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I profughi rohingya vanno a combattere in Birmania 

Il campo profughi di Jamtoli, vicino a Cox’s Bazar, Bangladesh. (Manish Swarup, Ap/LaPresse)

Mercoledì il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha chiesto un mandato d’arresto per il generale Min Aung Hlaing, il capo della giunta militare che guida la Birmania dal 2021. Secondo Khan ci sono “ragionevoli motivi” per credere che il generale possa essere penalmente responsabile di “crimini contro l’umanità di deportazione e persecuzione”.

I crimini imputati risalirebbero alle ondate di violenza rivolte nel 2016 e 2017 nello stato del Rakhine (o Arakan), Birmania occidentale, contro i rohingya, minoranza non ufficialmente riconosciuta, per lo più di religione musulmana, che rivendica le sue radici nello stato – a maggioranza buddista, come il resto del paese – ma che il governo birmano chiama “bengali”, ritenendoli immigrati dall’attuale Bangladesh arrivati durante e dopo il periodo coloniale britannico.

Nei decenni molti appartenenti alla minoranza – a cui insieme alla cittadinanza è negata anche la libertà di spostarsi nel paese, oltre all’accesso a servizi di base come l’istruzione – sono fuggiti nel vicino Bangladesh, sistemandosi in insediamenti informali nella provincia di Cox’s Bazar. Quando nel 2016 l’esercito birmano lanciò una persecuzione violenta contro i rohingya, in tanti cominciarono a scappare e nel giro di poche settimane, nell’autunno del 2017, quasi 700mila profughi arrivarono nei campi di Cox’s Bazar, la cui popolazione oggi supera il milione. In quella fase l’esercito incendiò villaggi, violentò e trucidò donne e si stima abbia ucciso in tutto diecimila rohingya.

Nell’ultimo anno, tra i rohingya che vivono in condizioni perennemente emergenziali negli sterminati insediamenti di Cox’s Bazar, sono emersi aspiranti combattenti reclutati da gruppi armati e pronti a tornare in Birmania, dove dal golpe del 2021 si combatte una guerra civile di cui non si vede la fine. La giunta militare in questi tre anni è riuscita nel miracolo di unire in una resistenza armata forze variegate con un obiettivo comune: sconfiggere l’esercito. Ora le milizie rohingya “entrano nella mischia”, scrive la Reuters, in un modo che fa capire la complessità degli equilibri di potere presenti in Birmania da sempre.

La Reuters dà anche un’idea delle dimensioni del reclutamento in corso tra i profughi. Sarebbero fra i tremila e i cinquemila combattenti, molti dei quali si sono uniti a gruppi in qualche modo alleati con chi li ha perseguitati, dunque i militari birmani, per combattere contro l’esercito Arakan, la milizia etnica che si è impadronita di gran parte dello stato del Rakhine e che la giunta ha dichiarato gruppo terroristico.

I giovani rohingya sono attirati dalla giunta con denaro e documenti che attestano la cittadinanza birmana. Come spiega un combattente alla Reuters, il loro nemico principale è l’esercito Arakan, sostenuto dalla comunità rakhine – buddista e maggioritaria nello stato omonimo – e responsabile dell’incendio di uno dei maggiori insediamenti rohingya rimasti in Birmania. Dunque, paradossalmente, combattere “fianco a fianco a chi ha stuprato e ucciso le nostre madri e sorelle”, come dice il combattente, è tollerabile se si tratta di sconfiggere il nemico comune.

La situazione dà un’idea di quanto sia lontana la prospettiva, auspicata da Dhaka innanzitutto, di un ritorno dei rohingya nel Rakhine. Anche mercoledì, incontrando il procuratore Khan, il primo ministro bangladese Mohamed Yunus ha ribadito che la soluzione temporanea da preferire sarebbe una zona sicura controllata dall’Onu nel Rakhine. Per il Bangladesh, e per la regione in generale, la situazione nei campi profughi, dove ogni anno nascono 30mila bambini in condizioni di estrema povertà e violenza, è una bomba a orologeria.

Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

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