I tuareg libici sono dei cittadini che per lo stato non esistono
Non ero mai stato nel sud della Libia prima del 2013. Ci sono andato per fare delle riprese con due registi, uno italiano e un amico britannico-libico che era vissuto per tutta la vita fuori dalla Libia prima di venirci nel 2012. Ho spiegato ai miei compagni di viaggio che l’unico vantaggio che avevo era il fatto che parlassi arabo; a parte questo, la mia conoscenza di questa parte della Libia non era migliore della loro.
Siamo atterrati all’aeroporto di Sabha e appena sono sceso dall’aereo ho visto e avvertito il cambiamento nell’intensità dei colori: era come se fossimo nella fase successiva al montaggio di un film e durante la correzione del colore avessimo deciso di aumentare i toni caldi, sbattendo sulle scene un tocco di giallo rossastro.
Il nostro autista Ayman ci stava aspettando, come previsto. Siamo andati in auto nel centro di Sabha e poi abbiamo proseguito alla volta di Tragin, una cittadina a circa 120 chilometri da Sabha, dove avremmo alloggiato a casa di Hamida. È una donna simpatica, un’attivista e fondatrice di un ente di beneficienza.
Impossibile sentirsi isolati
Quando dico sud della Libia penserete al deserto, e avreste ragione; e quando dico deserto, la vostra prima impressione potrebbe essere il silenzio, l’isolamento e spazi vuoti e solitari. Ma la gente è così simpatica e socievole che è praticamente impossibile sentirsi isolati.
Vi daranno il benvenuto riempiendovi di cibo: a ogni pasto ve ne starete seduti in mezzo ad almeno dieci persone, e tutte vi continueranno a dire di mangiare, perché secondo loro non avete mangiato abbastanza. Hamida in particolare appena mi ha visto mi ha detto che ero magro, troppo magro, e che dovevo ingrassare: quella sarebbe stata la sua missione, e se ha fallito non è stato certo perché non ci ha provato abbastanza.
È amata e rispettata nella sua comunità, una signora gioviale e divertente che si occupa da sola dei suoi figli dopo la morte del marito e sosteneva sempre il più possibile i villaggi vicini.
L’intera comunità, a quanto ho potuto vedere, vive senza alcun sostegno da parte del governo. Fanno tutto da soli: costruiscono scuole e moschee, lottano con i sistemi fognari e forniscono acqua potabile ed elettricità. Qualcuno mi aveva detto: “Un giovane del sud che vuole aiutare la sua famiglia ha due possibilità: lavorare per le compagnie petrolifere o entrare nell’esercito”.
Dovevo fare la doccia con l’acqua fredda, e mi mancava la pessima connessione a internet che avevo a Tripoli, perché nel sud è anche peggio. Dopo aver visitato molti paesini ed essere entrati in tante case, ho notato che in molti non potevano permettersi neppure pareti o soffitti come si deve. Le abitazioni somigliavano più a capanne che a case. Ho riflettuto molto sul perché tutto questo possa succedere in un paese produttore di petrolio. Sarebbe poi così difficile fornire a questa parte della Libia servizi di base come strade, fognature, acqua potabile, case decenti e scuole?
Nella cittadina di Murzkuk, nella zona sud-occidentale della regione, ci siamo fermati nei pressi del forte e della moschea per fare una passeggiata. Tornati alla nostra auto, che avevamo lasciato vicino alla moschea, abbiamo visto un uomo seduto che aspettava l’ora della preghiera: era il muezzin (la persona incaricata di recitare la chiamata alla preghiera). Abbiamo atteso la chiamata e siamo entrati nella moschea. Accanto a lui c’erano solo quattro anziani e l’imam.
Quella vecchia moschea e le poche persone che ancora ci vanno a pregare ogni giorno mi hanno fatto pensare al derviscio dai capelli rossi del film Bab’Aziz. Pensavo a una scena in particolare, in cui il derviscio cerca di togliere la sabbia che invade ogni cosa da una moschea in mezzo al deserto, quasi completamente ricoperta di sabbia. A un certo punto, in un modo o nell’altro, le persone diventano parte di un posto e noi ci troviamo in situazioni in cui somigliamo al derviscio rosso: siamo convinti che se smettiamo di togliere la sabbia con un secchio la moschea sparirà. In realtà non stiamo facendo altro che ritardare l’inevitabile.
Senza documenti
In un altro paesino che non figura nemmeno sulla mappa, Maffen, abbiamo incontrato un tuareg che viveva lì. Ho notato che tutti si affrettavano a dirci che non apparteneva a quello che chiamavano Al Ahaly (traducibile con “il popolo del paese”) e che era un tuareg. Ho notato inoltre che nessuno lo aveva invitato nella grande sala comunale dove siamo stati ricevuti e abbiamo intervistato un po’ di gente.
Ero cresciuto con le bellissime storie del deserto e dei tuareg. Avevo letto molto su di loro, ma finora non avevo mai avuto la possibilità di visitare il deserto in cui vivevano.
Usciti dalla sala comunale abbiamo fatto visita al tuareg nella sua casa. Era un uomo simpatico e molto umile, e non capivo perché il suo essere tuareg fosse un problema.
Gli abbiamo chiesto dove avremmo potuto trovare i tuareg che vivevano nei paraggi. Abbiamo scoperto che qualcuno viveva non lontano da lì, e siamo andati a trovarli. Vivevano in una piccola comunità di poche case alla periferia del paesino. Siamo venuti a sapere che la maggior parte dei tuareg vivono così, sparsi in piccole comunità lontane dai centri abitati e più simili ad accampamenti.
È gente piena di eleganza, con un peculiare insieme di orgoglio e umiltà e sempre molto gentile. Ci hanno trattato come se l’unico scopo nella loro vita fosse quello di far sentire la gente a proprio agio e ben accetta. Ci siamo seduti in un cortile all’aperto tra anziani e giovani, e come se niente fosse eravamo parte della famiglia. Abbiamo parlato e condiviso il loro famoso tè. Io sono un amante del caffè, ma so apprezzare una buona tazza di tè quando capita, e quella particolare tazza di tè è al primo posto nella mia personale lista delle migliori tazze di tè. Ha superato persino il tè verde marocchino che il mio amico Abdul al Alay mi preparava diversi anni fa tutte le volte che andavo a trovarlo.
Un giovane di nome Talib ci ha fatto da interprete. I miei amici parlavano inglese, io traducevo in arabo e lui traduceva in tifinagh (la lingua parlata dai tuareg), perché molti anziani parlano poco l’arabo.
Talib è un uomo molto intelligente e carismatico che fa l’autista. Non era potuto andare all’università. Anzi, come mi ha raccontato, aveva potuto viaggiare solo nel deserto. Quando gli ho chiesto perché, lui mi ha risposto: “Perché non ho documenti che possano dimostrare che sono un cittadino libico!”. Non ha un certificato di nascita né una carta di identità. Non compare in nessun registro.
Per quanto possa sembrare strano, il problema di Talib non è raro: solo pochi tuareg riescono ad avere i documenti. La maggioranza semplicemente non esiste per il nostro governo nonostante il fatto che, come i loro genitori e i loro nonni, siano nati e vissuti qui. Il deserto è la loro patria, e i confini che lo dividono sono venuti dopo di loro: nessuno vuole riconoscerli come cittadini, ma questa è sempre stata la loro terra, prima ancora che chiunque altro ne reclamasse la proprietà.
Romanzi e film descrivono quanto di bello e poetico c’è nel modo di vita delle tribù nomadi, ma pochi parlano delle ingiustizie e delle discriminazioni che questa gente subisce.
Sono dei paria, costretti a continuare a vagare perché l’unica alternativa che hanno è abbandonare la loro identità. Mi hanno raccontato la storia di un padre che a fatica è riuscito ad ottenere che suo figlio venisse curato in un ospedale che aveva di per sé ben poco da offrire. E naturalmente per chi non ha un passaporto e non esiste nei registri ufficiali di nessun paese è impossibile spostarsi alla ricerca di cure migliori.
La sera della nostra visita c’era un matrimonio, e io sono stato felicissimo di accettare l’invito. Il matrimonio si è svolto in una tenda in mezzo al nulla. All’interno era tutto molto colorato, vivace e bello. Ero affascinato e catturato dalla musica e dal loro modo di muoversi e danzare.
Un giovane un po’ brillo mi ha chiesto se li trovavo strani, se stavo ridendo perché i loro uomini e le loro donne ballavano insieme durante il matrimonio, cosa inaccettabile per gli altri libici. E io gli ho spiegato che, al contrario, pensavo che fosse la cosa più bella a cui avessi mai assistito in Libia.
Si definiscono tamasheq, che significa “la gente libera”. Gli uomini sono velati e hanno i volti coperti, le donne no. Avevo letto che ci sono tre storie all’origine di questa tradizione, ma non ho chiesto ai nostri ospiti quale fosse quella giusta. Non m’importava niente. Trovavo invece bellissimo il fatto che una volta tanto ci fosse una comunità in cui a essere coperti fossero i volti degli uomini e non quelli delle donne.
Alcuni parlano con passione del loro desiderio di cambiare il mondo. Beh, secondo me prima di tutto dovremmo cercare di capire il mondo e, mentre lo facciamo, capire meglio noi stessi. Se potessi cambiare qualcosa in questa parte di Libia, comincerei con l’adattare la legge a questa gente libera e non il contrario. La Libia è fatta di diverse culture, di molte tribù ed etnie, perciò chi o cosa dà a una parte il diritto di reprimere e ignorare tutti gli altri?
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)