tokyo a Beirut in una cassa, la storia della fuga di Carlos Ghosn
Questo articolo è stato pubblicato il 4 dicembre 2020 sul numero 1387 di Internazionale.
Per un milionario di solito è normale prendere dei rischi, ma nessuno ha mai compiuto un’impresa epica come quella di Carlos Ghosn. Nel dicembre 2019 l’ex amministratore delegato della Renault-Nissan ha fatto qualcosa che poteva portarlo a vivere il resto della vita da uomo libero o a morire in prigione. Accusato di aver commesso reati finanziari per quasi 90 milioni di euro, è scappato dagli arresti domiciliari in Giappone e ha lasciato il paese con un jet privato. “Ho corso un rischio enorme”, dice con sorprendente distacco.
A Beirut, in Libano, sono le nove e mezza del mattino e il latitante più famoso del mondo mi parla mentre attraversa via Abdel Wahab el Inglizi ed entra nell’hotel Albergo con la moglie Carole. È uno dei pochi hotel della città ancora aperti dopo la grande esplosione avvenuta al porto lo scorso agosto. La casa di Ghosn è stata danneggiata, ma per lui questa città martoriata è un paradiso. “Posso stare con mia moglie e i miei figli, che pensavo di non rivedere mai più”, dice sorridendo.
Ghosn, che ha trasformato la Nissan da rivale in difficoltà della Toyota e della Honda in un marchio mondiale e ha costruito il più grande stabilimento automobilistico del Regno Unito, è stato arrestato nel novembre 2018 con l’accusa di aver nascosto al fisco decine di milioni di euro di guadagni. Accuse che lui nega. È stato in isolamento in una gelida cella di Tokyo per 130 giorni e poi agli arresti domiciliari. Ma a dicembre del 2019 Ghosn, 66 anni, è scappato su un aereo per Istanbul e poi su un altro per Beirut. La sua è la storia del mondo degli affari e del crimine più clamorosa del decennio.
Il piano ha funzionato in modo spettacolare, ma non per i suoi complici
Al sicuro a casa – il Libano non ha un accordo di estradizione con il Giappone – è pronto a raccontare la sua versione della vicenda. “Sto lottando per la mia reputazione”, dice, con gli occhi che improvvisamente si accendono. Ha scritto un libro, Le temps de la vérite (Il tempo della verità), in cui accusa la Nissan di aver inventato le accuse contro di lui per licenziarlo e impedirgli di dare alla Renault un peso maggiore nel gruppo, perché sarebbe stato, afferma, un colpo insostenibile per l’orgoglio aziendale e nazionale giapponese. Ci arriveremo, ma veniamo al punto. Come ha fatto a mettere in atto una fuga che fa sembrare Houdini un dilettante?
Ghosn rivela che, a differenza di quanto hanno scritto i giornali, non ha passato mesi a programmare la sua fuga di mezzanotte. Sapeva che dei collaboratori stavano complottando per farlo uscire dal Giappone, ma non conosceva i dettagli. Ha deciso di rischiare il tutto per tutto solo lo scorso dicembre, quando i giudici hanno rifiutato le sue richieste di vedere la moglie e hanno stabilito che il processo sarebbe stato diviso in due parti: significava che sarebbe durato almeno cinque anni. Se poi lo avessero condannato, rischiava fino a quindici anni di carcere. “Ho dovuto fare una scelta: vivere ingiustamente una vita miserabile o rischiare”.
Rapidità e riservatezza
Per avere qualche possibilità di successo, la fuga “doveva essere rapida e riservata; ho limitato i contatti al minimo indispensabile”. Contatti? Come poteva comunicare con la squadra che lo avrebbe aiutato se non aveva un computer e il suo telefono era intercettato? Ghosn confessa di essere riuscito a procurarsi un cellulare non rintracciabile “usa e getta”, del tipo usato da spie e spacciatori. Come ha fatto? Non lo dice, ma una fonte informata sui fatti mi spiega che “se paghi la cifra giusta, in Giappone puoi avere tutto quello che vuoi”. Poi Ghosn, che parla quattro lingue a una velocità supersonica, si chiude completamente: “Non intendo rivelare i dettagli”. Ne ha tutti i motivi.
Anche se il piano ha funzionato per lui in modo spettacolare, si è rivelato disastroso per i suoi complici, Michael Taylor, sessant’anni, e suo figlio Peter, 27. Michael è un ex berretto verde (le forze speciali dell’esercito statunitense) del Massachusetts specializzato in esfiltrazioni, cioè nel riportare a casa persone che si sono messe nei guai all’estero. I Taylor sono stati arrestati negli Stati Uniti a maggio su richiesta del Giappone, che ne vuole l’estradizione. Se saranno condannati a Tokyo per favoreggiamento, rischiano quattro anni di carcere. Ma la maggior parte dei dettagli sulla fuga è emersa attraverso fonti libanesi che abbiamo contattato, dagli avvocati e da un’intervista che Michael Taylor ha rilasciato prima di sapere che gli inquirenti giapponesi avevano cominciato a sospettare di lui e del figlio.
A mezzanotte del 27 dicembre, il suo telefono usa e getta ha squillato
Ghosn, che è stato la prima persona ad aver gestito contemporaneamente due aziende incluse nella classifica Fortune 500, naturalmente ha molte conoscenze. Appena sono emersi i dettagli di com’era trattato nel carcere giapponese di Kosuge, i manager e i faccendieri che ingrassano gli ingranaggi della politica e degli affari in Medio Oriente hanno cominciato a pensare, per usare le parole di uno di loro, a come “riportare a casa nostro fratello”. Un uomo d’affari libanese, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha contattato Taylor. L’aveva conosciuto in Iraq quando cercava opportunità d’investimenti dopo la caduta di Saddam Hussein. Taylor forniva servizi di sicurezza privati. Gli ha chiesto se poteva “aiutare un amico a Tokyo”. Taylor non ci ha messo molto a capire cosa intendeva dire e ancor meno a rendersi conto che sarebbe stato il lavoro più difficile della sua vita. Ghosn era agli arresti domiciliari, ma la sua casa era sorvegliata da telecamere a circuito chiuso e agenti in borghese lo seguivano ovunque.
Un aereo era l’unica possibilità: il paese occidentale più vicino senza un accordo di estradizione con il Giappone era a più di quattromila chilometri di distanza. Ma il nome di Ghosn non poteva comparire sulla lista dei passeggeri e nessuno doveva vederlo salire a bordo: uno degli uomini più noti in Giappone doveva diventare invisibile. Fonti di Beirut dicono che Taylor ha cominciato a studiare le disposizioni di sicurezza di ogni terminal aeroportuale privato nel raggio di 800 chilometri da Tokyo. L’aeroporto di Osaka, ha scoperto, non aveva apparecchiature a raggi X abbastanza grandi per scansionare bagagli di grosse dimensioni. Taylor ha calcolato che una cassa come quelle usate dai musicisti per trasportare gli altoparlanti da palcoscenico sarebbe stata perfetta per nascondere Ghosn, che non è alto ma pesa 75 chili. L’ex berretto verde ha chiesto a una ditta per eventi di Beirut di costruire una cassa nera che fosse troppo grande per gli scanner di Osaka ma abbastanza piccola da passare attraverso il portellone della stiva di un jet privato; ha chiesto anche di fare sul fondo dei fori per far passare l’aria e di aggiungere ruote robuste e veloci. Quando sei in fuga, la velocità conta.
Poi aveva bisogno di un operatore che chiudesse un occhio alla partenza del volo Istanbul-Beirut, su cui Ghosn avrebbe dovuto imbarcarsi normalmente: al terminal per i voli privati dell’aeroporto di Istanbul è possibile scansionare merci di tutte le dimensioni. Aveva chiesto a centinaia di compagnie di charter se potevano occuparsi di una “persona importante” che richiedeva “un alto livello di discrezione”, cioè di un volo “oscurato”. Fonti di Beirut riferiscono che si era quasi arreso quando aveva fatto un’ultima telefonata a un operatore con sede in Turchia chiamato Mng. Un suo dipendente aveva detto che poteva aiutarlo. La direzione dell’Mng ha poi dichiarato di essere stata raggirata da un dipendente disonesto.
Taylor a quel punto aveva un aereo, un aeroporto e un nascondiglio, ma ancora non aveva idea di come portare il clandestino a Osaka. È stato fortunato. Attraverso fonti di Tokyo ha scoperto che, inspiegabilmente, i filmati delle telecamere di sicurezza della casa di Ghosn non erano controllati in diretta, ma esaminati qualche giorno dopo. Era tutto il tempo di cui aveva bisogno per farlo sparire, ma possibile che fosse vero? Sarebbero riusciti anche a sfuggire agli agenti in borghese? Era un rischio che valeva la pena correre.
Alla mezzanotte del 27 dicembre, Gho-sn era a letto quando il telefono usa e getta ha squillato. “Ci vediamo domani”, ha detto Taylor, e gli ha indicato luogo e ora dell’appuntamento, quindi ha riattaccato. Taylor ha raggiunto Osaka durante la notte con un jet privato da Dubai. Era con un fixer libanese che aveva detto ai piloti di fare rifornimento all’atterraggio e di tenersi pronti a ripartire con un’ora di preavviso per qualsiasi destinazione nel raggio di diecimila chilometri. Quando la cassa è stata scaricata, Taylor ha detto agli addetti ai bagagli che dentro c’erano degli altoparlanti e che lavorava per dei musicisti che avrebbero suonato quella sera.
Alle 14.30 del 29 dicembre, Ghosn è uscito di casa per andare al Grand Hyatt, dove gli era permesso di pranzare, ma invece di dirigersi verso uno dei ristoranti dell’hotel ha preso l’ascensore fino alla stanza 933, che era stata prenotata a nome di Peter Taylor. Michael e il fixer lo stavano aspettando. Si è cambiato e ha indossato un berretto, occhiali e una mascherina chirurgica, usata comunemente in Giappone anche prima della pandemia. I tre sono usciti da una porta laterale. Non ne potevano essere certi, ma gli sembrava di non essere stati seguiti.
Sono andati alla stazione principale di Tokyo e sono saliti a bordo del treno ad alta velocità delle 16.30 diretto alla stazione di Shin-Osaka. Con il capodanno imminente “c’erano decine di persone nella carrozza”, scrive Ghosn nel libro, ma nessuno l’ha riconosciuto. Da Shin-Osaka sono andati allo Star Gate hotel, dov’era stata prenotata una stanza. Una volta lì, mentre Taylor avvisava i piloti di prepararsi al decollo, Ghosn è entrato nella cassa. Taylor l’ha chiusa a chiave e insieme al fixer l’ha spinta fuori fino a un furgone nero in attesa.
Michael Taylor aveva programmato l’arrivo al terminal dei voli privati venti minuti prima della partenza, prevista per le 22.30. Aveva detto al personale del terminal che il concerto era finito in ritardo. Contava sul fatto che alla fine di un lungo turno gli agenti avevano fretta di tornare a casa. Aveva ragione. Il personale di sicurezza ha fatto passare la cassa attraverso il terminal e poi su un nastro trasportatore che portava alla stiva del jet, posta proprio dietro la cabina passeggeri. Quando Ghosn ha sentito il rumore del portellone che si chiudeva e i motori che si accendevano, ha cominciato a rilassarsi per la prima volta in più di un anno. “Quel rumore era il suono di una folle speranza”, ha scritto. Poco dopo le 23, quando il jet si è stabilizzato a undicimila metri di altitudine e mille chilometri orari sulla “rotta lunga” verso la Turchia attraverso la Russia (quella più breve avrebbe attraversato paesi che hanno accordi di estradizione con Tokyo), Taylor ha aperto la porta tra la cabina e il vano di carico. Ha tolto il lucchetto alla cassa e Ghosn è uscito. Hanno sorriso, ma era presto per festeggiare. La parte più rischiosa doveva ancora arrivare.
L’aereo è atterrato a Istanbul alle 5.26 del 30 dicembre. Il piano prevedeva che Ghosn attraversasse la pista e salisse su un secondo aereo privato con destinazione Beirut. Taylor e il fixer avrebbero preso il volo di linea successivo per il Libano. Il sole non era ancora sorto sul Bosforo. Ghosn era sicuro che non l’avrebbero riconosciuto, ma non aveva modo di sapere se le autorità giapponesi avevano già lanciato l’allarme. Ormai era sparito da quasi un giorno intero. Avevano avvertito la polizia turca? Avrebbe trovato il secondo jet? Ghosn ha sorriso quando ha visto l’aereo. Inspirando l’aria gelida dell’alba, ha attraversato la pista, ha salito la scaletta e ha chiesto all’assistente di volo di “chiudere il portello e partire”.
Molti in Giappone pensavano che avesse superato i limiti
Poco più di un’ora dopo, alle 6 del mattino, il jet (ufficialmente) senza passeggeri si è fermato davanti al padiglione vip dell’aeroporto di Beirut. Ghosn, che si era cambiato e indossava un completo scuro, ha preso il passaporto francese che le autorità giapponesi gli avevano permesso di tenere in una borsa con uno speciale sigillo di sicurezza. L’aveva aperta solo dopo l’atterraggio a Beirut perché temeva che potesse lanciare un segnale d’allarme elettronico al momento della rottura del sigillo. Quando è uscito, guardando le montagne innevate sopra la sua città, si è detto: “Finalmente, ce l’ho fatta”. Alle 6.10 Carole, la moglie, che era in Libano per far visita ai genitori e stava dormendo, è stata svegliata dalla telefonata di un amico. “Vai subito dai tuoi. C’è una sorpresa”, le ha detto. “Il mio primo pensiero”, ricorda lei, “è stato ‘Oh mio Dio. Sarà una brutta notizia’”. Quando ha visto il marito scendere da un’auto con i vetri oscurati, è corsa verso di lui e l’ha abbracciato “più forte di quanto avevo mai fatto”. Ghosn le ha detto: “Sei la mia leonessa. Hai combattuto tanto per me”. Si dice che Ghosn e i suoi abbiano pagato quasi 900mila euro alla Promote Fox, una società legata ai Taylor. L’intera operazione è costata probabilmente molto di più. Ghosn ha anche perso più di 12 milioni di euro di cauzione. Comunque, quel volo è stato l’affare del secolo.
Molti interrogativi
L’epica fuga solleva tante domande che è difficile capire da dove cominciare, ma forse si può partire da: perché rischiare? Se l’avessero catturato, sarebbe stata interpretata come una prova della sua colpevolezza. Sarebbe stato condannato e quasi certamente mai rilasciato. “C’è un proverbio che dice ‘quando vivi all’inferno, continua a camminare’. Io vivevo all’inferno”, spiega. “In prigione ho subìto interrogatori interminabili, senza avvocati. Dicevano che se non avessi confessato avrebbero preso di mira la mia famiglia. Non mi hanno permesso di vedere mia moglie e i miei figli. Avrei affrontato un processo che sarebbe durato almeno cinque anni, e tutti che mi ricordavano che i pubblici ministeri giapponesi ottengono una condanna nel 99,4 per cento dei casi. Ho dovuto camminare, non per sfuggire alla giustizia, ma all’ingiustizia”.
È possibile che la giustizia giapponese sia così prevenuta verso un imputato? Secondo un uomo d’affari britannico che ha imparato a sue spese come funzionano le cose nel paese, sì. Michael Woodford denunciò una frode da più di un miliardo di euro dell’Olympus, una delle aziende giapponesi più famose, di cui era manager dieci anni fa. Per questo fu licenziato. Ha lasciato Tokyo e ha intrapreso una battaglia a distanza sui mezzi d’informazione che alla fine ha visto i vertici dell’azienda ammettere la loro colpevolezza. “Dubito che Ghosn avrebbe subìto un giusto processo”, dice. Ma il Giappone sostiene che il suo sistema giudiziario è allo stesso livello di quelli di altri paesi ricchi. Ghosn usa il suo libro per difendersi. Le accuse contro di lui sono complicatissime, ma si riducono a tre affermazioni. In primo luogo, dicono i pubblici ministeri giapponesi, non ha denunciato quasi 67 milioni di euro di guadagni che avrebbe dovuto incassare dopo il pensionamento, derivati da accordi di non concorrenza e consulenze. In secondo luogo, è accusato di aver tentato di trasferire sui libri contabili della Nissan perdite personali per più di 13 milioni di euro. La Nissan pagava lo stipendio a Ghosn in yen. Per proteggerlo dalle fluttuazioni valutarie, aveva concordato una polizza assicurativa sul cambio con una banca giapponese. Le fluttuazioni del valore dello yen e del prezzo delle azioni Nissan durante la crisi finanziaria globale hanno superato i termini della copertura, lasciandolo in perdita per più di 13 milioni di euro. Ha chiesto alla Nissan di fornire le garanzie aggiuntive di cui aveva bisogno per convincere la banca a non esigere il suo credito.
In terzo luogo, i pubblici ministeri affermano che ha dirottato nelle proprie casse 4,5 dei 30 milioni di euro di incentivi legati ai risultati pagati a un rivenditore Nissan in Oman. Parte di quei 4,5 milioni, dicono, è stata usata per comprare uno yacht tramite una società della moglie. Ghosn sostiene di non aver nascosto i 67 milioni di euro da incassare dopo la pensione perché la Nissan non si è mai impegnata a pagarli e non ha mai avuto nulla né mai lo avrà. Ammette di aver cercato di evitare la perdita di 13 milioni di euro, ma dice che la Nissan aveva accettato di fornire le garanzie di cui aveva bisogno. Ma l’accordo “non è mai decollato” perché le autorità garanti giapponesi l’hanno annullato per conflitto d’interessi. Infine nega di essersi mai appropriato di quei 4,5 milioni di euro o di altro denaro.
I dubbi sulla difesa
A Tokyo c’è chi mette in dubbio le affermazioni di Ghosn. Perché, si chiede qualcuno, il suo ex collega Hiroto Saikawa ha ammesso che quando era direttore rappresentante nel consiglio di amministrazione della Nissan aveva firmato lettere che documentavano i guadagni post-pensionamento di Ghosn? Perché, inoltre, la Nissan si è dichiarata colpevole di aver dato informazioni fuorvianti sui versamenti e ha accettato di pagare una multa di 13 milioni di euro? Ghosn dice che le dichiarazioni di Saikawa non sono affidabili. La Nissan afferma di aver “condotto un’approfondita indagine interna con la partecipazione di legali esterni” da cui sono emerse “prove concrete e convincenti” delle “scorrettezze commesse intenzionalmente da Ghosn”.
I suoi detrattori inoltre non sono convinti che i trenta milioni di euro pagati al rivenditore in Oman fossero, come sostiene Ghosn, “pagamenti legittimi per vendite e marketing”. Lui insiste invece nel dire che era “tutto giustificato, deciso dalla Nissan e basato sui suoi risultati aziendali”. Se Ghosn è innocente, come spiega che lo scorso settembre ha accettato di pagare 890mila euro per patteggiare con la Securities and exchange commission degli Stati Uniti, che lo accusava di aver nascosto quando era alla Nissan più di 120 milioni di euro del suo pacchetto retributivo? “I miei avvocati mi hanno consigliato di patteggiare” per risparmiare quasi otto milioni di euro in spese legali. “Ma”, aggiunge, “non c’è stata nessuna ammissione di colpa”.
Le argomentazioni di Ghosn sono solide, ma molti in Giappone lo considerano un outsider che “ha superato i limiti per pura avidità”, come ha tuonato il Nikkei, il principale quotidiano finanziario giapponese, dopo il suo arresto. A giudicare dal suo reddito dichiarato non è povero. Nel 2017 aveva almeno tre stipendi: 5,6 milioni di euro all’anno dalla Nissan, più di sette milioni di euro dalla Renault e 1,7 milioni dalla Mitsubishi, che faceva parte del gruppo. Gruppo che gli ha fornito cinque case: ad Amsterdam, Parigi, Tokyo, Beirut e Rio de Janeiro. La casa di Beirut da quasi otto milioni di euro, a cui ha ancora accesso dopo una sentenza del tribunale libanese, è stata ristrutturata dalla Nissan al costo di 6,7 milioni di euro.
Il suo stile di vita era leggendario. Per i cinquant’anni della moglie ha organizzato una festa a tema “corte di Maria Antonietta” nel palazzo di Versailles, con una piramide di pasticcini alta più di un metro e attori in costume con parrucche alla Pompadour. Dice di aver pagato di tasca sua tutte le spese. Ma secondo i suoi detrattori la Renault ci ha rimesso cinquantamila euro: l’azienda aveva un accordo di sponsorizzazione aziendale con Versailles e uno dei suoi crediti gratuiti per l’affitto della sala è stato usato per la festa. È possibile che, via via che diventava più potente, Ghosn abbia confuso il confine tra le spese aziendali e quelle personali? “La Renault e la Nissan hanno revisori interni ed esterni, direttori finanziari, controllori che verificano tutte le spese”, replica. Aggiunge che le case che aveva in uso appartenevano alla Nissan, ed è ancora così. L’azienda le ha acquistate perché “costava meno ed era più sicuro che mantenerlo in albergo”. Dice di aver pagato quasi novemila euro al mese di affitto, “non un prezzo da amici”, per la casa di Amsterdam, che doveva essere la sua residenza, dato che la sede principale del gruppo è nei Paesi Bassi.
Chi contesta Ghosn si chiede perché la Nissan avrebbe dovuto affrontare l’imbarazzo di un’indagine penale se non era stato commesso alcun reato. Perché non risolvere la questione internamente o insabbiarla? Come Woodford ha imparato con l’Olympus, le aziende giapponesi possono abilmente nascondere i loro segreti sotto il tappeto. Ghosn dice che i dirigenti della Nissan erano così determinati a impedirgli di concludere quella che temevano sarebbe stata una fusione completa con la Renault da aver bisogno di metterlo “completamente fuori gioco, cioè in prigione”. Spiega che “il Giappone è diventato nazionalista. Volevano ‘rinipponizzare’ la Nissan”. Le email trapelate, insiste, mostrano che è stato vittima di una trappola. Un alto dirigente della Nissan si era impegnato a “neutralizzare le iniziative di Ghosn prima che fosse troppo tardi”.
Chi conosce bene la Nissan e Ghosn non è così sicuro che i timori di una fusione spieghino del tutto il comportamento dell’azienda, che si sarebbe mossa contro di lui anche perché aveva confuso il confine tra l’aziendale e il personale. “Li stava prendendo in giro e a Tokyo il risentimento ha semplicemente raggiunto il punto di ebollizione”, dice un ex dirigente. “Aveva tagliato le spese a tal punto che i dirigenti dovevano comprarsi la cancelleria da soli. Il suo soprannome era ‘l’ammazzaspese’. Usava il jet aziendale per viaggi che forse implicavano anche una riunione ma sicuramente avevano a che fare con la possibilità di vedere la moglie. E aveva davvero bisogno di tutte quelle case? Non credo che abbia oltrepassato i limiti di legge, ma molti in Giappone pensavano che avesse superato il limite morale ed erano determinati a fargliela pagare”. Un altro ex collega sottolinea che, anche se è vero che la Nissan aveva revisori interni ed esterni che contavano ogni centesimo, tutti facevano capo a Ghosn. “Aveva troppo potere sulle decisioni di spesa”.
No comment
Cosa succederà ora? Ghosn non può lasciare il Libano perché ha paura che in qualsiasi altro paese potrebbe essere estradato. Il processo in Giappone è stato sospeso. Potrebbe essere processato in Libano? “L’abbiamo chiesto”, dice, anche se sa che Tokyo non accetterà mai. La cosa più vicina a un processo che potrà mai ottenere è quella appena cominciata a Tokyo contro il suo coimputato, Greg Kelly, l’ex capo dell’ufficio legale statunitense accusato di aver aiutato Ghosn a dichiarare uno stipendio inferiore a quello effettivo. È probabile che i pubblici ministeri giapponesi tenteranno di trasformare il processo di Kelly in quello di Ghosn. Se riescono a gettare abbastanza fango su entrambi, possono farne condannare uno in contumacia dal tribunale di Tokyo e l’altro da quello dell’opinione pubblica.
Non teme che l’ex collega, che si è dichiarato innocente, pagherà per la sua fuga? O che, a 64 anni, con uno stato di salute precario e il rischio di una condanna a dieci anni di carcere, possa cercare di ottenere uno sconto di pena accusandolo? “Molti avvocati dicono che le accuse contro di lui sono inconsistenti. Conoscendolo, non credo sarà tentato di farlo”.
E i Taylor? Presto potrebbero ritrovarsi in un’aula di tribunale in Giappone in divisa da detenuti. Prima di organizzare il piano di fuga si sono accertati che non avrebbero violato nessuna legge degli Stati Uniti, ma non hanno pensato a fare lo stesso per il Giappone. A settembre un magistrato federale di Boston ha approvato la richiesta di estradizione di Tokyo. I Taylor sono ricorsi in appello. Si sente in colpa per il fatto che rischiano di finire nel carcere che lo hanno aiutato a evitare? “No comment”, risponde.
Nato in Brasile da immigrati libanesi, Ghosn si è trasferito in Libano a sei anni e ha studiato a Beirut e Parigi. Ha cominciato a lavorare alla Michelin. Dopo la nascita del gruppo Renault-Nissan nel 1999, è diventato amministratore delegato della Nissan nel 2001 e della Renault nel 2005. Ha salvato la Nissan dal fallimento e ha portato il gruppo al livello di Toyota, Volkswagen e General Motors per numero di auto vendute. Oggi tiene un corso universitario di management ed è stato invitato a entrare nel governo libanese, ma “dopo i problemi che ho avuto con due aziende con legami governativi, voglio star lontano dalla politica”, dice.
Di certo la fuga di Ghosn non sarà il capitolo finale della sua storia. Ci sono troppe cose irrisolte. Cosa ne sarà di lui, dei Taylor, di Kelly, della Nissan?
Dopo aver passato qualche giorno a Beirut a cercare di sciogliere i fili di questa vicenda, penso che non ci sarà un lieto fine per nessuno. Con la possibile eccezione dell’uomo che guardo uscire dall’hotel Albergo e attraversare la strada con la testa rivolta verso il sole che temeva di non rivedere mai più.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
- Carlos Ghosn è un imprenditore brasiliano, ex dirigente di Renault e Nissan, che nel 2018 è stato arrestato per crimini finanziari.
- Nel dicembre del 2019 Ghosn è riuscito a scappare dal Giappone, dove si trovava in libertà vigilata in attesa del processo.
- La fuga è stata orchestrata e gestita da due cittadini statunitensi, l’ex agente delle forze speciali Micheal Taylor e suo figlio Peter. Secondo la stampa giapponese, i Taylor avrebbero ricevuto una somma pari a 1,3 milioni di dollari dall’imprenditore.
- Il 14 giugno 2021, all’apertura del processo contro di loro a Tokyo, i due hanno confessato il loro coinvolgimento nella fuga di Ghosn, aiutandolo a introdursi in un aereo privato che ha fatto scalo in Turchia ed è arrivato infine in Libano, dove non esiste un accordo di estradizione con il Giappone.
- La prossima udienza è fissata per il 29 giugno. Se condannati, rischiano fino a tre anni di carcere.
- Nell’inchiesta ci sono anche altri indagati: dal braccio destro di Ghosn, Greg Kelly, ad alcune persone che in Turchia hanno collaborato all’operazione.
Questo articolo è stato pubblicato il 4 dicembre 2020 sul numero 1387 di Internazionale. Era stato pubblicato dal Times con il titolo “The fugitive ceo Carlos Ghosn on how he escaped jail in Japan”.