La geopolitica delle epidemie
Il 28 gennaio 2020, nella Grande sala del popolo in piazza Tiananmen a Pechino, simbolo del potere del Partito comunista cinese, il presidente Xi Jinping ha incontrato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per parlare dell’epidemia di coronavirus. “L’epidemia è un diavolo”, ha dichiarato Xi. “E non possiamo permettere che il diavolo si nasconda”.
Le parole del presidente cinese hanno sorpreso gli osservatori occidentali. Con circa sessanta milioni di persone già in quarantena, è sembrato che il leader cinese volesse alimentare la paura paragonando il virus a uno spirito maligno. In realtà, come mi ha spiegato l’antropologo medico e specialista di questioni cinesi Christos Lynteris, dell’università St Andrews, in Scozia, le parole di Xi non erano rivolte al capo dell’Oms, ma ai cinesi, ed erano state scelte per rassicurare.
In Cina è tradizione paragonare i disastri naturali come le epidemie a demoni, divinità o spiriti, come è normale considerare questi eventi portatori di cambiamenti politici. Un esempio è l’epidemia di peste che colpì la Manciuria tra il 1910 e il 1911, provocando secondo le stime circa sessantamila vittime. Ancora oggi il ricordo dell’epidemia è molto vivo nella memoria collettiva cinese, anche grazie ai documentari che raccontano le gesta di eroi come il medico militare Wu Lien-teh, che cercò di contrastare la diffusione della malattia.
Spiriti e demoni
All’epoca il potere della dinastia Qing era indebolito. Due paesi rivali come la Russia e il Giappone avevano già costruito linee ferroviarie che penetravano nel territorio della Manciuria, nel nordest della Cina, ricco di minerali. A Pechino i mandarini temevano che l’epidemia potesse fornire alle potenze straniere l’occasione per invadere apertamente la Cina con il pretesto di voler controllare la malattia. Per le autorità cinesi era quindi indispensabile riuscire ad arginare il contagio, e ci riuscirono soprattutto grazie a Wu, che in Europa aveva studiato la teoria dei germi e impose misure estreme e mai viste prima di allora, come la quarantena e la cremazione dei cadaveri.
L’epidemia non superò i confini della Cina e Wu fu celebrato come un eroe, ma il suo trionfo non salvò la dinastia Qing. Prima della fine del 1911 una rivoluzione rovesciò la dinastia rafforzando la convinzione che le epidemie fossero portatrici di cambiamenti. La poesia Addio al dio della peste, scritta nel 1958 da Mao Zedong, è ancora molto popolare in Cina e viene insegnata nelle scuole. Con quei versi il grande timoniere celebrava (prematuramente, a quanto pare) l’eliminazione della schistosomiasi, o “febbre delle lumache”, da vaste aree della Cina meridionale.
Quando Xi ha annunciato al popolo cinese che il diavolo non potrà nascondersi, le sue parole riguardavano la salute pubblica, ma erano anche una dichiarazione politica. Evocando Wu e Mao, il presidente ha ricordato ai cinesi la potenza del regime e la sua capacità di affrontare e risolvere autonomamente la crisi. Gli sforzi dello stato per contenere il nuovo coronavirus – con l’isolamento di enormi metropoli e la costruzione di ospedali in pochi giorni – dimostrano che quelle di Xi non erano parole vuote, come conferma il fatto che Pechino abbia ignorato le offerte d’aiuto dell’Oms e dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) degli Stati Uniti. Tuttavia le epidemie del passato ci hanno insegnato che i patogeni (gli organismi che causano le malattie) non rispettano i confini. Provare a impedire “l’espatrio” di un virus, di solito, significa solo peggiorare la situazione. In un mondo che tende sempre di più all’isolazionismo e alla rivalità tra grandi potenze, sembra che dovremo imparare questa lezione da capo.
L’Organizzazione mondiale della sanità, nata nel 1946, è l’incarnazione di una lezione storica. L’Oms sostituì una varietà di piccole organizzazioni internazionali tra cui il ramo sanitario della Società delle nazioni, l’istituzione diplomatica internazionale crollata all’inizio della seconda guerra mondiale. Il ramo sanitario, creato all’inizio degli anni venti del novecento, era una risposta all’epidemia d’influenza che si era manifestata tra il 1918 e il 1921, in cui morirono cinquanta milioni di persone, e alle epidemie di tubercolosi e tifo che avevano martoriato l’Europa nel dopoguerra.
La pandemia del 1918 paralizzò l’economia mondiale e provocò un’ondata di depressione generalizzata
L’Oms definisce pandemia la “diffusione nel mondo di una nuova malattia”, mentre un’epidemia è confinata “a una comunità o una regione”. Finora l’organizzazione non ha usato la definizione di pandemia per l’epidemia di coronavirus in corso. La pandemia del 1918 esplose in primavera nell’emisfero settentrionale – anche se è stata chiamata “influenza spagnola”, il suo paese d’origine è sconosciuto – per poi fare il giro del mondo nei successivi tre anni. Furono risparmiati solo l’Antartide e l’isola di Sant’Elena, una remota isola vulcanica nell’oceano Atlantico. A essere colpiti maggiormente furono gli strati sociali e i paesi più poveri. Secondo le stime, in India morirono diciotto milioni di persone a causa del virus, equivalenti al totale delle vittime della prima guerra mondiale.
L’influenza spagnola è stata la più tragica pandemia della storia in termini di numeri assoluti. I casi più gravi non avevano l’aspetto della normale influenza. Il colorito bluastro del paziente, infatti, ricordava il colera, mentre la perdita di sangue da naso e bocca era simile a quella della peste polmonare. Nel 1918 la consapevolezza che l’influenza è causata da un virus era un concetto relativamente nuovo e la maggior parte dei medici pensò che si trattasse di un batterio. In assenza di test diagnostici, vaccini, farmaci antivirali e antibiotici, che avrebbero potuto curare la polmonite batterica che complicava l’influenza nei casi mortali, la medicina era impotente. Tra l’altro i medici avevano una conoscenza parziale degli effetti della spagnola in altre aree del mondo.
Cooperare
La pandemia del 1918 ebbe conseguenze durature. Alcuni sostengono che abbia accelerato la fine della prima guerra mondiale e reso più difficile il processo di pace, contagiando molti dei delegati della conferenza di Parigi. Il virus paralizzò l’economia mondiale e provocò un’ondata di depressione generalizzata. Dal momento che colpiva soprattutto i giovani adulti – l’età media delle vittime era 28 anni – la spagnola intaccò la capacità dell’Europa di riprendersi dopo la guerra, creando legioni di orfani e anziani dipendenti dall’assistenza statale e distruggendo il tessuto sociale ovunque. Sconvolto da quel disastro, il mondo capì che in futuro gli stati avrebbero dovuto cooperare per affrontare simili minacce.
L’Oms coordina la condivisione delle informazioni sui nuovi patogeni, oltre alla reazione dei diversi stati attraverso lo strumento legalmente vincolante del Regolamento sanitario internazionale. Il problema è che oggi l’Oms è alle prese con una carenza di fondi. Questo preoccupa le istituzioni sanitarie dei vari paesi, anche se sempre più spesso i loro stessi governi negano all’Oms i fondi di cui ha bisogno. La mancanza di risorse economiche non è l’unico problema. L’organizzazione è criticata per la sua struttura, a cominciare dalle costose sedi regionali, per l’eccesso di burocrazia e per l’inerzia nelle emergenze. Da tempo è in corso un dibattito sulla possibilità di modernizzare o smantellare l’organizzazione. A marzo del 2019 il direttore generale dell’Oms ha annunciato riforme radicali, ma secondo alcuni osservatori non è chiaro se i cambiamenti potranno risolvere i difetti strutturali.
Nella comunità sanitaria anche le voci più critiche nei confronti dell’Oms pensano che sia necessaria un’istituzione forte, indipendente e globale. Uno dei motivi di questa necessità è il ritorno delle malattie infettive, soprattutto le zoonosi, infezioni umane di origine animale. Questo fenomeno si è intensificato negli ultimi decenni: la popolazione mondiale in continuo aumento si è spinta verso nuove nicchie ecologiche incontrando nuovi patogeni. Il peso di queste malattie ricade soprattutto sui paesi più poveri, ma tutto il mondo è vulnerabile. La resistenza antimicrobica – la capacità di batteri e virus di resistere ai farmaci, provocata dall’eccessivo ricorso alle medicine su esseri umani e animali – sta gradualmente annullando il potere terapeutico di antibiotici e antivirali. E la dilagante ostilità verso i vaccini non aiuta. Tutte le organizzazioni internazionali si indeboliscono e tendono a funzionare male quando sono trascurate dai paesi che ne fanno parte, soprattutto quelli ricchi e potenti come gli Stati Uniti. Come sottolinea l’economista sanitaria Olga Jonas, dell’istituto per la salute globale di Harvard, “il mondo riceve quello per cui paga”.
Il 30 gennaio, dopo la conferma del primo caso di transizione del nuovo coronavirus da persona a persona fuori dai confini della Cina, l’Oms ha dichiarato l’emergenza sanitaria globale. La decisione ha permesso all’organizzazione di emanare una serie di nuove raccomandazioni per combattere l’epidemia, ma questo non le dà i poteri necessari per farle applicare. L’Oms ha anche avvertito che durante un’epidemia limitare il movimento di persone e beni è controproducente. Oggi si ritiene che le misure di controllo del contagio alle frontiere siano più efficaci, sempre che siano eseguite correttamente.
Molti governi hanno ignorato il parere degli esperti. La maggior parte dei paesi limitrofi ha chiuso le frontiere con la Cina e diversi stati hanno limitato la libertà di movimento. Dopo l’annuncio dell’Oms, gli Stati Uniti hanno imposto un periodo di quarantena a casa di 14 giorni a tutti gli statunitensi di ritorno dalla Cina, e hanno impedito a tutti gli stranieri provenienti dal paese asiatico di entrare nel territorio nazionale. Anche l’Australia ha adottato una misura simile. Sono in molti a pensare che la quarantena in casa sia una misura eccessiva per persone che probabilmente non si sono avvicinate all’epicentro dell’epidemia, mentre la distinzione tra cittadini statunitensi e stranieri non ha senso.
Le epidemie e le pandemie sono sempre state fenomeni politici, con inevitabili conseguenze sulla gestione dei confini
Queste misure discriminatorie non fanno che aumentare la vulnerabilità degli Stati Uniti peggiorando i rapporti con la Cina, contro cui Washington sta conducendo una battaglia commerciale. Gli Stati Uniti si stanno rendendo vulnerabili alle epidemie anche in un altro modo. Il congresso sta approvando una serie di norme per non concedere il permesso di soggiorno agli immigrati che pesano eccessivamente sulle finanze pubbliche, anche per l’assistenza sanitaria. Questo meccanismo spingerà molti immigrati a non rivolgersi ai medici, compromettendo la possibilità di accertare casi di malattie infettive.
Le epidemie e le pandemie sono sempre state fenomeni politici, con inevitabili conseguenze sulla gestione dei confini. Nel diciottesimo secolo la monarchia asburgica costruì un cordone sanitario dal Danubio ai Balcani sotto forma di una catena di fortezze che avrebbero dovuto fermare le infezioni provenienti dal vicino impero ottomano. Il cordone, che rappresentava anche un confine militare, economico e religioso – tra cristianità e islam – era sorvegliato da contadini armati che indirizzavano le persone sospettate di portare malattie in apposite strutture per la quarantena costruite lungo la barriera.
Oggi la Cina non teme un’invasione, ma i suoi confini sono ancora problematici. Pechino considera Taiwan una provincia ribelle e ha ribadito l’intenzione di riportare l’isola sotto il proprio controllo, ma l’11 gennaio 2020 i taiwanesi hanno eletto come presidente Tsai Ing-wen, fortemente ostile alla riunificazione. Le restrizioni sugli spostamenti introdotte dal nuovo governo per scongiurare il contagio rafforzeranno il confine che la Cina vorrebbe abolire e che Taiwan vorrebbe rendere permanente. A Hong Kong, invece, nell’ultimo anno è nato un movimento di protesta contro la presunta intenzione della Cina di privare la regione amministrativa speciale della sua autonomia. Oggi la governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, cerca un equilibrio tra la repressione delle proteste e l’opposizione nei confronti di Pechino. Dopo che all’inizio di febbraio il personale ospedaliero di Hong Kong ha deciso di scioperare per chiedere la chiusura del confine con la Cina continentale, Lam ha cercato di mediare offrendo una chiusura parziale. Anche in questo caso un confine che la Cina vorrebbe cancellare è stato rafforzato.
Dal punto di vista politico il controllo delle malattie tende a penalizzare tutti gli attori coinvolti. Sfortunatamente per i leader politici, i loro piani non sono ostacolati solo dagli esseri umani. Anche i patogeni, infatti, hanno l’abitudine di spiazzare i governi. Nel 1918, dopo un’iniziale e blanda diffusione del contagio nei primi mesi dell’anno, sfumata con l’inizio dell’estate, l’influenza responsabile della successiva pandemia tornò in forma più forte alla fine di agosto. La maggior parte delle morti ci fu nelle tredici settimane tra metà settembre e metà dicembre. All’epoca l’Australia impose una quarantena molto efficace, scongiurando la seconda e più mortale ondata di contagio. Ma le autorità australiane cancellarono il provvedimento troppo presto, e nei primi mesi del 1919 lasciarono entrare una terza ondata, che uccise dodicimila persone.
Anche se il ritmo del contagio da coronavirus in Cina sembra rallentare, sarebbe comunque pericoloso presumere che il peggio sia passato. Altre due epidemie recenti di coronavirus – la Sindrome acuta respiratoria grave (Sars) del 2003 e la sindrome respiratoria mediorientale del 2012 – non hanno avuto alcuna ondata preliminare e avevano tassi di contagio e di mortalità diversi tra loro e apparentemente anche dall’attuale coronavirus, responsabile della malattia chiamata Covid-19. Questo perché ogni nuovo virus si comporta in modo diverso, oltre ad avere la tendenza a mutare e cambiare il proprio comportamento durante l’epidemia.
I virus sono sempre un passo avanti rispetto agli esseri umani: quando ne arriva uno nuovo, noi stiamo rispondendo ancora al precedente. Dopo essere stata accusata di aver reagito in modo sproporzionato all’epidemia di febbre suina del 2009, l’Oms nel 2014 ha adottato un approccio più prudente all’epidemia di ebola in Africa occidentale, attirandosi una valanga di critiche per la sua lentezza. I ricordi della Sars sono ancora vivi in Cina. Il governo e la popolazione hanno imparato molto da quell’esperienza. I primi casi furono rilevati nella provincia meridionale di Guangdong a novembre del 2002. Negli otto mesi successivi la Sars infettò ottomila persone in 26 paesi. I morti furono ottocento, la maggior parte in Cina e a Hong Kong. In quel momento la popolazione si accorse che le epidemie sono un fenomeno pericoloso, mentre il governo cinese scoprì che non poteva più contare sull’ubbidienza incondizionata, soprattutto dopo aver nascosto la portata dell’epidemia.
Nel vuoto d’informazione si diffusero paura e voci incontrollate, con vari episodi di violenza in tutto il paese. Sfortunatamente Pechino non sembra aver imparato la lezione più importante della Sars, ovvero la necessità d’introdurre un regolamento per i mercati degli animali vivi, fonte di molte zoonosi. Il 22 gennaio la Cina ha vietato temporaneamente il commercio di prodotti derivati da animali selvatici. Ma è risaputo che questi divieti sono inefficaci: durante l’epidemia di Sars un bando simile provocò un’impennata delle vendite sul mercato nero. Non c’è da stupirsi, considerando che il 60 per cento dell’approvvigionamento alimentare dei cinesi dipende dai mercati di animali vivi. Questi sono solo alcuni dei motivi per cui l’Oms si affida agli antropologi come Christos Lynteris per mettere a punto una risposta alle epidemie.
L’Oms continua a sottolineare che per prepararsi alle prossime pandemie il mondo deve adottare misure a lungo termine, a cominciare dagli investimenti nei paesi più poveri. Forse ora i governi ascolteranno i consigli degli esperti. Il 10 febbraio la banca d’investimenti Morgan Stanely ha comunicato che l’epidemia in Cina potrebbe ostacolare la ripresa della crescita globale. Le catene di distribuzione sono state interrotte su scala mondiale, anche se non è chiaro fino a che punto il fenomeno sia dovuto al virus o a misure di contenimento controproducenti. Un finanziamento relativamente modesto per le infrastrutture sanitarie nei paesi in via di sviluppo e un approccio razionale – per esempio la regolamentazione scientifica dei mercati di animali vivi – avrebbero evitato buona parte dei danni inflitti dal nuovo coronavirus.
Popolazione arrabbiata
Intanto in Cina è in corso un esperimento senza precedenti sul contenimento delle malattie. In passato la risposta di Pechino alle malattie è stata fortemente restrittiva, ma ora il governo sembra aver adottato un atteggiamento più aperto, anche perché con i social network è più difficile nascondere le notizie. Finora la popolazione sembra aver seguito le direttive, ma la frustrazione è evidente. La rabbia è esplosa sui social network il 7 febbraio, dopo la morte del medico Li Wenliang, che a dicembre aveva dato l’allarme sulla presenza di un nuovo virus, per poi essere accusato dalla polizia di aver diffuso notizie false.
Gli storici della medicina sottolineano da tempo che la democrazia è poco efficace durante le epidemie, quando servono misure rapide e incisive. La crisi attuale sta mettendo alla prova una gestione alternativa, che ha i suoi difetti. I leader cinesi si vantano della loro capacità di sconfiggere le malattie come un segno di grande forza, ma cosa succede se la malattia vince? Il presidente Xi ha concentrato tutto il potere attorno a sé, e questo lo renderà un bersaglio facile per una popolazione infuriata e spaventata se la sua strategia dovesse fallire. Forse è per questo che Xi è rimasto lontano dai riflettori, permettendo ai suoi luogotenenti di mostrarsi in pubblico mentre gestiscono la situazione.
Il New York Times ha citato un politologo di Pechino, Rogn Jiang, che ha proposto un parallelo tra i danni causati alla legittimità del regime dall’epidemia e quelli causati dal massacro di Tiananmen nel 1989. La speranza è che anche Xi possa dire addio al dio della peste. Comunque andrà a finire, solo il tempo ci dirà quali saranno le conseguenze di questa epidemia per Xi Jinping, per la Cina e per il resto del mondo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul numero 1347 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati