Il 20 e 21 settembre 2020 i cittadini italiani sono chiamati alle urne per esprimersi sul referendum costituzionale che propone il taglio del numero dei parlamentari. Nello stesso giorno si terranno le elezioni amministrative in 1.178 comuni (di cui 610 in regioni a statuto ordinario e 568 in regioni a statuto speciale), le elezioni per il rinnovo di sette consigli regionali e dei rispettivi presidenti, e le elezioni suppletive al senato in due collegi della Sardegna e del Veneto.
Gli elettori che andranno alle urne per votare al referendum si troveranno davanti una scheda con il quesito: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 240 del 12 ottobre 2019?’”. Si dovrà barrare la casella del sì o quella del no.
Se vincesse il sì la riforma costituzionale che modifica i tre articoli sarà confermata, se vincesse il no sarà respinta. Questo referendum è di tipo confermativo, serve dunque a confermare (o respingere) una legge costituzionale votata dal parlamento. Questa opzione è regolata dall’articolo 138 della costituzione, secondo cui le leggi di rango costituzionale necessitano di una procedura “aggravata” per poter essere promulgate.
L’articolo prevede che le leggi di revisione della costituzione e le altre leggi costituzionali siano approvate da ciascuna camera con due successive votazioni a intervallo non minore di tre mesi, e debbano essere approvate da una maggioranza dei due terzi o dalla maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera nella seconda votazione. Le leggi sono sottoposte a referendum popolare confermativo solo quando, approvate a maggioranza assoluta, entro tre mesi dalla loro pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ne facciano domanda un quinto dei membri di una camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. Il referendum non può essere richiesto se nella seconda votazione di ciascuna delle camere la legge è stata votata dalla maggioranza di due terzi dei suoi componenti. La legge sottoposta a referendum non viene promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Il referendum confermativo non ha bisogno di quorum, vince quindi l’opzione che ottiene più voti a prescindere da quale sia il numero di votanti.
Nel caso della riforma del numero dei parlamentari, è stato possibile chiedere l’indizione di un referendum confermativo perché la legge in ultima lettura al senato non aveva ottenuto la maggioranza dei due terzi dei voti. A chiederlo sono stati 71 senatori – appartenenti a quasi tutti i gruppi parlamentari – che hanno depositato lo scorso 10 gennaio la richiesta in corte di cassazione che ha dato il via libera al referendum il 23 gennaio.
Cosa prevede la riforma costituzionale
La legge sulla riduzione del numero dei parlamentari prevede una riduzione dei seggi in entrambe le camere, attraverso la modifica degli articoli 56, 57 e 59 della costituzione. Dagli attuali 630 deputati e 315 senatori si passerebbe a 400 parlamentari alla camera e 200 al senato (con non più di cinque senatori a vita), con un taglio complessivo di 345 parlamentari, pari al 36,5 per cento dei seggi. Una riduzione riguarda anche i parlamentari eletti nella circoscrizione estero che passerebbero da 18 a 12.
L’approvazione della legge costituzionale n. 240 era arrivata alla camera con 553 voti a favore, 14 no e due astenuti, quindi con maggioranza di due terzi. Il senato si era invece pronunciato a maggioranza assoluta dei suoi componenti in seconda lettura l’11 luglio 2019 (180 voti favorevoli e 50 contrari). Le due letture precedenti si erano tenute il 7 febbraio 2019 al senato (185 voti favorevoli, 54 contrari e 4 astenuti) e il 9 maggio alla camera (310 voti favorevoli, 107 voti contrari e 5 astenuti).
La legge costituzionale di cui si chiede la riforma si compone di quattro articoli:
- l’articolo 1 modifica l’articolo 56 della costituzione e prevede la riduzione del numero dei deputati da 630 a 400, di cui otto eletti nella circoscrizione estero al posto degli attuali 12;
- l’articolo 2 modifica l’articolo 57 della costituzione e taglia il numero dei senatori da 315 a 200, di cui quattro eletti all’estero, invece degli attuali sei. Lo stesso articolo prevede che il numero minimo di senatori eletti in ciascuna regione si abbassi da sette a tre e prevede che le province autonome di Trento e Bolzano siano equiparate alle regioni, ciascuna avente diritto a tre seggi. La ripartizione dei seggi tra le regioni o le province autonome avviene in proporzione alla loro popolazione, in base ai numeri dell’ultimo censimento generale;
- l’articolo 3 fissa a cinque il numero complessivo dei senatori a vita in carica nominati dal presidente della repubblica;
- l’articolo 4 disciplina l’entrata in vigore delle nuove disposizioni di legge stabilendo che esse si applicano a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle camere successiva alla data di entrata in vigore della legge costituzionale e comunque non prima che siano decorsi 60 giorni dall’entrata in vigore della legge.
Le ragioni del no
Una delle ragioni principali dei sostenitori del no è che con il taglio dei seggi aumenterebbe il numero di abitanti per ogni parlamentare, facendo crescere di conseguenza la distanza tra la popolazione e i suoi rappresentanti. Se attualmente in Italia ciascun deputato rappresenta 96.006 cittadini, dopo la riforma ne dovrebbe rappresentare 151.210. E per ciascun senatore si passerebbe da un bacino di 188.424 cittadini a 302.420. Un numero minore di deputati e senatori in rapporto a una popolazione invariata riduce, secondo chi chiede di votare no, la rappresentatività del parlamento dal momento che gli elettori sono rappresentati da un numero minore dei parlamentari.
I sostenitori del no ravvisano un pericolo per la democrazia anche riguardo alla rappresentanza territoriale, dal momento che sarebbe ridotto il numero di senatori eleggibili nei territori regionali. Alcune regioni come l’Umbria e la Basilicata per esempio subirebbero un taglio del 57 per cento dei seggi.
In Europa l’Italia è il paese con il numero più alto – in termini assoluti – di parlamentari direttamente eletti dal popolo. Come ha calcolato Pagella politica su Agi, l’Italia ha oggi, con 945 parlamentari eletti e 60,4 milioni di abitanti, un rapporto di un eletto ogni 64mila persone. Dopo l’eventuale entrata in vigore della riforma costituzionale, con 600 parlamentari eletti, l’Italia avrebbe un rapporto di un eletto ogni 101mila persone. Per renderci conto di cosa significa, si può fare un paragone con gli altri paesi della Ue: la Germania ha un rapporto di un parlamentare ogni 117mila cittadini, la Francia di uno ogni 116mila, il Regno Unito di uno ogni 102mila. Tutti gli altri paesi hanno un rapporto molto più basso: in Spagna un parlamentare rappresenta 84mila abitanti, in Belgio 76mila e Malta addirittura settemila.
Un confronto tra le sole camere basse, reso possibile per l’omogeneità di composizione poiché tutte prevedono l’incarico elettivo, mostra che con questa riforma l’Italia diventerebbe il paese dell’Ue con il minor numero di deputati in rapporto alla popolazione, ovvero 0,7 ogni centomila abitanti. Il paese che ha il rapporto più alto è Malta, con 14,4 deputati ogni centomila abitanti.
Tra le altre ragioni dei sostenitori del no vi è poi quella secondo la quale meno parlamentari significa più potere dei leader dei partiti nel controllare i gruppi parlamentari, che saranno più piccoli e quindi minore potrebbe essere la possibilità di un confronto (o di voci dissonanti) al loro interno. Chi vota no al referendum sostiene inoltre che un taglio lineare del solo numero dei parlamentari non accompagnato da altre riforme costituzionali e dalla modifica dei regolamenti delle camere non faccia altro che paralizzare l’attività del parlamento e che la produttività di ciascun parlamentare sia minata dal fatto che il lavoro dell’attività di commissione sarà distribuito su meno persone.
Inoltre, il fronte del no critica la riforma come demagogica e populista, e l’accusa di far leva sul sentimento di antipolitica diffuso tra i cittadini.
Le ragioni del sì
I sostenitori della riforma costituzionale, Movimento 5 stelle in primis, fanno leva su una serie di ragioni che vanno dalla riduzione dei costi della politica, alla convinzione che un parlamento più “snello” si traduca in una maggiore efficienza del suo funzionamento.
I comitati per il sì fanno leva inoltre sul fatto che ridurre il numero degli eletti rende più trasparenti e più comprensibili dibattiti e decisioni, senza intaccarne la qualità, grazie a un numero minore (e più controllabile) di rappresentanti che renderà più agevole il giudizio dei cittadini nei loro confronti.
I sostenitori del sì hanno usato spesso, più in passato che di recente, la motivazione del taglio dei costi e il risparmio per lo stato che verrebbero dalla riduzione del numero dei parlamentari. Alcuni esponenti del Movimento 5 stelle hanno sottolineato che il taglio garantirebbe risparmi per 500 milioni a legislatura. Come spiega però l’osservatorio dei Conti pubblici italiani diretto da Carlo Cottarelli, “il risparmio netto generato dall’approvazione di questa riforma sarà molto più basso (285 milioni a legislatura o 57 milioni annui) e pari soltanto allo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana”.
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