Come si diventa giapponesi
Alla scuola elementare Tsukado di Setagaya, un piacevole quartiere residenziale nella parte ovest di Tokyo, un comitato di quattro alunni del sesto anno (in Giappone la scuola primaria dura sei anni) controlla le scarpe lasciate negli scaffali all’ingresso dell’edificio dai compagni del primo, ognuno in corrispondenza dell’etichetta con il suo nome. In base al modo più o meno ordinato in cui sono state riposte, il comitato assegna un voto a ciascuno e lo scrive su un foglio appeso alla scarpiera. In generale le scarpe sono perfettamente allineate, ma qualche eccezione c’è, e viene debitamente fotografata.
L’esame fa parte di un rito quotidiano nella vita della Tsukado che all’inizio dell’anno scolastico vede i più grandi assistere i più piccoli e insegnargli come svolgere le molte attività previste dal curriculum oltre alle materie di studio: dare il buongiorno dagli altoparlanti, portare da mangiare ai conigli, sistemare il sapone nei bagni dov’è finito, pulire l’aula e i corridoi (nelle scuole giapponesi non ci sono i bidelli), servire ai compagni il pranzo da consumare in aula, ognuno al proprio banco, insieme all’insegnante, in un lasso di tempo preciso scandito da un timer su uno schermo.
Tutti contribuiscono alla vita collettiva della scuola, tutti svolgono un compito e sono spronati a farlo al meglio. È qui che si formano i futuri componenti della società giapponese, quella dove i treni spaccano il minuto, dove non si gettano cartacce o mozziconi per terra, dove al prossimo ci si rivolge in modo cordiale e rispettoso. Ed è per rispondere alla domanda “ma come fate?” dei molti stranieri che gliel’hanno posta che Ema Ryan Yamazaki, documentarista cresciuta a Osaka da padre giapponese e madre inglese, ha realizzato The making of a Japanese, seguendo per un intero anno alunni e insegnanti della Tsukado.
È alla scuola primaria, dice Yamazaki, che si diventa dei giapponesi, che si impara a vivere in una società dove il rispetto delle regole condivise è assoluto e sottoposto al controllo della collettività. “Guardate chi avete accanto e pensate a come potrebbe fare per migliorare”, dice a un certo punto Endo-sensei, l’insegnante più severo, durante una lezione di educazione fisica nel cortile cominciata con cinque minuti di ritardo perché quasi nessuno si era presentato puntuale. “Se anche una sola persona è in ritardo vuol dire che il gruppo non è coeso”.
Nel bene e nel male è attraverso questi insegnamenti che si forma un giapponese, dice la regista, che dopo la primaria ha frequentato scuole internazionali e poi ha studiato cinema alla New York University, sviluppando così un occhio critico sul paese dov’è cresciuta. “Le molte cose che imparate qui vi serviranno per vivere nella società”, dice un’altra insegnante agli alunni dell’ultimo anno.
La severità e il rigore dell’educazione giapponese sembrano necessari, propedeutici a una società armoniosa, in cui tutti gli elementi svolgono correttamente il loro ruolo, come nell’orchestra che prepara il concerto di benvenuto per i nuovi arrivati del primo anno. Ma i dubbi sulla loro bontà non mancano.
“La nostra società non è in gran forma”, dice agli insegnanti un esperto di educazione, “e la responsabilità è anche nostra, perché è così che educhiamo i ragazzi. Molti paesi ci invidiano la forza e l’armonia collettiviste, ma dobbiamo stare attenti perché sono armi a doppio taglio. Dato che la responsabilità del singolo ricade sul gruppo, se il singolo sbaglia viene biasimato dagli altri. È il momento di ripensare il modello giapponese”. Ma, ha detto Yamazaki al New York Times, “senza quelli che sembrano aspetti ‘estremi’ della società – o, più realisticamente, se ne perdessimo un po’, come mi pare stia succedendo – in futuro potremmo vedere i treni arrivare in ritardo anche in Giappone”.
Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia
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