I blindati color sabbia della guardia nazionale sfilano per le strade del centro di Los Angeles e soldati a mitra spianati si schierano sulla scalinata bianca del municipio. Le divise quasi nere dei poliziotti sciamano tutt’attorno. I negozianti spazzano via le vetrine in frantumi, allargano le braccia sconfortati davanti agli scaffali vuoti e alle telecamere delle tv. Le auto incendiate vengono rimosse dai carri attrezzi. Un po’ di fumo si alza ancora dal tetto di un edificio ad angolo. Nelle prime ore di domenica 31 maggio, Los Angeles raccoglie i cocci della quarta giornata di proteste per l’uccisione di George Floyd a Minneapolis.

Il rituale delle ultime mattine si ripete, ogni giorno più sgomento: il capo della polizia Michael Moore conta gli arresti: 500 venerdì, 398 sabato, “centinaia” quelli di domenica, anche se ancora non fornisce dati ufficiali. Il sindaco Eric Garcetti, con il volto scavato da due notti insonni e tre mesi di crisi sanitaria dovuta al covid-19, dà sostegno a “chi esprime la sua rabbia” ed “esercita il primo emendamento”, ma precisa: “La rabbia non deve consumarci. Il progresso arriva con la pace”.

Anche il pomeriggio somiglia a quello del sabato: gli elicotteri bianchi e blu della polizia pattugliano la città dall’alto; per le strade gruppi sempre più numerosi di persone con mascherine e bandane (non per coprire il viso dalle telecamere, ma per il covid-19), striscioni e cartelli si riuniscono, si inginocchiano in silenzio, alzano i pugni e intonano cori. La città più popolata e vasta della California si prepara a un nuovo pomeriggio di manifestazioni e a un altro coprifuoco, il secondo.

La stessa impunità
Le autorità lo confermano prima dalle 20 alle 5.30, ma poi, visto che i cortei si ingrossano, lo anticipano e lo estendono dalle 18 alle 6. Due ore di luce perse per i cittadini che devono correre a casa prima del tramonto e guadagnate per le forze dell’ordine che cercano di disperdere le manifestazioni ed evitare i saccheggi di negozi e bar delle notti prima.

E se la rabbia e il dolore per l’ultima morte di un cittadino nero durante l’arresto operato da un agente bianco stanno portando centinaia di migliaia di persone in tutto il paese a manifestare pacificamente e pochi a spaccare vetrine, a Los Angeles l’uccisione di Floyd lacera ferite che non si chiudono da 30 anni. “Abbiamo visto immagini spaventose. Immagini che nella nostra città non vedevamo da una generazione”, ha detto il sindaco, del Partito democratico. Non c’è nemmeno bisogno di nominarli, Rodney King e quello che successe nella primavera del 1992, dopo che i quattro poliziotti che avevano pestato il giovane nero disarmato furono assolti. Il timore delle autorità è di tornare a quei giorni.

“Non è cambiato molto”, afferma alla tv locale Abc7 Cheryl Grills, che ha una cattedra di psicologia alla Loyola Marymount University di Los Angeles. “La stessa impunità dei poliziotti bianchi fa accumulare frustrazione e rabbia nella comunità nera. Nulla di quello che vediamo in questi giorni sarebbe successo se a Minneapolis fossero stati imputati tutti e quattro gli agenti che hanno partecipato all’arresto Floyd e se il capo d’accusa per Derek Chauvin non fosse solo omicidio colposo”.

Non sono solo neri: la mobilitazione voleva essere trasversale e interrazziale. Obiettivo raggiunto

Le differenze ci sono, ovvio. I cinque giorni dei Los Angeles riots lasciarono 63 morti e più di duemila feriti. In questi giorni, i novemila agenti del Los Angeles police department sparano proiettili di gomma e urticanti. Trent’anni fa, poi, per primo si incendiò il ghetto nero, povero e dimenticato nel sud della città, una zona dove molti losangelini non erano mai stati e forse potevano indicare a stento su una mappa.
Il 30 e il 31 maggio le proteste hanno invaso quartieri benestanti e celebri nel mondo, quelli che calzano a pennello con lo stereotipo di questa città di sogni e angeli: Santa Monica e Long Beach con le loro spiagge e i lungomare pieni di negozi e ristoranti; West Hollywood e Beverly Hills, cuore frivolo e modaiolo della metropoli.

Nelle tre giornate precedenti le manifestazioni erano convocate verso le cinque del pomeriggio, a downtown, davanti al tribunale, vicino al municipio. Il collettivo Black lives matter invece ha lanciato la convocazione per il 30 maggio a mezzogiorno al Pan Pacific Park, un grande parco pubblico, con campi da basket, fontanelle, panchine e il museo dell’olocausto. Si affaccia da un lato su Beverly boulevard e dall’altro tocca il celebre centro commerciale The Grove, che proprio quel giorno riapriva ai suoi danarosi clienti dopo la quarantena.

“Sono luoghi a cui non sento di appartenere”, dichiara una giovane manifestante a una giornalista televisiva sul posto, “noi neri non possiamo goderci le bellezze dei palazzi o delle vetrine senza temere di essere fermati perché suscitiamo sospetto in posti come questi. Sono sfinita da questa discriminazione”.

Una visione insolita
Non è facile trovare parcheggio nelle strade secondarie: in molte serve il permesso e altre sono occupate dalle auto costose e lucide dei residenti. Le bouganville e gli alberi di jacaranda sono in fiore, il sole filtra piacevole, famiglie di ebrei camminano verso la sinagoga, gli uomini in completo nero e cappello, le mogli con vestiti lunghi e un codazzo di figli di tutte le età. Passeggini, cagnolini, tappetini da yoga sottobraccio e vassoi di cibo da portare a pranzo da parenti o vicini.

È il primo fine settimana in cui Los Angeles allenta le misure contro il nuovo coronavirus e questo quartiere benestante sembra immerso in un placido e consueto sabato estivo. Più ci si avvicina alla strada principale, il luogo fissato per l’inizio della marcia in memoria di Floyd e degli altri prima di lui, più si fa costante lo sciamare di giovani con cartelli di cartone, borracce e pugni chiusi in alto. Molti sono neri, una visione piuttosto insolita da queste parti, tanto che si notano i vicini sbirciare da dietro le finestre o sul ciglio della porta con i cellulari tesi a far foto e video.

Qualcuno – pochi, ne conto tre in quasi mezz’ora di camminata – ha piantato nel giardino ben curato dei cartelli con scritto “BLM” (black lives matter) e “I can’t breathe”, le parole pronunciate da Floyd mentre moriva, il mantra di cordoglio, rabbia e impotenza di tutte queste giornate. Al punto di ritrovo, puntuali, i manifestanti sono tanti. Impossibile mantenere le distanze di sicurezza, ma tutti indossano una mascherina o almeno una bandana a coprire naso e bocca.

A sinistra: Los Angeles, 30 maggio 2020. A destra: una manifestazione a Los Angeles, il 31 maggio 2020. (Martina Albertazzi)

Gli attivisti di Black lives matter, sotto una tenda, raccolgono firme e donazioni e regalano acqua e cibo. Anche altri manifestanti trascinano borse termiche con bottigliette che distribuiscono gratuitamente. Sono soprattutto giovani, tanti poco più che adolescenti, ma ci sono anche persone di mezz’età, alcuni chiaramente affiancati da un figlio o una figlia.

Non sono solo neri: la mobilitazione voleva essere trasversale e interrazziale. Obiettivo raggiunto. “Sono bianco e sono qui con i miei fratelli. Quello che succede in questo paese alle minoranze non è giusto. Se stiamo zitti secondo me diventiamo complici della violenza. La loro lotta è anche la mia, siamo uniti”, dice Arlo, bianco e smilzo diciannovenne, nato e cresciuto a Los Angeles, che racconta di aver partecipato anche alle proteste della sera prima a downtown. I cori che cercano di coprire il rumore degli elicotteri sono mantra ripetuti per lunghissimi minuti: “Dite il suo nome”, gridano alcuni; “George Floyd”, rispondono altri. E poi: “No Justice, no peace”, versione statunitense di “non c’è pace senza giustizia”.

Per almeno tre ore e mezzo non c’è tensione. La marcia si muove rumorosa ma pacifica verso il Grove. È là che la strada è bloccata dai cordoni della polizia. E allora la protesta diventa violenta. È difficile ricostruire la dinamica degli eventi. Si vede un autobus fermo sul ciglio della strada, alcuni manifestanti gli sono saliti sul tetto. Lungo i muri compaiono scritte con lo spray: “Smettete di ucciderci”, “Acab”, “Non riesco a respirare”, le più comuni.

Il coprifuoco
Arrivano nel telefono le foto di un’auto della polizia ammaccata e in fiamme pochi metri più in là, ma impossibile da vedere per via della folla che ostruisce la vista e il passaggio. A ondate, le persone fuggono all’indietro, mentre arrivano rinforzi a sirene spiegate. La tensione sale e la sera si avvicina. Il sindaco Garcetti annuncia con un video il coprifuoco: dalle otto di sera fino all’alba i quattro milioni di abitanti devono restare a casa. Chi sta per strada va contro la legge ed è passibile di arresto.

Gli scontri a quel punto si intensificano, mentre la polizia cerca di rinchiudere i manifestanti in un’area sempre più circoscritta, questi cominciano a infrangere vetrine, a entrare nei negozi per uscirne carichi di merce, a imbrattare i muri con scritte a spray e a correre sperando di sfuggire all’arresto. Scene simili e quasi identica escalation si sono ripetute il 31 maggio a Santa Monica e a Long Beach, dove la polizia e la guardia nazionale non si sono ancora ritirati.

“Si tratta di alcuni elementi che danneggiano la causa, dirottano la protesta e alterano la discussione”, ha detto il sindaco Garcetti cercando di separare chi manifesta rispettando le regole da chi non trattiene la violenza contro l’inviolabile proprietà privata.

È la versione predominante in questa città che si considera iper-progressista. “Non avete torto, ma nemmeno ragione”, scrive sul Los Angeles Times il campione dei Lakers Kareem Abdul-Jabbar, spiegando che i due comportamenti non sono poi così in contraddizione. “Nemmeno io voglio vedere negozi saccheggiati o edifici in fiamme. Ma gli afroamericani vivono in un palazzo in fiamme da tanti anni, soffocano per il fumo di un fuoco sempre più vicino… Quindi ciò che vedete quando guardate dei neri manifestare dipende da dove vi trovate: in quel palazzo che brucia o davanti alla tv con una ciotola di pop corn, in attesa che cominci la puntata di Ncis”.

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