Le estrazioni minerarie minacciano la biodiversità degli abissi
Secondo alcuni studi recenti l’immenso abisso compreso tra le Hawaii e il Messico ospita miliardi di specie ancora poco conosciute ma più numerose ed evolute di quanto si pensasse. I ricercatori hanno lanciato l’allarme sulla loro fragilità rispetto ai progetti di estrazione mineraria nei grandi fondali marini.
Le aziende minerarie si interessano in particolare alla sconfinata pianura abissale della zona Clarion-Clipperton (Ccz) a causa della sua ricchezza di “noduli”, concrezioni disseminate sul fondale oceanico che contengono minerali indispensabili per la fabbricazione di batterie e altre tecnologie necessarie alla transizione energetica.
In passato questi abissi situati a più di tremila metri di profondità, dove non arriva la luce del Sole, erano considerati un deserto sottomarino, ma l’interesse crescente per lo sfruttamento minerario ha spinto i ricercatori a esplorarne la biodiversità, soprattutto negli ultimi dieci anni grazie alle spedizioni finanziate da aziende private.
Serve una moratoria urgente
Con il passare del tempo le scoperte dei ricercatori si sono moltiplicate: un cetriolo di mare gigante soprannominato “scoiattolo gommoso”, un gamberetto dalle lunghe zampe pelose e in generale un gran numero di vermi, crostacei e molluschi.
Queste scoperte alimentano i timori per le conseguenze dei progetti industriali. Il 21 luglio l’Autorità internazionale per i fondali marini (Aifm) ha presentato una road map per adottare nel 2025 di nuove regole che regolamentino l’estrazione mineraria sottomarina, deludendo le organizzazioni che chiedono con urgenza una moratoria.
Le pianure abissali coprono più di metà del pianeta, ma restano ancora largamente inesplorate dagli esseri umani. Secondo il biologo Erik Simon-Lledo, che ha condotto una ricerca pubblicata il 24 luglio dalla rivista Nature Ecology and Evolution, queste vaste aree rappresentano “l’ultima frontiera”. Lo studio ha mappato la ripartizione degli animali nella Ccz, rilevando la presenza di un insieme di comunità più complesse del previsto. “A ogni immersione facciamo nuove scoperte”, racconta Simon-Lledo, del Centro oceanografico nazionale del Regno Unito.
La fauna peculiare della Ccz si spiega con l’età di formazione della zona e con le sue eccezionali dimensioni
Per le associazioni ambientaliste questa biodiversità è il tesoro dei grandi fondali, ora minacciato dall’enorme quantità di sedimenti millenari che l’esplorazione mineraria altererà inevitabilmente.
I noduli stessi costituiscono un habitat unico per creature fuori del comune. La fauna peculiare della Ccz si spiega con l’età di formazione della zona e con le sue eccezionali dimensioni. La regione è “incredibilmente vasta”, sottolinea Adrian Glover del museo di storia naturale del Regno Unito, co-autore dello studio di Simon-Lledo e del primo inventario delle specie della regione, pubblicato a giugno su Current Biology.
Secondo l’inventario, oltre il 90 per cento delle circa cinquemila specie recensite è nuovo. La diversità di queste specie è ormai considerata come superiore a quella dell’oceano Indiano, spiega Glover. Bisogna esplorare a lungo prima di trovare due esemplari della stessa specie. Grazie ai più moderni robot sottomarini, i ricercatori hanno constatato che i coralli e le ofiure, animali simili alle stelle marine, sono molto comuni nelle regioni orientali della Ccz, ma praticamente assenti in quelle più profonde, dove si trovano invece specie dal corpo molle come i cetrioli di mare, le spugne e gli anemoni. Secondo Simon-Lledo qualsiasi regolamentazione futura dello sfruttamento minerario dovrebbe tenere conto di questa ripartizione “più complessa di quanto immaginassimo”.
Depositi I noduli si sono probabilmente formati nel corso di milioni di anni. Frammenti solidi – denti di squalo, orecchie di pesci – si sono depositati sul fondale, crescendo con un ritmo infinitamente lento attraverso l’accumulo di minerali presenti in quantità minime, spiega Glover.
La zona è anche “povera di nutrimento”, dunque i pochi organismi morti che cadono verso le profondità si amalgamano nel fango del fondale oceanico. Secondo Glover alcune parti della Ccz aggiungono solo un centimetro di sedimenti ogni mille anni. Contrariamente a quanto accade nel mare del Nord, la cui formazione risale a ventimila anni fa, in occasione dell’ultima era glaciale, la Ccz ha “decine di milioni di anni”.
È poco probabile che l’ambiente alterato dall’esplorazione mineraria si ristabilisca in una scala temporale umana. “Questo ecosistema rimarrebbe stravolto per secoli, forse per millenni”, spiega Michael Norton, esponente del Consiglio consultivo scientifico delle accademie europee (Easac). “È difficile fingere che questo non costituisca un grave danno”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)