Questo articolo è stato pubblicato il 30 dicembre 2004 sul numero 572 di Internazionale.
Uno.
Durante la notte si è alzato il vento
e ha portato via i nostri piani
(proverbio cinese)
Due.
I poveri non hanno una dimora. Hanno delle case, perché si ricordano le madri, i nonni o la zia che li ha cresciuti. La dimora è una fortezza, non una storia: tiene a bada i selvaggi. Ha bisogno di muri. Quasi tutti i poveri sognano una piccola dimora, perché sognano di riposare. Per quanto grande sia l’affollamento, i poveri vivono allo scoperto, dove improvvisano non dimore, ma spazi tutti per sé.
Questi spazi sono protagonisti quanto chi li occupa: hanno una vita propria e, a differenza delle dimore, non sono al servizio di altri. I poveri sono abituati a convivere con il vento, l’umidità, la polvere che si solleva, il silenzio, il rumore che assorda (a volte con entrambi: sì, è possibile!), con formiche, grossi animali, odori che vengono dalla terra, topi, fumo, pioggia, vibrazioni lontane, dicerie, con il calar della notte e gli uni con gli altri. Tra gli abitanti e queste presenze non ci sono linee di demarcazione nette. Inestricabilmente confusi, inventano insieme lo spazio della vita.
Stava scendendo il crepuscolo; l’oscurità aveva già cominciato a sigillare il cielo avvolto in una nebbia grigia e fredda; e il vento, che durante il giorno aveva percorso le stoppie e i nudi cespugli morti prima che arrivasse l’inverno, adesso si era posato sulla superficie immobile della terra.
Collettivamente, i poveri sono inafferrabili. Oltre a essere la maggioranza del pianeta, sono dappertutto, anche l’evento più piccolo parla di loro. Ecco perché oggi l’attività fondamentale dei ricchi è costruire muri – muri di cemento, a sorveglianza elettronica, sbarramenti di missili, campi minati, controlli di frontiera, e gli schermi opachi dei mezzi di informazione.
Tre.
La vita dei poveri è fatta per lo più di dolore, interrotto da momenti di illuminazione. Ogni vita ha una sua propensione alla luce e non ce n’è una che sia identica all’altra (il conformismo è un’abitudine coltivata dai ricchi). I momenti d’illuminazione arrivano attraverso la tenerezza e l’amore – la consolazione di essere riconosciuti e voluti e accolti per ciò che all’improvviso si è! Altri momenti sono illuminati dall’intuizione che, nonostante tutto, la specie umana serve a qualcosa.
“Nazar, dimmi una cosa qualsiasi – qualcosa che sia più importante di niente”.
Aidym abbassò il lucignolo della lampada per usare meno paraffina. Lei capì che, dal momento che nella vita c’è sempre qualcosa di più importante di niente, era essenziale aver cura di tutto quel che c’è di buono. “Non so quale sia la cosa davvero importante, Aidym”, disse Ciagataev. “Non ci ho pensato, non ne ho mai avuto il tempo. Ma se tutti e due siamo venuti al mondo, vuol dire che in noi c’è qualcosa di davvero importante”.
Aidym ne convenne: “Un pochino sì… e molto no”.
Aidym preparò la cena. Prese una focaccia dal sacco, la spalmò di grasso di pecora e la spezzò in due. Diede a Ciagataev la parte più grossa e per sé tenne la più piccola. Masticarono in silenzio il loro cibo alla luce fioca della lampada. Nell’Ustjurt e nel deserto tutto era calmo, incerto e buio.
Quattro.
Di tanto in tanto, in una vita fatta per lo più di dolore, si fa strada la disperazione. È l’emozione che si prova quando ci si sente traditi. La speranza malgrado tutto (che è ancora ben lontana da una promessa) crolla o viene fatta crollare; la disperazione riempie lo spazio dell’anima fino ad allora occupato da quella speranza. La disperazione non ha niente a che vedere con il nichilismo.
Il nichilismo, nella sua accezione contemporanea, è il rifiuto di credere in una qualsiasi scala di valori che vada al di là della ricerca del profitto, considerato fine esclusivo dell’attività sociale, di modo che tutto ha, rigorosamente, un prezzo. Il nichilismo sta nell’accettare la tesi che il Prezzo è tutto. È la forma più comune di vigliaccheria. Ma capita di rado che i poveri le cedano.
Cominciò ad avere pietà del proprio corpo e delle proprie ossa: un tempo sua madre le aveva raccolte per lui dalla miseria della sua carne – non per amore o per passione, non per piacere, ma per la più quotidiana delle necessità. Sentì di appartenere ad altri, come se fosse l’ultimo bene di chi non possiede alcun bene, sul punto di essere sperperato senza scopo, e fu preso dalla furia più grande e più vitale della sua vita.
(Qualche parola di spiegazione a proposito di queste citazioni. Sono tratte dai racconti del grande scrittore russo Andrej Platonov, 1899-1951. Platonov descrisse la povertà durante la guerra civile e più tardi durante la collettivizzazione forzata dell’agricoltura sovietica dei primi anni trenta.
Ciò che rendeva questa povertà diversa da povertà più antiche era il fatto che la sua desolazione portava in sé delle speranze andate in rovina. Era caduta al suolo esausta, si era risollevata, aveva vacillato, aveva marciato sui cocci di promesse tradite e parole martoriate. Platonov usava spesso il termine dushevny bednyak, alla lettera “povere anime”. Si riferiva a chi si era visto portare via tutto. Il vuoto che costoro avevano dentro era perciò immenso e in quell’immensità non gli restava che l’anima – vale a dire la capacità di sentire e soffrire. Le storie di Platonov non si aggiungono al dolore di vivere, salvano qualcosa. “Dalla nostra bruttezza crescerà il cuore del mondo”, scrisse nei primi anni venti.
Oggi il mondo soffre di una nuova forma di povertà. Non c’è bisogno di ricorrere alle cifre: sono ampiamente note e ripeterle per l’ennesima volta servirebbe soltanto a innalzare un altro muro di dati statistici. Più della metà della popolazione mondiale vive con meno di due dollari al giorno. Le culture locali, con i loro rimedi parziali sia fisici sia spirituali per alcune delle sofferenze della vita, sono sistematicamente distrutte o attaccate. Le nuove tecnologie e i nuovi mezzi di comunicazione, l’economia neoliberista, l’abbondanza produttiva, la democrazia parlamentare non riescono, per quanto riguarda i poveri, a mantenere alcuna promessa oltre quella di fornire qualche prodotto di consumo da pochi soldi, che i poveri possono acquistare quando rubano.
Platonov capì più a fondo di qualsiasi altro narratore a me noto che cosa significa vivere la povertà moderna).
Cinque.
I poveri sono convinti che le storie – ecco il loro segreto – siano raccontate per poter essere ascoltate in qualche altro posto, dove qualcuno, o forse una folta schiera di persone, sa meglio dello stesso narratore o dei protagonisti della storia che cosa significa vivere. I potenti non sono capaci di raccontare. Vantarsi è l’opposto del raccontare: ogni storia, anche la più leggera, dev’essere senza paura e i potenti oggi vivono nell’inquietudine.
Le storie parlano della vita a un giudice diverso e più definitivo, un giudice molto distante che forse è nel futuro o in un passato ancora vivo, o magari da qualche parte sulla collina, dove la fortuna del giorno è cambiata (i poveri sono costretti a parlare spesso di buona o cattiva sorte) e gli ultimi sono diventati i primi.
Il tempo narrativo (il tempo interno alle storie) non è lineare. Al suo interno vivi e morti si incontrano come ascoltatori e giudici, e quanto più numerosi sono gli ascoltatori di cui si avverte la presenza, tanto più per ciascuno di loro la storia si fa intima. Le storie sono un modo di condividere la certezza che la giustizia è imminente. Ed è in base a questa convinzione che in un certo momento bambini, donne e uomini combatteranno con ferocia stupefacente. Ecco perché i tiranni hanno paura dei racconti: ogni storia parla, in un modo o nell’altro, della storia della loro caduta.
Dovunque andasse, bastava che promettesse di raccontare una storia e la gente gli dava riparo per la notte: le storie sono più forti degli zar. C’era solo una cosa: se cominciava a raccontare prima del pasto serale, a nessuno veniva fame e non gli davano niente da mangiare. Così, per prima cosa, il vecchio soldato chiedeva sempre un piatto di minestra.
Sei.
Le peggiori crudeltà della vita sono le sue ingiustizie mortali. Quasi nessuna promessa viene mantenuta. L’accettazione delle avversità da parte dei poveri non è né passiva né rassegnata. È un’accettazione che scruta dietro le avversità e vi scopre qualcosa che non ha nome. Non una promessa, perché (quasi) nessuna promessa viene mantenuta; piuttosto qualcosa di simile a una parentesi, una parentesi nel flusso altrimenti inesorabile della storia. Il totale di queste parentesi è l’eternità.
O, detta in altro modo: su questa terra non c’è felicità senza un forte desiderio di giustizia.
La felicità non è qualcosa da inseguire, è qualcosa in cui ci si imbatte, un incontro. La maggior parte degli incontri, però, ha un seguito: la loro promessa è questa. L’incontro con la felicità non ha una continuazione. Tutto è lì istantaneamente. La felicità è ciò che trapassa il dolore.
“Pensavamo che non ci fosse più niente al mondo, che tutto fosse scomparso da molto tempo. E se eravamo gli ultimi rimasti, che senso aveva vivere?”.
“Andammo a controllare”, disse Allah. “Volevamo sapere se da qualche parte era rimasto qualcuno”.
Ciagataev capì e chiese se questo significava che adesso erano convinti della vita e non sarebbero più morti.
“Morire non serve”, disse Cerkezov. “Morire una volta – magari adesso ti sembra una cosa utile e necessaria. Ma morire una volta non ti serve a capire che sei felice – e nessuno ha la possibilità di morire due volte. Dunque morire non ti porta da nessuna parte”.
Sette.
Mentre i ricchi bevevano tè e mangiavano carne di montone, i poveri aspettavano il caldo e che le piante crescessero.
La differenza tra le stagioni, così come la differenza tra giorno e notte, bel tempo e pioggia, è vitale. Il tempo scorre turbolento. La turbolenza abbrevia il tempo della vita – sia nei fatti sia soggettivamente. La durata è breve. Niente dura. È una preghiera, ma anche un lamento.
(Quasi la madre) si rammaricasse d’esser morta e di aver costretto i figli a soffrire per lei; se avesse potuto, avrebbe continuato a vivere in eterno, perché nessuno si affliggesse e consumasse per causa sua il cuore e il corpo che lei stessa aveva generato. Ma non ce l’aveva fatta a vivere più a lungo.
La morte arriva quando alla vita non è rimasto più niente da difendere.
Otto.
…si sentiva davvero sola al mondo, libera da felicità e nostalgia, e avrebbe voluto magari ballare, subito, ascoltare un po’ di musica e tenere qualcuno per mano…
Sono abituati a vivere gomito a gomito, il che crea una dimensione spaziale a sé: lo spazio non è tanto un vuoto quanto uno scambio. Quando si vive ammucchiati gli uni sugli altri, ogni gesto dell’uno si ripercuote sugli altri. Le ripercussioni sono istantanee e fisiche. I bambini lo sanno bene.
C’è un’incessante contrattazione spaziale che può essere amorevole o crudele, pacifica o aggressiva, irriflessiva o calcolata, ma che riconosce che lo scambio non è qualcosa di astratto bensì un aggiustamento fisico. I loro elaborati linguaggi di segni, espressi a gesti e con le mani, rivelano questa condivisione materiale. Fuori dai muri collaborare è naturale quanto fare a pugni; le truffe sono frequenti e l’intrigo, che richiede una certa distanza, è raro. La parola “privato” ha un suono radicalmente diverso di qua e di là dal muro.
Ogni scelta è molto simile a un sacrificio. E l’insieme delle scelte è il destino individuale
Da una parte significa proprietà; dall’altra vuol dire riconoscere il temporaneo bisogno di qualcuno di essere lasciato per un po’ di tempo solo con se stesso. All’interno dei muri ogni spazio – ogni singolo metro quadrato – è in affitto; all’esterno ogni spazio – ogni angolo in cui si può trovare riparo – rischia di trasformarsi in rovina.
Anche lo spazio delle scelte è limitato. I poveri scelgono tanto quanto i ricchi, forse di più, perché ogni scelta è più assoluta. Non ci sono tavole dei colori che permettano di scegliere tra centosettanta sfumature diverse. La scelta è ridotta all’alternativa tra questo e quello. Spesso è fatta impulsivamente, perché implica il rifiuto di ciò che non si sceglie. Ogni scelta è molto simile a un sacrificio. E l’insieme delle scelte è il destino individuale.
Nove.
Nessuno sviluppo (dall’altra parte del muro questa parola inizia con la S maiuscola, come un articolo di fede), nessuna sicurezza. Un futuro aperto o garantito non esiste. Non ci si aspetta un futuro. Eppure c’è continuità: ogni generazione è legata all’altra. Da qui il rispetto per l’età, poiché i vecchi sono la dimostrazione di questa continuità – o addirittura la dimostrazione che una volta, molto tempo fa, il futuro esisteva. I figli sono il futuro. Il futuro è una lotta incessante per assicurarsi che abbiano abbastanza da mangiare e qualche occasione per apprendere attraverso lo studio ciò che i loro genitori non hanno mai imparato.
Sazi di parlare, si abbracciavano, volevano essere felici immediatamente, proprio ora, prima che il loro futuro, assiduo lavoro desse i suoi frutti per la felicità personale e quella di tutti. Nessun cuore tollera indugi; soffre, quasi non volesse credere a nulla.
Qui l’unico dono del futuro è il desiderio. Il futuro spinge lo scatto del desiderio verso se stesso. I giovani sono più palesemente giovani che dall’altra parte del muro. Il dono si presenta come un dono della natura in tutta la sua urgenza e suprema promessa.
Le leggi religiose e comunitarie sono sempre valide. Di fatto, in mezzo al caos più apparente che reale, queste leggi diventano vere. Tuttavia il desiderio di procreare è incontestabile e travolgente. È lo stesso desiderio che andrà a caccia di cibo per i figli per poi cercare, presto o tardi (meglio presto), la consolazione di scopare ancora. Il dono del futuro è questo.
Dieci.
Le moltitudini hanno la risposta a domande che non sono ancora state poste, e la capacità di sopravvivere ai muri. Stanotte, prima di addormentarti, traccia con le due dita l’attaccatura dei suoi capelli.
(Traduzione di Maria Nadotti)
Questo articolo è stato pubblicato il 30 dicembre 2004 sul numero 572 di Internazionale.
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