La protesta degli indigeni cacciati dal narcotraffico e dalle miniere illegali
Dalla fine di settembre centinaia di persone appartenenti a dieci popoli indigeni della Colombia (in maggioranza embera katío) sono esposte alle intemperie. Sono accampate sotto la pioggia costante di Bogotá in un campo improvvisato nel parco Enrique Olaya Herrera, poco lontano dal congresso della repubblica e dal palazzo presidenziale. Gli indigeni sono stati costretti a lasciare i loro territori a causa dalla violenza dovuta al narcotraffico e all’estrazione illecita d’oro.
Non si sa con esattezza il numero dei presenti nell’accampamento. Nel bollettino del 19 ottobre la Personería di Bogotá, l’ufficio che ha il compito di garantire i diritti dei cittadini, ha parlato di quattrocento persone. Altre 1.460 si sono stabilite nel parco La Florida, alla periferia della città. Rispetto a queste cifre Ati Quigua, consigliera comunale di Bogotá per il Movimento alternativo indigeno e sociale, ha scritto su Twitter che gli indigeni sarebbero in realtà 1.300. Alcuni leader dell’accampamento parlano di novecento persone.
Secondo la Personería gli indigeni nel campo sono per il 70 per cento bambini e donne incinte. Tra gli alberi storici si vede una sequela di tende costruite con teli di plastica nera e pali. In questo modo gli indigeni si proteggono dalla pioggia di Bogotá, che può durare tutto il giorno, fino alla sera, quando la temperatura scende sotto i sette gradi. Camminando fino al monumento dedicato al pensatore e militare Rafael Uribe Uribe, un’enorme scultura di bronzo e pietra posta al centro di una fontana, si vedono dei bambini che giocano nell’acqua. Secondo la consigliera Ati Quigua sono 420, di età compresa tra zero e tredici anni.
“Non si possono scattare fotografie”, avverte un giovane indigeno che incontro nella spianata dove si trova il monumento. Davanti a lui c’è Leonibal Campo Murillo, artigiano di 34 anni, studente di scienza dell’educazione e leader embera katío nell’accampamento. “Siamo del Chocó”, spiega Leonibal, “del municipio di Bagadó, nel resguardo Tahami dell’Alto Andágueda. Nel territorio d’appartenenza indigena c’erano 34 comunità, con 14mila abitanti.
Secondo la Organización nacional indígena de Colombia (Onic) il territorio degli embera katío, composto da circa 48mila persone, comprende Antioquia, Risaralda, Chocó e Córdoba, nell’area nordoccidentale del paese. Per cinque secoli la regione selvaggia dell’Alto Andágueda, dove nascono e scorrono diversi fiumi, è stata oggetto di una disputa per l’estrazione dell’oro che si trova nelle montagne. “Negli ultimi anni il controllo delle miniere ha creato uno scontro tra le multinazionali del settore, le comunità e i minatori locali. Queste battaglie hanno ignorato i diritti ancestrali sulle terre delle comunità indigene”, si legge in un articolo pubblicato nel 2014 dal portale Verdad Abierta e intitolato “L’oro, la maledizione del territorio embera nel Chocó”. L’articolo fa un resoconto dello sviluppo delle miniere d’oro nell’Alto Andágueda, riconosciuto come resguardo nel 1979. All’epoca tredicimila ettari (su cinquantamila) erano stati affidati in concessione e per altri ventimila era stata chiesta l’autorizzazione allo sfruttamento. A quel fenomeno si sono aggiunti la presenza di gruppi armati e i bombardamenti delle forze armate nel contesto del conflitto che ha provocato migliaia di profughi tra gli embera katío, fuggiti nelle città vicine.
Alcuni gruppi hanno assunto il controllo dei territori abbandonati dalle Farc e hanno cominciato a controllare attività illegali come il narcotraffico o l’estrazione mineraria
Nel 2013 un giudice ha ordinato all’Agencia nacional de minería di sospendere i contratti di concessione conferiti o richiesti da imprese minerarie estranee alla comunità. Ma come si legge nello stesso articolo “il problema persiste”, perché l’attività mineraria illegale, con attori economici “provenienti da diverse regioni del paese, continua a estrarre l’oro”. Un anno dopo, al termine di uno storico processo, il tribunale superiore di Antioquia ha firmato la prima sentenza di restituzione territoriale per una delle comunità indigene. Con la sentenza, spiega il portale in un altro articolo intitolato “Le promesse mantenute a metà per gli indigeni dell’Alto Andágueda”, sono state emesse più di cinquanta ingiunzioni nei confronti di diverse entità statali affinché garantissero il ritorno degli sfollati e l’accesso ai servizi basilari (acqua potabile, istruzione, salute, cibo) nell’arco di sei mesi. “Ma dopo quasi tre anni sono poche le istituzioni che hanno eseguito la sentenza”. Secondo l’articolo non c’è stato un ritorno significativo degli sfollati e quelli che sono tornati non hanno ricevuto garanzie. Tra le trecento persone rientrate nel 2016, sei bambini con meno di cinque anni sono morti per malattie curabili come l’influenza. Sembra che l’attività estrattiva dell’oro stia vincendo la battaglia in Colombia.
“Siamo a Bogotá per denunciare l’inadempienza dello stato”, spiega il Leonibal Campo Murillo. Per il momento Murillo preferisce restare nella capitale. “Sono minacciato”, confessa. “Veniamo dal Chocó a causa della situazione dell’ordine pubblico. Nei notiziari si sente quello che succede lì. Uccidono giorno e notte e distruggono il nostro ambiente, già massacrato dalle imprese minerarie per l’estrazione di oro e smeraldi. Vogliamo una casa degna, anche collettiva, per vivere e lavorare”.
Nel 2018 la Defensoría del pueblo, l’organo costituzionale che vigila sui diritti umani nel paese, ha pubblicato il rapporto “Economie illegali, attori armati e nuovi scenari di rischio nel post-accordo”, uno studio che descrive come una volta terminato il negoziato di pace tra il governo e la guerriglia delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), con il disarmo dei guerriglieri, sia cominciata una nuova tappa del conflitto. Altri gruppi hanno assunto il controllo dei territori abbandonati dalle Farc, hanno messo in atto dinamiche di violenza e hanno cominciato a controllare attività illegali come il narcotraffico, l’estrazione mineraria non convenzionale e il contrabbando. Lo studio sottolinea che la regione del Pacifico, dove si trova il Chocó, è diventata “l’asse del narcotraffico in Colombia” in quanto corridoio strategico tra la cordigliera e il mare, oltre che un centro per l’estrazione mineraria illegale dell’oro. “Tra i vari dipartimenti, il Chocó è quello con gli indici di sviluppo più bassi e i livelli più alti di violenza, tendenza che è evidente nelle cifre relative agli sfollati e agli omicidi. Ma è anche uno dei due dipartimenti con la maggiore produzione nazionale di oro”.
Il lungo viaggio
Leonibal è arrivato a Bogotá il 18 gennaio 2020, con un gruppo di indigeni embera katío, sua moglie e quattro figli. “Siamo andati a Santa Cecilia e lì abbiamo preso un autobus. Dal Chocó avevamo camminato per dodici ore, trasportando i bambini e le nostre cose. Là non ci sono strade né corrente elettrica. Da Santa Cecilia abbiamo viaggiato fino a Pereira, il capoluogo del dipartimento di Risaralda, e lì abbiamo preso un altro autobus per Bogotá”.
Nel maggio del 2020 Leonibal ha fatto parte delle 150 famiglie che, in mancanza di aiuti e garanzie da parte del governo nazionale per la loro condizione di sfollati, hanno occupato alcuni appartamenti nel quartiere di Candelaria la Nueva, a sud della capitale. Da lì sono stati sfrattati dalla squadra antisommossa, l’Esmad. A luglio, in pieno lockdown dovuto alla pandemia e senza possibilità di vendere i propri prodotti artigianali, 135 famiglie embera katío ed embera chamí si sono stabilite nel parco Tercer Milenio, dove sono rimaste per quattro mesi, fino a quando non hanno raggiunto un accordo con le autorità distrettuali incaricate dei diritti degli indigeni e dell’integrazione, che si sono impegnate a pagare gli affitti e favorire la ricerca di un lavoro. In quel parco è nato il quinto figlio di Leonibal, che fino al mese scorso ha vissuto in un altro appartamento pagato dal distretto. “Ma poi ci hanno fatto sapere che le risorse erano finite e dovevamo uscire dall’appartamento per non creare un conflitto con i proprietari”.
E così Leonibal ha intrapreso un nuovo cammino, stavolta fino al parco Nacional. “Siamo arrivati il 29 settembre, verso le 22, e ci hanno mandato l’Esmad”, racconta. “Sono arrivati dalla parte superiore del parco, ci hanno lanciato candelotti di gas lacrimogeno e hanno sparato qualche colpo. Le donne stavano dormendo e sono uscite correndo, terrorizzate”. Quella sera è scomparso un ragazzo embera katío di diciotto anni, Virgilio Queragama Campo, e ancora non si hanno notizie su cosa gli sia accaduto.
Secondo la radio Caracol, dopo due settimane trascorse nel campo a sessanta bambini sono stati diagnosticati disturbi respiratori, diarrea e disidratazione. Il 19 ottobre 17 bambini erano ricoverati in ospedale, come ha confermato la portavoce dell’ente Protección de las víctimas, Patricia Villegas, che ha chiesto l’apertura di un dialogo urgente tra l’amministrazione distrettuale e le comunità indigene. Uno dei figli di Leonibal è tra i bambini ricoverati. “Qui piove in continuazione. Sai che a Bogotá può essere pesante e diventare un problema. Da dieci giorni penso che vorrei dormire, ma è tutto bagnato. I vestiti, le coperte. Così arriviamo all’alba senza aver chiuso occhio”.
Prima che le gocce di oggi si trasformino in pioggia fredda, Leonibal ribadisce che il sindaco di Bogotá Claudia López non ha visitato l’accampamento e che il municipio di Santa Fe non ha offerto alcuna soluzione. Hanno proposto agli indigeni di spostarsi al parco La Florida, dove sono alloggiati altri popoli indigeni, ma trattandosi di un luogo isolato alla periferia della capitale gli embera katío hanno rifiutato l’offerta.
Martedì 19 ottobre la pioggia si interrompe e lascia spazio a una mattinata soleggiata. Ma l’atmosfera al parco Nacional è agitata. Presto inizierà una riunione convocata dalla Inspección de policía de atención prioritaria de Santa Fe a proposito della situazione degli indigeni che si trovano nel parco. Poche ore prima il sindaco ha scritto su Twitter: “Bogotá ha stanziato 1,895 miliardi di pesos (426mila euro) per l’assistenza alla comunità embera”, sfollata “a causa dell’incapacità delle autorità di garantirne i diritti e il ritorno nei propri territori”.
L’ingresso all’accampamento è regolato da tre donne e un uomo del Consiglio regionale indigeno del Cauca. Comunicano con dei radiotrasmettitori. Alcuni funzionari del distretto camminano da un lato all’altro, abbastanza inquieti. Due agenti mangiano pezzi di mango da un bicchiere vicino a una bancarella. Una donna con la giacca azzurra (dell’ufficio della sanità locale) parla con una ragazza indigena che è uscita dall’accampamento. Sembra preoccupata. È infermiera ausiliaria e accetta di rilasciare un’intervista a patto di non rivelare il proprio nome.
“Cerchiamo di identificare i rischi per chi risiede nel parco Nacional. Diamo la precedenza alle donne incinte, ai minori di cinque anni e agli anziani. Cerchiamo di capire se ci sono bambini che hanno bisogno di cure pre-ospedaliere o di essere valutati per un eventuale ricovero. Abbiamo organizzato giornate di test e vaccinazione contro il morbillo, la rosolia e l’influenza. Abbiamo attivato un’ambulanza per i minori con segni di disturbi respiratori e per le donne incinte. Ma una volta un leader locale ci ha cacciati. Siamo rimasti fuori dall’accampamento in attesa che decidessero se potevamo rientrare”.
La riunione inizia a mezzogiorno in una piazza circolare all’interno del parco. Il suolo è pieno di pozzanghere create dalle piogge dei giorni scorsi. Al centro c’è un falò che emette grandi quantità di fumo, gestito da ragazzi che tengono un bastone in entrambe le mani. Davanti al fuoco ci sono giornalisti e funzionari distrettuali, dall’altro lato si trovano le autorità indigene. Nei dintorni di vedono vestiti appesi ai fili. Dalle tende entrano ed escono donne con piatti e pentole. Un gruppo di donne si è piazzato su un lato della piazza. Sono accovacciate. Alcune allattano e altre si mettono il rossetto. Un leader indigeno si incarica di eseguire il rituale per inaugurare la riunione: espira il fumo del tabacco, fa suonare un sonaglio.
L’ispettore di polizia prende la parola. Quando termina il suo intervento, le autorità indigene convocano una consultazione interna e si ritirano. Durante lo svolgimento della riunione privata i bambini dell’accampamento prendono possesso dell’auditorio: una bambina, vestita di rosa, passa ridendo a crepapelle; altri cinque bambini spingono un triciclo; un altro trascina un carretto; un’altra gioca con le pentole di plastica; altri due bambini brandiscono pali di legno come fossero spade; un altro si lascia pettinare dalla madre mentre fa volare un piccolo elicottero.
Tre ore dopo, davanti alla minaccia di un intervento dell’Esmad e mentre un elicottero della forza pubblica sorvola il parco, la riunione viene rinviata per mancanza di un accordo e garanzie per il dialogo. In un video pubblicato sui social network si vede l’ispettore di polizia farsi largo a spintoni. Il popolo indigeno embera katío resta lì. Gli sfollati continueranno a portare avanti la loro protesta.
(Traduzione di Andrea Sparacino)