Questo articolo è stato pubblicato il 17 dicembre 2010 nel numero 877 di Internazionale.

Se state leggendo questo articolo, ci sono buone probabilità che siate weird (strani). A meno che i sondaggi di New Scientist siano sbagliati, il vostro retroterra culturale è sicuramente occidentale, colto, industrializzato, ricco e democratico, in inglese “western, educated, industrialized, rich and democratic”, in poche parole weird, una classificazione che vi distingue da sette abitanti del mondo su otto. Ma perché scegliere un acronimo così dispregiativo?

I weird appartengono sicuramente a una minoranza, ma questo non significa necessariamente che siano strani. O invece sì? Tutti gli esseri umani hanno lo stesso tipo di cervello, perciò è comprensibile pensare che quello che succede nella nostra testa sia normale. Anzi, la maggior parte degli psicologi lo dà per scontato. Quando vogliono sapere come funziona il cervello vanno a cercare i soggetti più adatti ai loro esperimenti.

Da una rassegna delle ricerche pubblicate, è emerso che il 96 per cento delle loro cavie era composto da persone che vivevano in paesi occidentali industrializzati e più di due terzi erano studenti di psicologia. Gli psicologi danno anche per scontato che i loro risultati siano applicabili al resto dell’umanità, ignorando il fatto che gli esperimenti sulle persone non weird spesso indicano che la maggioranza degli esseri umani ragiona in modo molto diverso. Oggi questa differenza è stata dimostrata.

In un articolo intitolato “The weirdest people in the world?” (Le persone più strane del mondo?), Joe Henrich, Steve Heine e Ara Norenzayan dell’università della British Columbia a Vancouver, in Canada, sono giunti alla conclusione che l’eccessivo uso da parte degli psicologi di soggetti weird ha notevolmente condizionato la nostra idea dei processi cognitivi umani. Ovviamente esistono alcuni universali modi di pensare comuni a tutti. Ma la loro lista si va riducendo man mano che un numero sempre maggiore di studi interculturali rivela enormi differenze in aree cognitive fondamentali, dal senso dell’io al modo di ragionare, dalla moralità al modo di percepire il mondo.

La vera sorpresa di questa nuova meta-analisi, tuttavia, è che le persone weird sono spesso “anomale” e negli studi di psicologia si collocano alle estremità delle distribuzioni statistiche. I lettori di New Scientist (e quelli che lo scrivono) sono tra le persone più strane della terra. Prendiamo, per esempio, la classica illusione ottica di Müller-Lyer, quella in cui, sebbene due linee siano della stessa lunghezza, la linea “a” sembra più corta della “b” semplicemente a causa del diverso orientamento delle frecce alle estremità.

All’inizio degli anni sessanta, lo psicologo Marshall Segall dell’università dell’Iowa e la sua équipe misero alla prova la predisposizione di persone appartenenti a culture diverse a cedere a questa illusione. Modificarono la lunghezza delle due linee fino a quando gli osservatori non ritennero che fossero uguali e registrarono il punto di uguaglianza soggettiva (Pse), vale a dire quanto doveva essere più lunga la linea “a” per apparire uguale alla “b”. Il Pse misura la forza dell’illusione e Segall scoprì che gli studenti di Evanston, nell’Illinois, erano più soggetti al fenomeno, per cui bisognava allungare la linea “a” del 20 per cento prima che ai loro occhi risultasse uguale alla “b”.

All’altra estremità dello spettro dei risultati, c’erano i boscimani del deserto del Kalahari, per i quali la differenza era quasi pari a zero. Non erano praticamente soggetti a quell’illusione. Questa scoperta non è banale come si potrebbe credere a prima vista. Implica che un aspetto fondamentale della percezione, che fino a quel momento si riteneva fosse innato e quindi comune a tutti, in realtà si forma durante lo sviluppo sotto l’influsso di alcuni aspetti della nostra cultura.

Anche se siamo ancora lontani dall’aver capito come funziona questo effetto, Segall e i suoi colleghi suggerirono una possibile spiegazione: chi vive tra quattro mura, come i weird, probabilmente è condizionato dalla geometria del suo mondo, che lo rende più incline a quest’illusione ottica. Perciò, se siamo weird, percepiamo il mondo in modo strano. Abbiamo anche uno strano modo di descriverlo. Per esempio, l’inglese, la lingua franca dei weird, si basa su un sistema per localizzare gli oggetti di tipo egocentrico, come fanno altre lingue indoeuropee. Quindi una persona che parla inglese dice: “Il poliziotto è a sinistra della mia macchina”.

Per molto tempo si è dato per scontato che questo succedesse in tutte le lingue, ma poi sono cominciate a saltar fuori le eccezioni, che di solito comportavano un quadro di riferimento allocentrico, che colloca cioè gli oggetti in relazione a punti esterni a chi parla, come quelli cardinali (“Il poliziotto è a ovest della macchina”) o ad altri oggetti (“Il poliziotto è tra la macchina e il marciapiede”).

Egocentrico io?

Nel 2009, Daniel Haun e Christian Rapold del Max Planck institute for psycholinguistics di Nijmegen, nei Paesi Bassi, hanno scoperto un esempio sorprendente di come questi diversi stili cognitivi influiscono sul comportamento. Hanno insegnato a un gruppo di bambini tedeschi weird e di bambini namibiani appartenenti a una cultura di cacciatori-raccoglitori una danza che prevedeva una sequenza di movimenti delle mani rispetto al corpo secondo lo schema destra, sinistra, destra, destra. Poi li hanno fatti girare di 180 gradi e gli hanno chiesto di ripetere la danza.

Quasi tutti i bambini tedeschi hanno riprodotto lo stesso schema, confermando il loro quadro di riferimento egocentrico, mentre i namibiani hanno prodotto la sequenza sinistra, destra, sinistra, sinistra, indicando chiaramente che il loro quadro di riferimento era allocentrico, assoluto.

Con Asifa Majid e altri colleghi, Haun ha indagato i sistemi di riferimento spaziali in circa cinquanta lingue. Delle prime venti lingue studiate, solo quelle parlate nei paesi industrializzati usavano più spesso riferimenti egocentrici. Dopo averne analizzate altre trenta, la conclusione è rimasta la stessa. “Pensiamo che tradizionalmente le società di piccole dimensioni avessero questo schema di riferimento allocentrico e che il passaggio a quello egocentrico sia più recente”, dice Majid.

Un altro cambiamento che i weird hanno subìto di recente ha buone probabilità di influire sul nostro modo di vedere il mondo. Lo psicologo Scott Atran dell’università del Michigan, è convinto che di base gli esseri umani dividano gli oggetti naturali secondo il genere (per esempio, olmo, faggio, quercia), probabilmente perché in termini evolutivi conoscere le proprietà biologiche di un genere era più utile ai fini della sopravvivenza. Ma l’ignoranza della natura, sempre più diffusa tra le persone che vivono nelle società urbanizzate e industrializzate, implica la mancanza di questo tipo di conoscenze.

In uno studio del 2008, Atran ha scoperto che gli studenti statunitensi usavano la parola “albero” per riferirsi al 75 per cento delle piante che vedevano durante una passeggiata nella natura. In altre parole, i weird tendono a pensare alla natura in termini di forme di vita elementari, piuttosto che di generi. Ma Atran ha scoperto anche che il loro cervello tende ancora ad analizzare il mondo naturale come facevano i loro antenati. “Sebbene gli statunitensi di solito non siano in grado di distinguere un faggio da un olmo, pensano che i processi biologici si svolgano a livello di faggi e di olmi, non di alberi”. Se il nostro modo di vedere la natura è strano, la nostra concezione del sé lo è ancora di più, e questo ha notevoli ripercussioni sui rapporti sociali.

Diversi studi hanno dimostrato che gli occidentali, in particolare i nordamericani e gli abitanti dell’Europa occidentale, hanno un maggior senso della propria individualità di quanto non ne abbiano i popoli dell’Asia orientale, che tendono a vedersi come componenti indivisibili di una comunità più ampia. La visione individualista o collettivista che abbiamo di noi stessi è stata usata per spiegare perché gli occidentali cercano di emergere tra la folla, mentre gli orientali tendono a confondersi. Questo è stato anche collegato al nostro modo di pensare.

Gli occidentali sono più inclini a ragionare in modo analitico, sulla base di leggi e categorie, mentre gli orientali ragionano in modo olistico e prestano più attenzione agli schemi ricorrenti e al contesto. Secondo lo psicologo culturale Shihui Han dell’università di Pechino, ognuno di noi è capace di usare entrambi i tipi di ragionamento. “Ma il sistema culturale in cui si vive domina la mente e il cervello della maggior parte delle persone”, dice. Se però esaminiamo gli esseri umani nel complesso, sembra che il metodo di ragionamento prevalente sia quello olistico.

Secondo Norenzayan, per esempio, gli arabi e i russi, senza contare i contadini africani e sudamericani, preferiscono questo approccio. Il che significa che il ragionamento analitico è minoritario. Perfino tra gli occidentali viene applicato a vari livelli, e solo le persone più colte vi si affidano quasi completamente. In altre parole, i weird come voi e me sono un caso estremo. E non solo.

Anche il nostro senso etico è anomalo. Lo psicologo Jonathan Haidt dell’università della Virginia, a Charlottesville, vede la moralità come “un’allucinazione consensuale”, un po’ come nel film Matrix, perciò condivide l’analisi interculturale di Henrich, Heine e Norenzayan. “Quando leggi l’articolo sui weird, è come se prendessi la pillola rossa di Matrix”, dice. “Pensi, oddio, sono in un mondo costruito a tavolino, ma ne esistono tanti altri”.

La cosa particolarmente anomala della moralità weird è l’enfasi su concetti astratti come quello di giustizia e di diritti individuali. Anche altre società hanno questi concetti, ma la loro visione della moralità si concentra più sugli obblighi degli individui nei confronti della comunità e spesso anche degli dèi.

Diversamente equi

Un fattore chiave della morale è l’equità. Si è sempre pensato che il concetto di equità fosse un universale umano, ma in uno studio condotto con alcuni antropologi ed economisti, Henrich ha dimostrato che non è così. Lo scopo della ricerca era individuare le differenze tra le culture in tema di equità usando un gioco in cui un soggetto offre una percentuale di una certa somma di denaro a un altro, in modo anonimo, a condizione che se l’accetta entrambi manterranno la loro parte, mentre se la rifiuta, nessuno dei due avrà nulla.

I ricercatori hanno riscontrato enormi differenze di comportamento. Stranamente, i weird tendevano a fare le offerte più alte, intorno al 50 per cento, e quando si trovavano dalla parte del ricevente spesso punivano chi faceva un’offerta troppo bassa rifiutandola. I membri di comunità più piccole, invece, facevano offerte più basse e raramente punivano quelli che le facevano a loro. In altre parole, sceglievano l’approccio più razionale: dopotutto erano soldi regalati.

Sempre più spesso sono le transazioni anonime come queste che fanno girare il mondo e l’équipe di Henrich si è chiesta se fosse possibile individuare gli aspetti della cultura che influiscono sul comportamento delle persone in queste situazioni. In un articolo pubblicato a marzo, hanno dimostrato che è possibile prevedere le offerte sulla base di due fattori culturali relativamente recenti: l’economia di mercato e la religione organizzata. Hanno infatti scoperto che più una cultura pratica scambi commerciali e appartiene a una delle grandi religioni del mondo come il cristianesimo o l’islam, più è probabile che le persone siano generose con gli estranei.

L’atteggiamento punitivo, invece, è più legato alle dimensioni della comunità. “Nelle comunità composte da una cinquantina di individui, questo atteggiamento non esiste”, dice Henrich. “Ma quando si arriva a cinque o diecimila, qualsiasi offerta diversa dal 50 per cento sarà punita”. Quindi, a quanto sembra, le idee dei weird sull’equità riflettono le norme e le istituzioni che si sono sviluppate per oliare gli ingranaggi delle interazioni sociali nelle grandi comunità. I nostri antenati preistorici non avevano lo stesso senso di equità e non lo ha neanche la maggior parte dei nostri contemporanei.

Forse non dovremmo sorprenderci se la nostra psicologia differisce tanto da quella della maggior parte degli esseri umani. Dopotutto, se la cultura influisce sul nostro modo di pensare e quella weird è così lontana dall’ambiente sociale in cui la nostra specie si è evoluta, è normale che siamo noi a rappresentare un’anomalia. Il problema è che quasi nessuno di noi la pensa così. È per questo che l’articolo sui weird avverte implicitamente i ricercatori occidentali di guardarsi dai loro pregiudizi e da quelli che possono aver inserito nei loro strumenti di ricerca.

Nel test standard per il calcolo del quoziente intellettivo, per esempio, ci sono domande per le quali una risposta analitica è considerata corretta e un’eventuale risposta olistica scorretta. La maggior parte dell’umanità darebbe la risposta “sbagliata” a quelle domande.Per gli psicologi, il messaggio più importante è che prima di trarre conclusioni sulla psicologia umana bisognerebbe allargare la scelta di soggetti esaminati o applicare quelle conclusioni solo al sottogruppo a cui appartengono i soggetti del loro studio. Per quanto riguarda voi, la prossima volta che vedete un documentario sui boscimani o sugli indigeni dell’Amazzonia, ricordatevi che gli esotici non sono loro.

Questo articolo è stato pubblicato il 17 dicembre 2010 nel numero 877 di Internazionale.

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