Il 9 marzo un uomo che aveva da poco viaggiato in Europa e presentava sintomi da covid-19 è andato al pronto soccorso dell’ospedale privato St. Augustine, a Durban, in Sudafrica. Otto settimane dopo, 39 pazienti e 80 operatori sanitari della struttura erano stati infettati. I decessi erano stati 15, ossia la metà del totale nella provincia del KwaZulu-Natal fino a quel momento.

Il 22 maggio i ricercatori dell’università del KwaZulu-Natal hanno pubblicato una ricostruzione dettagliata del modo in cui il virus si è diffuso da un reparto all’altro contagiando pazienti, medici e infermieri. Lo studio è stato condotto basandosi sulle piantine dell’ospedale, i genomi virali e le analisi dei movimenti dei pazienti e del personale. Il rapporto di 37 pagine è il più dettagliato resoconto su un focolaio ospedaliero disponibile al momento. I dati raccolti suggeriscono che il contagio sia scaturito da un singolo ricovero e che raramente la trasmissione sia avvenuta tra un paziente e l’altro. Il virus si sarebbe spostato all’interno della struttura soprattutto attraverso il personale contagiato e le superfici delle attrezzature mediche.

“È una testimonianza notevole di quanto il virus possa diffondersi facilmente all’interno di una struttura in mancanza di controlli adeguati”, sottolinea Michael Klompas, infettivologo della facoltà di medicina di Harvard, non coinvolto nella ricerca sudafricana. All’interno degli ospedali le infezioni non sono un fatto straordinario, come dimostra l’elevato tasso di contagio tra gli operatori sanitari. Analizzando il percorso seguito dal virus, lo studio “offre spunti estremamente utili per capire come dovrebbero funzionare le strutture sanitarie nell’era del covid-19”, sottolinea Salim Abdool Karim, specialista di hiv di Durban e presidente di un comitato scientifico sul covid-19 creato dal ministero della salute sudafricano.

Il percorso del virus
Lo studio, che a tratti sembra un romanzo poliziesco, segue la diffusione del virus in cinque reparti ospedalieri, tra cui quelli di neurologia, chirurgia e terapia intensiva, oltre a una casa di riposo e a un centro di dialisi poco lontani dall’ospedale. È significativo che nessun contagio sembra essere avvenuto nella terapia intensiva dedicata al covid-19, teoricamente l’area dell’ospedale in cui il rischio era maggiore. Secondo gli autori la spiegazione potrebbe essere che i pazienti, una volta ricoverati in terapia intensiva, erano ormai meno contagiosi, oppure che nel reparto il personale è stato particolarmente diligente nella prevenzione del contagio.

Il primo paziente ricoverato con i sintomi del covid-19 ha trascorso soltanto poche ore all’interno dell’ospedale, ma è probabile che abbia trasmesso il virus a una donna anziana ricoverata nella stessa giornata in seguito a un ictus. I due pazienti si trovavano al pronto soccorso nello stesso momento. Il paziente con i sintomi del covid-19 è stato ricoverato in un’area di triage separata che tuttavia era accessibile dalla sala rossa principale, dove si trovava la donna anziana (il pronto soccorso è stato chiuso ad aprile e poi riaperto a maggio dopo una modifica degli spazi per migliorare il controllo delle infezioni). I due pazienti sono stati visitati dallo stesso medico.

Nella maggior parte dei casi sono stati gli operatori sanitari a diffondere il virus

Il 13 marzo la donna colpita da ictus ha cominciato ad avere la febbre, e presumibilmente ha infettato il primo operatore sanitario, un’infermiera che l’aveva assistita e che il 17 marzo ha manifestato i primi sintomi del covid-19. La donna anziana potrebbe aver trasmesso il virus ad altri quattro pazienti, compresa un donna di 46 anni ricoverata per un’asma grave nel letto di fronte a quello della paziente anziana. Entrambe le donne sono decedute.

In generale, però, la trasmissione diretta tra i pazienti è stata rara. Nella maggior parte dei casi sono stati gli operatori sanitari a diffondere il virus da un paziente all’altro e da un reparto all’altro, a volte senza nemmeno contrarre il covid-19. “Riteniamo che il contagio più frequente sia avvenuto attraverso le mani degli operatori e le attrezzature come termometri, misuratori della pressione e stetoscopi”, spiega Richard Lessells, infettivologo della Research innovation and sequencing platform del KwaZulu-Natal, nonché uno degli autori dello studio. Lessells e gli altri ricercatori non hanno trovato alcuna prova di una trasmissione per aerosol.

Il primo caso importato
Pur non indicando chiaramente le responsabilità, lo studio sottolinea che l’ospedale non ha sfruttato diverse opportunità per arginare il contagio. In una prima fase il personale non ha fatto caso ai sintomi del covid-19, anche se va detto che alcuni pazienti non presentavano i sintomi più indicativi come la febbre e spesso le loro condizioni non coincidevano con i criteri fissati all’epoca per i casi sospetti. In un comunicato del 20 maggio Craig Murphy, direttore regionale di Netcare, il gruppo ospedaliero di cui fa parte il St Augustine, ha definito il focolaio “un’esperienza triste che ci ha cambiati profondamente”, aggiungendo che tutte le raccomandazioni contenute nel rapporto erano state “implementate appieno” al momento della pubblicazione dello studio.

Secondo Lessells la ricerca è stata possibile perché all’inizio di marzo in Sudafrica si registravano pochi casi di contagio. Al contrario, quando l’epidemia si diffonde all’interno della comunità diventa spesso difficile stabilire se un paziente è stato infettato in ospedale o in altre circostanze. Di conseguenza, sottolinea Lessels, “in Europa e in Nordamerica quello che succede negli ospedali è quasi nascosto”.

Nel caso del Sudafrica, invece, le autorità hanno accertato il primo caso di contagio “importato” il 6 marzo, tre giorni prima del ricovero del “paziente zero” all’ospedale St. Augustine. Di conseguenza è improbabile che i pazienti positivi al Sars-cov-2 all’interno del focolaio ospedaliero siano stati infettati altrove. “Non c’è stata alcuna contaminazione”, dice Lessells. Inoltre i 18 genomi virali raccolti nell’ospedale erano quasi identici tra loro, dunque è presumibile che provenissero da un’unica fonte. Altri cinque campioni raccolti a Durban nello stesso periodo non erano riconducibili al focolaio di St. Augustine.

La vicenda del focolaio ospedaliero ha fatto scattare l’allarme in Sudafrica. “Il caso ha evidenziato quanto sia facile la trasmissione in questi ambienti e quali siano i rischi non soltanto per i pazienti ma anche per il personale e i visitatori”, sottolinea Abdool Karim.

Lessells e gli altri autori dello studio hanno elencato una serie di raccomandazioni per ridurre i rischi, tra cui la suddivisione delle strutture ospedaliere in zone verdi, gialle e rosse in base all’esposizione al covid-19, con la necessità di limitare gli spostamenti del personale tra una zona e l’altra. Secondo Jens Van Preat, specialista di medicina interna dell’ospedale AZ Sint-Jan AV di Bruges, in Belgio, che si è occupato di prevenzione della trasmissione del covid-19 in contesti ospedalieri, le strutture sanitarie di tutto il mondo dovrebbero prendere spunto dal caso sudafricano. “Il numero elevato di dipendenti contagiati – 80 su 119 casi totali – indica che gli operatori hanno avuto un ruolo primario nella diffusione del virus e che lo screening del personale è essenziale per arginare la diffusione del covid-19”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato su Science.
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