L’industria californiana del cinema pornografico avrebbe qualcosa da insegnare per uscire in sicurezza dal lockdown e contenere la diffusione del virus nei luoghi di lavoro, racconta la rivista Statt. La sua esperienza in materia è cresciuta negli anni novanta con l’epidemia di hiv, che metteva in serio pericolo la salute degli attori e di conseguenza anche le produzioni cinematografiche del settore, con il loro fatturato annuo di miliardi di dollari.
In quegli anni la Free speech coalition, una rete di avvocati che rappresenta diverse aziende dell’intrattenimento per adulti, aveva lanciato in California il piano Pass (Performer availability scheduling services) ancora oggi operativo. Oltre a offrire consulenze mediche e legali, il Pass fornisce a produttori e artisti un protocollo e un database di test per le malattie a trasmissione sessuale. Con la massima discrezione e tutela della privacy, gli attori si sottopongono a test frequenti, ogni due settimane. In caso di positività non possono lavorare fino a che non risultino più contagiosi. Il programma di screening è su base volontaria, ma molti set cinematografici californiani ne richiedono l’adesione.
Il modello Pass, scrive la giornalista Usha Lee McFarling, potrebbe essere quello di cui i governi hanno bisogno ora, anche se è difficile immaginare che l’amministrazione Trump o i politici si rivolgano all’industria del porno per avere dei consigli su come gestire la ripresa delle attività lavorative. Per limitare il rischio di malattie infettive, i set dei film per adulti sono estremamente puliti e le rigorose misure di igiene sono da tempo procedure standard. “Siamo già abituati a lavorare in un ambiente a rischio di contagio. Il resto del mondo lo sta imparando a fare solo ora”, commenta Lotus Lain, attrice bisessuale della Free speech coalition. “Spero che altri guardino al nostro settore non solo per imparare, ma anche per dare credito a noi attori”.
Un esempio da ridimensionare
Il piano Pass ha già affrontato alcune delle difficoltà con cui si scontrano oggi i programmi di screening e di salute pubblica per spegnere sul nascere i nuovi focolai d’infezione da covid-19 e salvaguardare i luoghi di lavoro: dalla sicurezza dei database con informazioni mediche private, alla gestione dei falsi positivi, alla calendarizzazione dei test da ripetere periodicamente per garantire una sicurezza continua nei luoghi di lavoro. Lo stesso Ashish Jha, direttore del Global health institute dell’università di Harvard, lo considera un modello a cui ispirarsi: “L’industria cinematografica per adulti ci insegna che questo strumento può funzionare”. Nei contesti ad alto rischio, come gli aerei o gli impianti di lavorazione della carne, si potrebbe immaginare, continua Jha, un accesso condizionato all’esito del test: una compagnia aerea, per esempio, potrebbe verificare, accedendo a una database aggiornato, se il passeggero ha fatto il test e dargli il permesso di viaggiare solo se il test è negativo.
Ogni virus è a sé e richiede strategie di controllo diverse
Elizabeth Halloran, biostatistica all’università di Washington, sta lavorando a un piano per mantenere il contagio da covid-19 a un livello basso in assenza di un’immunità di gregge, pur allentando le misure di distanziamento sociale. Immagina una quarantena che non riguardi più di un decimo della popolazione, accompagnata dal tracciamento dei contatti e da un elevato numero di test, anche ogni dieci giorni, in modo da intercettare le persone positive al virus, e quindi contagiose, ma asintomatiche. Per la ricercatrice di Washington servono test diagnostici, a basso costo, da fare in autonomia a casa.
Tuttavia, secondo Robert Gallo, il medico biologo che nel 1983 aveva scoperto il virus hiv insieme a Luc Montagnier e a Françoise Barré-Sinoussi, l’esempio del cinema per adulti è limitato. “Prevenire la diffusione dell’hiv nell’industria cinematografica è un problema molto più gestibile, rispetto al tenere a freno il nuovo coronavirus”. Ogni virus è a sé e richiede strategie di controllo diverse. C’è poi da considerare che i test per l’hiv sono stati introdotti per la sicurezza nei luoghi di lavoro un decennio dopo la comparsa del virus e solo dopo anni di ricerca, mentre quelli per il covid-19 sono ancora in fase di perfezionamento e ci sono molte incognite, come la questione dei risultati falsi positivi causati dalla reattività incrociate con altri coronavirus comuni. Quindi i tempi potrebbero essere prematuri per adottare il modello del programma Pass o altri simili.
La stessa Free speech coalition considera che gli attuali test per il covid-19 non possano essere inseriti nel programma Pass: “Sono utili per fare una diagnosi personale, ma non ancora abbastanza efficaci per garantire set cinematografici sicuri”. Anche i test sierologici, aggiunge, hanno dei grossi limiti. Quello che funziona in alcuni contesti va considerato con prudenza, perché potrebbe non essere replicabile in altre situazioni, soprattutto se cambiano le condizioni di partenza: il Sars-cov-2 è un virus sconosciuto, diverso dall’hiv e da molti altri virus.
Fare i conti con i costi e non solo
Un’altra criticità è il costo dei test e da chi deve essere sostenuto. Nell’industria cinematografica, scrive la giornalista, gli attori di solito pagano un pacchetto di test circa 150 dollari per essere autorizzati a lavorare. Ma in un’ottica di sanità pubblica è impensabile che siano i lavoratori, in particolare quelli che hanno un basso salario, a dover sostenere gran parte delle spese. Per prevenire la diffusione delle malattie bisogna ridurre le barriere, in particolare quelle economiche, sottolinea su Stat Angela Bazzi, della Boston university school of public health, che ha studiato la salute delle prostitute in Messico, Kenya, Ghana e Boston. “Se diamo questo onere agli individui è preoccupante”.
Un’ultima considerazione è che i test da soli non bastano, neanche nell’industria del porno. Per anni l’Aids healthcare foundation ha criticato le misure di sicurezza prese sui set dei film per adulti, come i test dell’hiv ogni 14 giorni, perché poco efficaci: il contagio può avvenire tra un test e l’altro. Nel 2016 la fondazione ha portato al voto dei cittadini la Proposition 60 per rendere obbligatorio l’uso del profilattico nelle scene dei film porno, che è la principale misura di protezione se usato correttamente. Osteggiata da attori e produttori, la proposta di legge non ha superato il referendum con il 54 per cento dei voti contrari. Ancora oggi nei set cinematografici continuano a esserci casi di contagio da hiv.
Risorse ed energie andrebbero investite anche nella promozione della salute e nella comunicazione del rischio, che hanno un ruolo importante nel modificare i comportamenti individuali che possono favorire la diffusione di virus. Se per l’hiv alcuni dei cambiamenti più importanti sono stati la riduzione del numero di partner sessuali casuali e il sesso protetto, non abbassando la guardia per il solo fatto di usare il preservativo, per il Sars-cov-2 lo sono l’igiene delle mani e, ancor prima della mascherina, la distanza di sicurezza.
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