La mattina dell’8 gennaio 2009 Lasantha Wickrematunge, fondatore e direttore del settimanale srilanchese indipendente e temerario The Sunday Leader, stava andando al lavoro quando quattro uomini fermarono la sua auto e gli spararono. Non era la prima volta che veniva aggredito: da una decina d’anni denunciava la corruzione dilagante nella leadership dello Sri Lanka e ormai conviveva con minacce e intimidazioni. Stavolta, però, i sicari avevano un mandato preciso, e poche ore dopo Wickrematunge morì in ospedale.
Di lì a qualche giorno avrebbe dovuto testimoniare al processo in cui era imputato il potente segretario alla difesa, accusato di aver pagato un trafficante di Singapore per acquistare jet da combattimento di seconda mano dall’Ucraina e altri mezzi militari usati contro i ribelli delle Tigri tamil. Era la fase finale di una guerra civile che durava da 26 anni e che dopo quattro mesi si sarebbe conclusa con decine di migliaia di civili uccisi e un trionfo per il governo di Mahinda Rajapaksa. Un successo su cui il presidente costruì una dinastia politica il cui potere comincia a vacillare solo ora che il paese è in preda a una crisi senza precedenti.
Il mese scorso Mahinda Rajapaksa si è dimesso da primo ministro sull’onda delle proteste, mentre il fratello Gotabaya, l’attuale presidente, nonostante le dimissioni chieste a gran voce dalla piazza non molla. Era lui, nel 2009, il segretario alla difesa che Wickrematunge aveva denunciato nelle sue inchieste e contro cui avrebbe dovuto testimoniare. Dopo l’omicidio del direttore del Sunday Leader, il giornale pubblicò un editoriale che Wickrematunge aveva scritto poco prima di morire e che diceva: “Quando alla fine mi uccideranno, sarà il governo a farlo”.
Il paese è sull’orlo del collasso, manca tutto, la congiuntura internazionale ha aggravato una crisi generata da scelte politiche sbagliate
Nelle ultime settimane le proteste contro l’esecutivo, ritenuto responsabile per la crisi in corso, si sono placate, mentre si sono allungate le code per il carburante. Il paese è sull’orlo del collasso, manca tutto, la congiuntura internazionale ha aggravato una crisi generata da scelte politiche sbagliate e la sensazione è che gli srilanchesi siano troppo occupati a tirare avanti per pensare alle responsabilità politiche. “La situazione è piuttosto deprimente”, mi dice in una videochiamata dalla sua casa di Colombo Dilrukshi Handunnetti, ex responsabile delle inchieste del Sunday Leader che dopo la morte di Wickrematunge si è dedicata al giornalismo investigativo come a una missione. Sono le cinque e il cielo è già buio. “Tra un po’ tolgono la corrente, la connessione potrebbe saltare”, mi avverte.
“Non ci eravamo mai trovati in una situazione simile prima”, spiega Handunnetti. “Siamo un paese a medio reddito, abituati a un certo livello di comfort, in termini di infrastrutture, alfabetizzazione e indicatori sulla salute più simile a un paese dell’Asia orientale che a uno del sudest asiatico. Improvvisamente il sistema è collassato, e per la maggioranza, che appartiene alla classe media, è molto difficile adattarsi. Ognuno percepisce la crisi in modi diversi, per me, per esempio, il problema principale sono i black out: sono programmati, ma se arrivano mentre sto lavorando quelle due ore senza corrente possono essere davvero problematiche. Per altri, per esempio i contadini, la mancanza di carburante impedisce letteralmente di lavorare”.
Osservando gli ultimi sviluppi, la crisi economica sembra aver messo in secondo piano quella politica. “È così, anche se le due crisi non si possono scindere, sono legate, e la gente ora se ne rende conto, vede il livello di corruzione di cui sono capaci certe famiglie e certi individui. In questo senso i Rajapaksa sono un esempio magistrale: tuttavia non è molto chiaro quanto la loro corruzione abbia contribuito alla crisi attuale e quanto invece sia un problema di cattiva gestione.
Le proteste sono cominciate come proteste contro la corruzione, e anche quando l’anno scorso gli agricoltori hanno cominciato a manifestare chiedendo i fertilizzanti chimici (dopo la loro messa al bando senza preavviso decisa dal presidente, ndr), nessuno nel paese li ha ascoltati. È stato necessario che la crisi arrivasse nei centri urbani, che rimanessimo senz’aria condizionata e con due ore di blackout al giorno perché cominciassimo a protestare anche qui. A quel punto si è cominciato a manifestare nelle città e nelle zone rurali contro la mancanza di responsabilità, la corruzione e per questioni di governance. Ora, però, la gente chiede solo gas e carburante”.
Penso che questa crisi sia già costata alla famiglia Rajapaksa la reputazione, non credo che la gente li voterà più
Il presidente Gotabaya per ora non si è dimesso e sta negoziando con il Fondo monetario internazionale un piano di aiuti per il paese, ma non sembra avere un futuro davanti. Potrebbe essere la fine del potere dei Rajapaksa? “Sì, penso che questa crisi sia già costata alla famiglia la reputazione, non credo che la gente li voterà più. Improvvisamente gli srilanchesi si sono resi conto di quanto fossero corrotti, noi lo dicevamo da quindici anni ma la maggioranza è stata disposta a riconoscerlo solo quando gli effetti della crisi hanno colpito la loro città e la loro vita. Così oggi se Mahinda Rajapaksa esce di casa rischia di essere assalito per strada. Il risultato delle proteste è una lezione per tutti i politici in Sri Lanka, perché se tutto questo è successo alla persona che consideravamo la più potente potrebbe succedere a chiunque”.
In attesa di giustizia
Un altro risultato notevole di questo periodo è la riabilitazione di Lasantha Wickrematunge e delle sue ragioni. Il Sunday Leader non esiste più dal 2010, non ha resistito alla scomparsa del direttore che, racconta Handunnetti, “era molto di più, aveva la capacità di tenerci uniti”. Quando Wickrematunge è morto, Handunnetti era in ospedale con lui. “Ricordo che appena ho detto al direttore che l’uomo davanti a noi in una pozza di sangue era Lasantha, lui ha fatto cadere lo stetoscopio per lo shock”. Su quell’omicidio non si è ancora fatta chiarezza. Cos’ha fatto la giustizia srilanchese in questi tredici anni? “Più che di quel che è stato fatto per stabilire un po’ di giustizia, parlerei di quello che non è stato fatto, o che è stato fatto per insabbiare la verità, che è molto di più”, spiega Handunnetti. “La vicenda è ancora in tribunale, e ha i connotati di un film dell’orrore. La giustizia rimandata è giustizia negata, lo sanno bene tutte le vittime di qualche forma di violenza”.
Chi negli anni ha provato a portare a galla la verità l’ha pagata cara. “Il fatto è che nessuno ha la volontà politica né l’interesse a far luce sul caso, questo è chiaro. Il sistema della giustizia ha fallito”, continua Handunnetti, che recentemente è stata chiamata a testimoniare al Tribunale permanente dei popoli, stabilito all’Aia come organo della società civile in cerca di giustizia e che su proposta della figlia del giornalista ucciso sta indagando il caso. “Considerando che chi era al potere allora lo è ancora non è stata una scelta facile, ma è l’unica cosa che si può fare. La giustizia del mio paese ha fallito e se c’è un organo internazionale che vuole fare chiarezza sulla vicenda dobbiamo dire quello che sappiamo. La figlia di Lasantha, come molti di noi, ha cercato di avere giustizia ma non c’è riuscita, quindi l’ha cercata altrove e ha cominciato a lavorare con un gruppo di avvocati e di organizzazioni per i diritti umani. È molto coraggioso da parte sua perché il caso di Lasantha non riguarda solo lui, ma anche le oltre quaranta persone che sono state uccise o rapite e che non hanno avuto né la voce né l’esposizione internazionale di Lasantha”.
Quando Lasantha è stato ucciso il messaggio era molto chiaro. Scrivere poteva costare la vita e se era successo a lui poteva succedere a chiunque
Cos’ha significato per voi giornalisti la sua morte? “Sapevamo, come lo sapeva lui, che stava volando troppo vicino al Sole, che poteva bruciarsi in qualsiasi momento, ma allo stesso tempo aveva questa grande spinta a portare avanti le inchieste, settimana dopo settimana. Per noi della redazione non è morto solo un leader carismatico, ma qualcuno a cui tenevamo davvero, un amico. Per il paese credo che sia stato un momento di svolta: quando Lasantha è stato ucciso il messaggio era molto chiaro. Molti giornalisti sono scappati, anche vari corrispondenti stranieri. Scrivere poteva costare la vita e se era successo a lui poteva succedere a chiunque. Come comunità di giornalisti abbiamo perso l’anima, anche oggi vedo colleghi che si chiedono se valga la pena rischiare per un articolo. Qualcosa si è rotto, Lasantha è stato ucciso anche per dare una lezione a tutti noi e l’industria dell’informazione è diventata molto docile”.
Fino agli ultimi tempi, spiega Handunnetti, quando la gente ha cominciato a dire le cose apertamente e fare i nomi e a denunciare pubblicamente, ma tutto questo è arrivato al prezzo di grandi sofferenze. “Prima d’ora la narrazione populista dominava ed era molto difficile dire la propria: chi come noi denunciava era bollato come antigovernativo dalle autorità, forti del mandato elettorale ricevuto, e la gente, anche persone ragionevoli e istruite, giustificava gli omicidi di chi parlava troppo. Ma oggi, grazie alla rabbia popolare contro i Rajapaksa, Lasantha è tornato, i suoi articoli sono presi come punti di riferimento, il suo valore è riconosciuto. Per la prima volta si chiede a chi governa di prendersi le proprie responsabilità e si riconosce il fatto che nel paese c’è stata una corruzione su larga scala che è in parte il motivo della crisi che stiamo attraversando. Siamo contenti di vedere tutto questo. Ci siamo ripresi il nostro coraggio”.
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