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Cartoline da Tripoli

La vita quotidiana nella capitale libica raccontata dal regista Khalifa Abo Khraisse.

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Il caos in Libia non deve far rimpiangere Gheddafi

Piazza dei Martiri, Tripoli, marzo 2016. (Ismail Zitouny, Reuters/Contrasto)

“Sì, ha ragione, l’ho sempre pensato anche io”, è stato il commento della mia sorella maggiore. Stava guardando il film L’ordine delle cose per la prima volta con me, dopo il mio ritorno a Tripoli. Il suo commento si riferiva a questo dialogo tra Coiazzi (Giuseppe Battiston) e Corrado (Paolo Pierobon):

Coiazzi: “Sai cosa mi manca davvero dell’Italia? I colori. Pensa a Catania ad esempio. Catania è nera, Siracusa è gialla, Udine è bianca, Bologna è rossa. Modena che colore è?”.
Corrado: “Rossa?”.
Coiazzi: “Gialla. Modena è gialla. Qua invece è tutto irrimediabilmente beige. I muri, le strade, la sabbia… perfino io. Ovunque tu vada, c’è dappertutto lo stesso identico colore. Che paio di coglioni”.

Non so su cosa di preciso fosse d’accordo, se sul fatto che ogni città ha il suo colore o sull’assenza di colori in Libia. Stavo per chiederglielo quando si è fermata per un momento e ha aggiunto: “Ultimamente però è più grigio, il grigio ha preso il posto del beige”.

Curiosità dello scrittore
A tutti noi piacerebbe avere la possibilità di chiedere a uno scrittore qualcosa su un dettaglio specifico. Potrebbe trattarsi dei personaggi, delle loro motivazioni, qualcosa che hanno detto o fatto. Gli scrittori preferiscono non rispondere, ed è meglio così. Dandoti una risposta eliminerebbero tutte le altre possibilità. Le spiegazioni limitano l’arte. Credo in ciò che diceva Anton Čechov: “Il ruolo dell’artista è fare domande, non dare risposte”, ma questo non mi ha impedito di fare qualche domanda a Marco Pettenello.

È un tipo tranquillo, parlava con voce calma e rilassata, ma le sue parole erano dotate di una presenza molto forte, la cui potenza veniva dalle parole stesse. La prima volta che ho potuto parlargli a lungo è stato andando da Padova a Bologna, dove vive. Guidava lui, e abbiamo conversato per tutto il tempo. Aveva un modo tutto suo di mescolare il passato e il presente, disegnando con le sue storie immagini vividissime. Ci siamo raccontati molto delle nostre città, e del film, ma non è stato allora che gli ho fatto la mia domanda.

In quanti pensavano davvero di poter cambiare il mondo quando erano studenti?

L’ho tenuta per me, non cercavo una spiegazione, mi incuriosiva lo scrittore più che i suoi personaggi. Chi mi conosce sa che non riesco a filtrare le mie conversazioni, soprattutto con persone con cui mi piace stare. Di conseguenza, dopo il nostro arrivo a Bologna chiederglielo era solo una questione di tempo.

Abbiamo parcheggiato vicino casa sua e a piedi abbiamo raggiunto Andrea che era arrivato prima di noi al cinema. Passando accanto all’università di Bologna, senza ulteriori indugi, gli ho chiesto: “Sei stato tu a pensare che ogni città ha un suo colore? Oppure è stato Coiazzi?”.

Lui ha sorriso e ha continuato a camminare per qualche secondo, poi ha detto con la sua voce calma: “Era qualcosa in cui Coiazzi credeva, ma fino a un certo punto. Non sei d’accordo con lui? Non credi che ogni città abbia un suo colore?”. Ha voltato la testa verso gli edifici attorno a noi e ha detto: “Guardati attorno, che colore vedi?”.

Non so se fosse per effetto del fenomeno Baader-Meinhof o meno, ma in effetti c’era un tocco di rosso attorno a noi. Di conseguenza ho risposto “Rosso”. Pensavo che la cosa sarebbe finita lì, ma dopo qualche secondo ha aggiunto: “Forse… in un certo senso la situazione sociopolitica di una città in una fase specifica della sua vita suggerisce e implica alcuni colori”. Quello che non sapevo è che Bologna è stata la capitale antifascista durante la seconda guerra mondiale e una roccaforte del Partito comunista italiano, e che vantava inoltre un’attiva cultura di contestazione studentesca.

La cultura della paura
In quanti pensavano davvero di poter cambiare il mondo quando erano studenti? In tanti. E poi cosa è successo? Be’, è successa la vita, proprio come a noi libici è successo Gheddafi. Io, mio fratello e mia sorella siamo cresciuti negli anni ottanta, in un’altra fase triste della storia libica, una storia che però era cominciata molto tempo prima.

Quattro anni dopo il colpo di stato militare del 28 marzo 1972, Gheddafi istituì a Tripoli la Al ittihad al ishtiraki al arabi (Unione socialista araba) ed emanò un decreto che proibiva a chiunque di appartenere a qualsiasi altro partito che non fosse quello creato da lui. Nemmeno questo riuscì a fermare le voci dissidenti. Era riuscito a conquistare il paese con l’uso della forza, ma sapeva che non sarebbe bastato. Per reprimere tutte le voci non bastano i proiettili. Istituire una cultura della paura è il modo migliore per uccidere l’opposizione. La repressione fisica e una rigida censura non erano sufficienti. Stava cercando di dare vita a un senso di impotenza, e questo sarebbe sfociato in un proliferare di attività di opposizione.

Un anno dopo, il 16 aprile 1972, Gheddafi annunciò la sua “rivoluzione culturale”, stabilendo che “i partiti politici impedivano alla rivoluzione di affermarsi” e che lui “non avrebbe tollerato più né i partiti politici né i loro membri”. Di conseguenza, “entrare in un qualsiasi partito politico è un reato e chi viola questo divieto sarà punito severamente”. A titolo di esempio, accompagnò le sue disposizioni con l’arresto di tanti attivisti, trasmettendo poi in televisione le loro dichiarazioni in cui erano costretti a ripudiare le “attività sbagliate del passato”.

La risposta arrivò qualche mese dopo, il 4 agosto dello stesso anno, quando moltissimi studenti organizzarono un congresso nazionale a Tripoli. Due anni dopo scesero in massa nelle strade per denunciare le politiche e le violenze di Gheddafi e le intromissioni del governo nelle loro vite. I soldati fecero irruzione nelle università (quella di Tripoli e quella di Bengasi) e arrestarono molti dei leader del movimento, finiti in carcere senza un processo.

Nel 1976 gli studenti formarono un sindacato indipendente che si opponeva a quello fondato e imposto da Gheddafi, il quale lanciò un’altra spietata campagna di arresti e a cui gli studenti risposero con una manifestazione ancora più imponente nelle strade. I soldati aprirono il fuoco e tanti studenti furono uccisi.

Il 6 aprile di quell’anno Gheddafi denunciò il movimento indipendente degli studenti, dando un ultimatum. Il loro movimento, li avvertì, non sarebbe più stato tollerato. Inoltre, ribadì che “l’unico sindacato riconosciuto è quello guidato da Abdulqadir al Baghdadi”, gheddafiano.

Nel 1986 i comitati rivoluzionari di Gheddafi bruciarono strumenti musicali ‘occidentali’

Quello stesso giorno il maggiore Abdessalam Jalloud – uno degli ufficiali che aveva guidato il colpo di stato militare con Gheddafi – andò all’università di Tripoli, dove incontrò il sindacato di Al Baghdadi. Insieme stilarono una lista di studenti a cui fu vietato l’ingresso nell’università. Il movimento indipendente degli studenti rifiutò di obbedire agli ordini. Il giorno dopo le autorità portarono all’università autobus pieni di studenti delle scuole superiori perché contribuissero alla lotta contro il movimento degli studenti. I due schieramenti si scontrarono e alla fine intervenne l’esercito. Centinaia di persone furono arrestate. La maggior parte di loro trascorse due settimane in carcere, altri ci restarono per un anno.

In quei giorni all’università di Tripoli veniva istituito il primo Comitato rivoluzionario (Al lajna al thawriah al markazia). In seguito i comitati si sarebbero diffusi in tutta la Libia, diventando una sorta di Gestapo libica. Dopo un anno, nel primo anniversario di quella che definiva la “rivoluzione studentesca”, Gheddafi ordinò di arrestare di nuovo molti degli studenti coinvolti nel movimento. Furono processati in un tribunale militare, e in molti furono condannati a pene che andavano da un anno all’ergastolo. Due di loro, Omar Dabboub e Mohammed Ben Saud, furono condannati a morte e impiccati in pubblico da un’orda adirata di membri dei comitati rivoluzionari di Bengasi.

Con l’eliminazione di tutte le forme di resistenza pacifica molti furono costretti ad adottare un’altra forma di resistenza. Nel 1981 si formò il Fronte nazionale per la salvezza della Libia, a cui aderirono molti studenti andati a studiare all’estero. Il movimento pianificò un’incursione armata contro il complesso militare di Bab Al Aziziyah di Tripoli. L’incursione fu lanciata l’8 maggio 1984. In molti furono uccisi durante gli scontri. In televisione furono trasmessi gli interrogatori e le esecuzioni degli uomini del Fronte catturati vivi.

Nel 1986 i comitati rivoluzionari di Gheddafi raccolsero e bruciarono strumenti musicali “occidentali” nella piazza dei Martiri. Poi rifiutarono ufficialmente qualsiasi aspetto della cultura occidentale, la musica, il cinema, l’insegnamento dell’inglese, la lettura di libri stranieri e diversi sport. A proposito di quel periodo, lo scrittore libico Ibrahim Ahmidan ha scritto: “Negli anni ottanta avevamo le tasche piene di soldi ma mancava la merce. Passavamo le giornate a vagare da un mercato all’altro in cerca di cose da comprare. Se mi chiedeste cosa si serviva nei bar ai clienti visto che non c’era caffè, vi risponderei che erano spariti anche i bar. Sì, in quel periodo i bar si estinsero. C’era una canzone famosa dell’artista Mohammed Al Hariri in cui si parlava di questa vicenda in questi termini: ‘Il vostro posto non è al bar, presto alzatevi, il vostro posto è sul campo di battaglia’”.

Dopo il 2011 le persone hanno pensato di poter davvero cambiare questo paese

Negli anni novanta la Libia ha continuato a subire sanzioni economiche e politiche, a causa della reazione della comunità internazionale all’attentato al volo Pan Am 103. Anni di isolamento fecero sì che il pugno di ferro di Gheddafi perdesse vigore.

Le restrizioni contro la “cultura occidentale” in parte si attenuarono, sebbene le istituzioni governative, compresi l’unico canale televisivo e le poche stazioni radiofoniche del paese che comunque erano di proprietà dello stato, conducessero una politica di rigida opposizione a qualsiasi forma di cultura occidentale.

Alla fine degli anni novanta in tutta Tripoli solo due negozietti vendevano strumenti musicali. Uno apparteneva all’artista Salam Qadri (possa la sua anima riposare in pace), in Emhamed Maqrif street (oggi Istiklal street). In quel negozio io e mio fratello abbiamo comprato la nostra prima chitarra. Era una chitarra italiana di seconda mano, una Eko Ranchero a sei corde.

Ogni volta che ne avevano l’opportunità – di solito alle feste di matrimonio di amici amanti del rock – i gruppi rock libici suonavano canzoni rock e metal. In quegli anni siamo stati ad alcuni concerti illegali. Sapevamo di questi raduni, che di solito si tenevano in piccoli locali a Tripoli, grazie al passaparola tra amici. Quei momenti ce li godevamo tantissimo, forse erano la nostra forma di resistenza. Ho ancora un ottimo rapporto con alcuni musicisti dell’epoca, soprattutto con Hani Elkot. Hani un tempo eseguiva delle cover, ma dopo il 2011 ha cominciato a scrivere la sua musica.

Dopo il 2011 le persone hanno pensato di poter davvero cambiare questo paese, di potervi aggiungere qualche colore. Nel giro di poco tempo però i loro obiettivi sono cambiati, e hanno pensato solo a sopravvivere. Anche i miei obiettivi sono cambiati, ma sono rimasto fermo su un punto: se io non posso cambiarlo, non lascerò che sia lui a cambiare me. So che può sembrare ingenuo, in effetti una parte di me lo è ancora.

Non so come ho fatto a sopravvivere con questo aspetto di me, o forse è stato proprio questo a farmi sopravvivere. Se dovessi ricevere un euro per tutte le volte che qualcuno mi ha chiesto “era meglio con Gheddafi?” forse non diventerei ricco, ma qualche centinaio di euro in più di sicuro non mi farebbero male. Sì, vorrei che le cose non fossero andate come sono andate, ma nonostante ciò, nonostante l’attuale situazione in Libia, non potrò mai dire di rimpiangere Gheddafi.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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