Questo articolo è uscito nel numero 1290 di Internazionale.
Secondo il sito dedicato a lei, Agatha Christie è “la scrittrice di romanzi più venduta nel mondo”. È un’affermazione difficile da dimostrare e il sito non prova neanche a farlo, ma se pensiamo che ha scritto 66 romanzi e 14 raccolte di racconti, tutti ancora in stampa in diversi formati e in decine di lingue, possiamo cominciare a capire come è arrivata a vendere un miliardo di copie in inglese e un altro miliardo e rotti in traduzione, senza contare il testo teatrale che è rimasto più a lungo in scena al mondo. Chi dubita del fatto che abbia venduto più libri di qualsiasi altro scrittore farebbe bene ad ammettere la sconfitta e a porsi un interrogativo più interessante: perché? Non è una domanda originale, ma ho cominciato a farmela in un periodo in cui scrivevo soprattutto di temi economici, e ho scoperto che l’unica cosa non legata al lavoro che sopportavo di leggere era Agatha Christie. È l’unica persona della quale ho letto più di cinquanta libri. Perché?
Il primo a mettere in discussione il suo successo è stato anche uno dei primi critici seri a scrivere di letteratura poliziesca: Edmund Wilson, in A chi importa chi ha ucciso Roger Ackroyd?, un saggio-recensione del 1945. “Il suo stile è di una melensaggine e di una banalità che me lo rendono letteralmente impossibile da leggere”, scrive Wilson. “Non si può davvero leggere un libro così, lo si scorre solo per vedere come va a finire; e non ci si può interessare ai personaggi, perché non assumono mai una vita propria neanche in un mondo piatto a due dimensioni, ma sono sempre costruiti in modo da poter sembrare credibili o sinistri, a seconda di chi, in quel momento, deve attirare i sospetti del lettore. Man mano che diventa più esperta e si concentra di più sull’enigma da risolvere, Christie deve eliminare l’interesse umano, o piuttosto riempire il quadro con quella che a me sembra una sgradevole parodia di quell’interesse. È tutto una sorta di gioco di prestigio, in cui l’illusionista distoglie la nostra attenzione dai movimenti insoliti o irrilevanti che nascondono la manipolazione delle carte, e intanto ci diverte e ci sorprende, come a volte succede in spettacoli di questo tipo”.
Nessuno, neanche i suoi fan più sfegatati, ha mai sostenuto che Christie è una grande scrittrice. La sua prosa è piatta e funzionale, la gamma dei suoi personaggi va dai tipi agli stereotipi e alle caricature, quindi viene da chiedersi: perché ci dovrebbe piacere?
L’assenza, le cose non dette che non sono necessariamente neanche dietro il non detto, sono molto importanti per Christie
In confronto, la prosa di Margery Allingham e Dorothy Sayers, altre due autrici di gialli della stessa generazione, è molto più articolata e complessa, al punto, però, che rischia di risultare antiquata e artificiale. Allingham e Sayers si consideravano più progressiste di Christie. Il personaggio principale di Allingham, Albert Campion, è un gentiluomo nullafacente, ma i suoi personaggi femminili hanno una vera occupazione: lady Amanda Fitton, che poi lo sposerà, progetta aerei, e Val, sua sorella, lavora nel mondo della moda. Val sposa un brav’uomo, Alan Dell, che accetta di assumersi “la piena responsabilità di lei”, ma in cambio chiede “la sua indipendenza, l’entusiasmo che ha per il suo lavoro, il suo tempo e i suoi pensieri”. E lei è felicissima di accettare. Oggi leggere una cosa del genere ci fa sobbalzare. Perfino P.D. James, che non era certo schiava della correttezza politica, la definisce “lampante misoginia”, finendo quasi per rovinare quello che per altri versi è un ottimo esempio di narrativa dell’età dell’oro del giallo. Sayers incontra le stesse difficoltà con il personaggio di Harriet Vane, che non è sposata ma ha un amante. L’autrice mette tanto impegno nel congratularsi con se stessa per la modernità di questa situazione che finisce per sembrare all’antica, tanto all’antica quanto appare quando si complimenta con il suo aristocratico eroe perché ha “due spalle da far svenire”.
I libri di Christie sono saturi di ideologia, come quelli di chiunque altro, ma dato che per la maggior parte del tempo quest’ideologia è implicita, non è sufficiente a suscitare il dissenso di chi legge. Questo succede spesso nella letteratura popolare: l’aspetto che sembra più avanzato all’autore è quello che a noi sembra più arretrato, semplicemente perché nel frattempo il mondo è andato così avanti che perfino farsi certe domande appare superato. Ho passato un po’ di tempo a chiedermi perché secondo me, e a giudicare dalle vendite non solo secondo me, Christie è esente da queste critiche. Lo dico anche se penso che giudicare il passato dal punto di vista del presente è un inutile spreco del nostro tempo libero, dato che stiamo parlando di letture che si fanno per piacere. Ma il fatto è che Allingham e Sayers, entrambe scrittrici migliori di Christie, violano più spesso i canoni del genere poliziesco, in un modo che finisce per distrarci o allontanarci dai loro libri.
Ho incontrato un altro esempio di violazione simile nelle opere di Arthur Upfield, che a partire dagli anni trenta scrisse una serie di romanzi che avevano come protagonista un investigatore aborigeno australiano, Bony, abbreviazione di Napoleone Bonaparte. Il capolavoro di Upfield, Le sabbie del Windee, è un libro intenso e ben costruito, che ci insegna molte cose sul deserto australiano negli anni trenta. Mentre un gruppo di persone sta andando a una festa in una fattoria vicina, le due macchine sulle quali viaggiano imboccano una strada sterrata. L’auto che porta le donne si ferma cinque minuti in attesa che l’altra si allontani per evitare che la polvere sporchi gli abiti delle signore. Solo chi era stato lì e aveva fatto la stessa cosa avrebbe potuto descrivere una scena come questa (l’accuratezza delle ricerche di Upfield era proverbiale). Chiaramente Upfield considerava la decisione di dare al suo Sherlock Holmes origini indigene una prova del suo progressismo, ma le riflessioni sull’appartenenza razziale che s’incontrano nella serie – le costanti discussioni, solo per fare un esempio, sul fatto che il mezzosangue Bony è sempre in balìa del conflitto tra l’istinto atavico dei suoi antenati aborigeni e quello civilizzatore dei suoi antenati bianchi – non sono solo offensive, sono quasi nauseanti. Anche Christie ha dei momenti in cui rivela gli atteggiamenti e i pregiudizi tipici della sua epoca e del suo ambiente – penso, per esempio, al “finanziere ebreo dal viso giallo” nel Segreto di Chimneys, del 1925 – ma non sembra troppo interessata alle questioni razziali e di genere, e non si sofferma a lungo su nessuno dei due argomenti. È uno dei fattori che aiutano i suoi libri a rimanere dentro i confini del genere.
L’assenza, le cose non dette che non sono necessariamente neanche dietro il non detto, sono molto importanti per Christie. La parte autobiografica dei suoi scritti è sorprendentemente priva d’introspezione, tanto da farci meravigliare dell’assenza di questo aspetto psicologico, del vuoto e del silenzio quando ci aspetteremmo un certo tipo di conversazione con se stessa. Viaggiare è il mio peccato, un libro di memorie sulla sua vita con il secondo marito, l’archeologo Max Mallowan, potrebbe essere candidato al premio di testo autobiografico meno rivelatore che sia mai stato scritto, seguito subito dopo dalla sua autobiografia La mia vita, che almeno contiene alcuni dettagli concreti sulla sua infanzia. È tipico del personaggio che la cosa più eclatante che fece in vita sua fu sparire per qualche giorno, una fuga che si concluse con il suo ritrovamento in un albergo di Harrogate, dove aveva preso una stanza sotto falso nome. Forse tutto il suo essere, la sua vita interiore, era una sorta di assenza, un tipo di fuga.
Quello che Christie metteva al posto dell’interesse per il carattere e la psicologia complessa – contrapposta alla psicologia dei tipi – era l’interesse per la forma. Il compositore Michael Friedman, morto prematuramente l’anno scorso, ha lasciato un elenco di temi per una possibile rubrica giornalistica, tra i quali c’è: “Penso seriamente che L’assassinio di Roger Ackroyd sia un grande romanzo modernista”. Possiamo discutere sul significato della parola “modernista”, dato che la tecnica di Christie non aveva nulla di sperimentale, ma se lo sostituiamo con “formalista” è impossibile non essere d’accordo con lui (se volessimo inserire Agatha Christie nel campo modernista con Gertrude Stein e Virginia Woolf, dovremmo dire che il suo interesse per l’apparato di regole tradizionali sulla costruzione dei personaggi e della storia era così superficiale che in realtà serviva a segnalare che non era importante ed era presente solo perché era un requisito formale: è un’affermazione che potremmo anche fare, ma non penso che valga la pena di litigare per una semplice questione terminologica). La carriera di scrittrice di Christie è caratterizzata dalla sistematica esplorazione di espedienti formali e strutture narrative all’interno di un genere che aveva una serie di regole fisse: dev’esserci un omicidio, il caso dev’essere risolto da un investigatore, devono esserci un assassino e una vittima, una serie di personaggi che potrebbero essere l’assassino ma si scopre che non lo sono, e un certo numero di possibili moventi, la maggior parte dei quali si rivela fuorviante; l’ambientazione dev’essere circoscritta, la lista dei sospettati finita, il movente e le prove devono essere sotto gli occhi del lettore, ma preferibilmente non apparire significativi. E il testo non può superare le 150 cartelle. Questa non è una regola, ma è quanto Christie pensava che dovesse essere lungo un giallo.
All’interno di questo schema piuttosto limitato, Christie ha condotto una serie di esperimenti formali così vasta che è abbastanza difficile pensare a un espediente che non abbia mai usato, tranne ambientare un romanzo in una scuola per maghi. I prossimi paragrafi sono pieni di rivelazioni sui finali delle storie. Ci tengo ad avvertirvi, anche se una delle caratteristiche delle opere di Christie – e lo dice uno che ne ha lette alcune più volte – è che spesso ci accorgiamo dopo parecchie pagine di averle già lette, e anche a quel punto molte volte non ci ricordiamo chi è l’assassino. Parecchi suoi fan mi hanno detto che è capitato anche a loro. Questo forse significa che per i lettori di Christie i dettagli della conclusione sono irrilevanti quanto lo erano per lei, e che per entrambi quello che conta sono gli aspetti tecnici e formali. Non ci dispiace rileggere i suoi libri come non ci dispiace rileggere una poesia, non c’infastidisce incontrare di nuovo certi dettagli della trama come non infastidisce incontrare nuovamente una rima.
Nei libri di Agatha Christie c’è immancabilmente un momento in cui rivelano la propria artificialità, spesso tramite riferimenti al genere o a personaggi teatrali, come Roger Ackroyd, “uno di quegli sportivi dal volto paonazzo che appaiono sempre nel primo atto dei vecchi musical”. L’assassinio di Roger Ackroyd è il romanzo che dà la svolta alla sua carriera, non solo uno dei suoi libri migliori ma uno degli indiscussi capolavori del genere. È una storia in cui l’assassino è il narratore, un espediente formale audace che nessuno aveva mai usato in un romanzo di genere o popolare. Un altro libro altrettanto originale è quello in cui il delitto è stato commesso non da una delle persone sospettate ma da tutte. Quel romanzo, Assassinio sull’Orient Express, è un esperimento piuttosto rivoluzionario perché tutti i personaggi agiscono di concerto e il problema è che le prove non possono essere inserite in uno schema abbastanza logico da permettere all’investigatore di risolvere il caso. Si contraddicono deliberatamente, sembrano non avere senso e quello che ne risulta è un quadro puntinista costruito in modo da non sembrare coerente (è anche un grande regalo per gli attori, perché tutti i personaggi sono protagonisti, quindi negli adattamenti cinematografici tutti tendono a recitare sopra le righe o a fingere di farlo. Ne è la prova l’ultimo inutile remake con Kenneth Branagh nel ruolo di Poirot).
Un romanzo in cui l’assassino è il detective. Uno in cui l’intera struttura della storia scaturisce dal titolo: Perché non l’hanno chiesto a Evans? Un romanzo in cui le vittime vengono uccise in ordine alfabetico. Uno in cui tutti i personaggi vengono assassinati, tranne quello che si scopre essere il colpevole (la stessa Christie ci dà un raro indizio di quella che pensava fosse veramente la sua arte quando descrive questo libro, Dieci piccoli indiani, come un “divertissement tecnico”. Con la sua intensa atmosfera di claustrofobia, oscurità e minaccia, continua veramente a spaventare. È anche l’unico libro che ho letto tre volte con tre titoli diversi). Un romanzo in cui il caso è stato risolto molto tempo prima, l’assassino è stato condannato e impiccato, ma il mistero si riapre con la comparsa di un personaggio cruciale la cui testimonianza dimostra che il colpevole dev’essere un altro, un componente della famiglia che fino a quel momento era rimasto insospettato (anche in questo romanzo, Le due verità, l’atmosfera psicologica è decisamente opprimente). Un romanzo basato sul bridge, che viene spiegato in dettaglio con l’aggiunta di diagrammi, e in cui la prova cruciale è data dal modo in cui un personaggio gioca una particolare mano. Un romanzo su un omicidio visto attraverso il finestrino di un treno. Uno in cui l’omicidio avviene su un piccolo aeroplano, completo di disegno del suo interno. Un romanzo in cui l’ora e il luogo del delitto sono anticipati da un annuncio su un quotidiano.
La tendenza al manierismo e al formalismo di Christie spiega uno dei grandi misteri dei suoi libri: perché una delle più popolari scrittrici di gialli di tutti i tempi usa come personaggio principale un uomo che, come molti concordano nel dire, è il detective peggiore. Per “peggiore” intendo meno simpatico, meno plausibile, più irritante e vanesio, e la cui caratterizzazione dipende soprattutto da bizzarri dettagli che non aggiungono niente alla comprensione della sua psicologia: Hercule Poirot (per “bizzarri dettagli” intendo tutte le stupidaggini sulla cioccolata calda, i baffi e le “celluline grigie”). I detective sono spesso – potremmo anche arrivare a dire in genere – irritanti e poco plausibili, ma nessuno lo è più di Poirot, come ammetteva la stessa autrice. “Qualcuno andrebbe mai a consultarlo?”, si chiedeva ad alta voce. “Ho l’impressione di no”. “Forse”, diceva Christie, “era visto con più affetto dagli altri che dalla sua creatrice”. Il suo consiglio agli scrittori che volevano diventare giallisti era: “State molto attenti al personaggio centrale che create, perché resterà con voi per molto tempo!”. Nello stesso saggio, Christie individua un problema che i suoi lettori avevano già notato da tempo, e cioè che miss Marple, che nella parole della sua creatrice è “una vecchia pettegola che vive in un piccolo paese, mette il naso in tutto quello che la riguarda e non la riguarda e trae deduzioni in base ai suoi anni di esperienza della natura umana”, è fondamentalmente più credibile dell’altro grande investigatore da lei creato. Eppure miss Marple è la protagonista di appena 12 romanzi e una ventina di racconti, contro i 33 romanzi, i 51 racconti e l’opera teatrale che hanno al centro Poirot. In termini numerici, il detective meno credibile che ci sia è quello di maggior successo. I lettori comprendono bene la natura profondamente artificiale e convenzionale delle trame di Christie; accettano e arrivano perfino ad amare Poirot in quanto espediente formale, perché ricorda in modo quasi brechtiano la finzione alla quale sono invitati a partecipare. È il detective più popolare proprio perché è il meno plausibile.
Il formalismo di Christie è un prodotto dei suoi tempi: un progetto più o meno contemporaneo al modernismo con il quale divide alcuni interessi, ma rivolto a un pubblico di massa. Anche i suoi motivi ricorrenti, le sue ambientazioni e lo sfondo ideologico riflettono perfettamente quel momento storico. Poirot è assolutamente ridicolo, ma se pensiamo al momento in cui compare per la prima volta in Poirot a Styles Court, scritto durante la prima guerra mondiale ma pubblicato nel 1920, è un personaggio d’attualità, un profugo belga in un’epoca in cui i rifugiati belgi erano spesso sui giornali e non erano sempre popolari (immaginate oggi un romanzo che ha come protagonista un ex poliziotto siriano). Gli elementi di base della narrativa di Christie ci sono già tutti: una casa di campagna, un numero finito di sospettati, l’investigatore straniero che s’intrufola in un luogo in cui l’ordine e la gerarchia sono stati turbati da un crimine. Il mondo dei libri di Christie è qualcosa di simile all’“immaginario” descritto da Cornelius Castoriadis, una rappresentazione mentale in cui la casa ordinata rappresenta l’intera società come universo di significato condiviso, con valori e ruoli sociali codificati, nella quale irrompono un delitto e un detective che cerca di scoprire il colpevole. Evidentemente qualcosa non significa quello che pensavamo significasse, qualcuno non è quello che sembra, qualcosa non è andato come si dice che sia andato.
Credeva nel male come componente della natura umana e motore dei suoi comportamenti
Anche il fatto che i crimini siano sempre omicidi è importante. Se non leggete Arthur Conan Doyle da un po’ di tempo, o se a determinare il vostro ricordo delle sue opere sono gli innumerevoli film che ne sono stati tratti, probabilmente tenderete a pensare che Sherlock Holmes è un tipico investigatore moderno che smaschera soprattutto assassini. Ma non è affatto così: risolve anche casi di furto, truffa, scambi d’identità e altri reati minori. Perfino quello che avviene nel suo romanzo migliore e più conosciuto, Il mastino dei Baskerville, non è proprio un omicidio, dato che la morte principale è provocata dal fatto che un uomo viene spaventato a morte piuttosto che ucciso direttamente. La divertentissima e un tempo famosa antologia di Hugh Greene, I rivali di Sherlock Holmes, rivela un intero mondo di piccoli reati e astuti criminali, più simile a quello di Damon Runyon e dei suoi gangster che a quello dei gialli dell’epoca: quasi nessuno viene ucciso, e il punto di vista della narrazione non è sempre dalla parte della legalità. Si prova simpatia per i vecchi imbroglioni, i raggiri e la violazione delle regole, il tono è mondano e l’ambientazione tende a essere urbana. Ma dopo la guerra i toni del genere cambiano e Christie è l’epitome di questo cambiamento: la grande casa, il cadavere sul tappeto, il bisogno di ristabilire l’ordine scoprendo e denunciando i colpevoli. A volte gli appassionati definiscono questi libri “rassicuranti”: una definizione al tempo stesso giusta e sbagliata, perché c’è sicuramente qualcosa di rassicurante nell’immaginario di questa società chiusa, ma è anche un posto dove la gente viene ammazzata.
Christie era molto brava a immaginare omicidi, sono il suo punto forte. Questo viene a volte attribuito al fatto che aveva studiato farmacia e aveva informazioni pratiche dettagliate su come avvelenare le persone. Nei suoi libri questo è sicuramente importante, perché gli omicidi non sono poco plausibili come in Conan Doyle: non ci sono serpenti velenosi che scivolano lungo una corda, enormi mastini mutanti con le fiamme che gli escono dal sedere e roba del genere. I sistemi per uccidere di Christie sono pragmatici e spesso implicano l’uso di veleni, il cui funzionamento conosceva bene. Questo aiuta, ma non è il motivo principale della loro credibilità. Il grande talento di Christie nell’inventare modi di uccidere ha a che vedere con il fatto che conosceva bene ed era profondamente convinta della cattiveria umana. Sapeva che le persone potevano odiarsi e dare sfogo al proprio odio. I suoi intrecci sono volutamente complicati, i retroscena e i depistaggi sono spesso elaborati, però alla fine i motivi per cui una persona ne uccide un’altra si riducono essenzialmente a due: l’avidità di denaro o l’odio. Credeva nel male, non necessariamente in senso teologico – non esplora mai questo aspetto – ma come componente della natura umana e motore dei suoi comportamenti. Non le interessano molto i motivi etici o metafisici per cui le persone commettono azioni terribili, ma è pronta a guardare in faccia la realtà.
Questo dà alle sue opere quel vantaggio in più che altrimenti non avrebbero. A renderle rassicuranti sono l’ambientazione familiare, l’ordine di un mondo chiuso, la certezza che le indagini daranno frutto e il colpevole verrà scoperto. Però sono anche storie estremamente fredde e distaccate. Dorothy Sayers aveva un senso dell’etica più complicato di Christie. È significativo il fatto che il suo romanzo migliore, Gaudy night, è pervaso da un profondo senso del male, ma non c’è nessun omicidio (contiene anche la frase “due spalle da far svenire”). A Sayers interessava il fatto che i gialli in cui avviene un omicidio implicano anche la cattura dell’assassino, che poi, quasi sempre fuori dai confini della storia, viene impiccato. I romanzi polizieschi si soffermano sulle indagini, ma omettono l’impiccagione. Le conseguenze nel mondo reale di un caso d’omicidio risolto restano fuori dalle convenzioni del genere e non è difficile capire perché. L’esecuzione di un condannato è un argomento complesso e delicato che ha una forte valenza in sé: è meglio starne alla larga, ed è questo che di solito si fa. Ma a Sayers questo tema interessava e lo ha studiato in Un’indagine romantica. Lord Peter in viaggio di nozze, l’ultimo romanzo che ha come protagonista Peter Wimsey, in cui l’ormai sposato lord risolve un caso di omicidio nelle campagne dell’Hertfordshire. La notte prima dell’esecuzione è tormentato dai dubbi e non riesce a dormire, mentre sua moglie Harriet si chiede se andrà a cercare conforto da lei. Dato che non lo fa, il loro amore è destinato a finire (Christie una volta definì Harriet “una ragazza irritante” e disse che preferiva il Wimsey precedente alla storia sentimentale, che Sayers descriveva con “la faccia che emergeva dal cilindro come un verme che emerge da un pezzo di gorgonzola”). Il cupo rimuginare sulle conseguenze etiche nel mondo reale delle indagini su un omicidio non funziona, come fa notare P.D. James nel suo studio A proposito del giallo: “Alcuni lettori possono avere la sensazione che se Wimsey non era in grado di affrontare le inevitabili conseguenze del suo hobby di detective avrebbe dovuto limitarsi a collezionare prime edizioni”. Ha ragione: questo è un errore che Christie non ha mai commesso, e non era interessata a commettere. La sua idea del mondo era che le persone fanno cose terribili e ne pagano le terribili conseguenze, e prendeva solo quanto bastava di questa verità per dare alle sue storie un’illusione di realismo, ma mai tanta da turbare i suoi lettori o sconvolgere le regole del genere. Se avesse continuato a fare il suo primo lavoro, sarebbe stata veramente brava: dosare correttamente una sostanza è fondamentale per un farmacista.
Questo senso delle proporzioni e della giusta quantità lo troviamo anche nell’uso che Christie fa del contesto e dell’ambientazione. Non è considerata una scrittrice realista, e a ragione, ma il novecento è uno dei personaggi principali dei suoi libri: al suo inizio l’autrice aveva dieci anni ed era nelle condizioni ideali per accorgersi dei molti cambiamenti nei modi, nei costumi e negli stili di vita che si sarebbero succeduti nei più di cinquant’anni della sua carriera. Appare evidente anche dalla descrizione degli edifici, dall’“antica residenza” di Styles Court del 1920, con le sue due ali e gli alloggi separati per la servitù, alla “bella casetta di campagna moderna” del 1934, dalla “lussuosa villa milionaria” del 1939 al cottage del 1942, che “conteneva tutte le comodità moderne racchiuse in un guscio orribile”. Nel 1961 siamo ormai in un mondo di appartamenti in affitto, macchine per il caffè, “frigoriferi, pentole a pressione e aspirapolvere sibilanti”, in cui “le ragazze sembravano, come ormai mi sembrano sempre, sporche”. I cambiamenti economici e sociali di questo tipo non sono tra i temi di Christie, non direttamente, ma sono qualcosa che lei non manca mai di registrare. E, come a miss Marple, non le sfugge quasi nulla.
Le opere di Christie possono essere divise in tre livelli: in cima ci sono i capolavori, in mezzo i libri decenti, e in fondo i veri e propri fiaschi. I fiaschi tendono a essere libri che trattano di politica, in genere di un complotto: L’uomo vestito di marrone, Il mondo è in pericolo, Passeggero per Francoforte. Trovo quelli che hanno come protagonisti Tommy e Tuppence, una coppia di avventurieri dedita alla lotta al crimine, difficili da leggere, anche se milioni di persone non sono d’accordo con me. La maggior parte dei romanzi di Christie appartiene alla categoria intermedia. I capolavori sono, per consenso generale, L’assassinio di Roger Ackroyd, Dieci piccoli indiani eAssassinio sull’Orient Express, ai quali molte persone, me compreso, aggiungerebbero Non c’è più scampo, Assassinio sul Nilo, Istantanea di un delitto e forse anche lo strano pastiche Miss Marple al Bertram hotel.
Infine, un altro capolavoro, Un delitto avrà luogo, mostra chiaramente la sua capacità di notare i cambiamenti sociali, e forse ci dà un’ultima indicazione del motivo per cui esercita ancora tanto fascino.
Il romanzo fu pubblicato nel 1950 e si apre con una grande messinscena. Sul quotidiano locale di Chipping Cleghorn appare questa inserzione: “Un omicidio è stato annunciato e avrà luogo venerdì 29 ottobre alle 18.30 a Little Paddock. Siete pregati di prendere atto di questo avvertimento”. Doverosamente i personaggi si riuniscono. Alcuni sono presentati in modo divertente attraverso il loro giornale preferito: il colonnello Easterbrook, a riposo da poco, è un lettore del Times (“Nessuno di loro sa un accidenti sull’India!”), l’aspirante intellettuale Edmund Sweetenham legge il Daily Worker. Il cast è la classica galleria di personaggi di Christie, dal burbero colonnello a Letitia Blacklock, la svanita castellana di Little Paddocks, dalla tipica coppia di donne del dopoguerra miss Murgatroyd e miss Hinchcliffe (“che portava i capelli corti e si vestiva da uomo”) a Mitzi la governante rifugiata, da Rudi il receptionist della spa svizzera a Myrna, la sua amica cameriera, e a Dora, che miss Blacklock conosce da quando andavano a scuola insieme ed era “una ragazza dai capelli biondi e gli occhi azzurri, carina ma piuttosto stupida”. Questo avveniva più di quarant’anni prima, e non è affatto chiaro cos’abbia fatto Dora nel frattempo, come non è affatto chiaro cosa facesse il colonnello in India. Anzi, a dire la verità, non è chiaro se tutti questi personaggi sono veramente quello che sembrano. Perfino nella stessa miss Blacklock c’è qualcosa che non va: “Miss Blacklock, una donna di più di 60 anni, la proprietaria della casa, sedeva a capotavola. Portava un abito di tweed da campagna e al collo, in modo piuttosto incongruo, aveva una collana di grosse perle false”. Perché le perle – false – a colazione? Perché quel tono leggermente sospettoso?
Questo è il mondo dissociato e socialmente sconvolto del Regno Unito del dopoguerra: la vita sta cambiando, ci sono stati spostamenti geografici e sociali, i ruoli sono più complicati di prima. Little Paddocks è un luogo chiuso e comodo per ambientare un omicidio, ma Un delitto avrà luogo è anche la storia di una società che è cambiata, di un paese diverso e meno stabile. Perché l’omicidio abbia un senso, qualcuno non dev’essere quello che crediamo che sia, ma chi pensiamo che siano i personaggi? E come facciamo a sapere chi è e chi non è quello che sembra? Come fanno a saperlo loro stessi? In fondo l’essenza del giallo è proprio questa: scoprire quale di una serie di personaggi non è chi dice di essere. E questo, secondo me, è anche uno dei motivi principali del fascino che Christie ha esercitato e ancora esercita su tanti lettori in tanti momenti e luoghi diversi. Anche se le sue opere sono formaliste senza essere moderniste, il suo interesse per l’identità e la natura dei personaggi e della società è una preoccupazione modernista, espressa attraverso un mezzo deliberatamente popolare e accessibile. Nelle sue opere si mescolano ambienti in cui regnano l’ordine e profonda cattiveria, familiarità e freddezza, e alla loro base c’è la domanda più importante di tutte, la preoccupazione tipica della modernità: chi sei?
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito nel numero 1290 di Internazionale. L’originale era stato pubblicato sulla London Review of Books con il titolo The case of Agatha Christie.
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